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Le mani del capitalismo nelle conseguenze disastrose delle alluvioni in Pakistan, India, Cina e in Europa

 

 

In Cina, nella provincia nord-orientale di Guansu, a causa di piogge torrenziali, frane  e valanghe di fango hanno provocato 337 vittime e 148 dispersi (la Repubblica, 10.8), mentre nella contea di Zhoqu, abitata per un terzo da tibetani, i morti sono più di 700 e più di 1000 i dispersi; in India, l’ondata di piogge ha provocato, nella regione del Jammu & Kashmir, nell’Himalaya indiano, violente alluvioni che hanno colpito in particolare la cittadina di Leh in Ladakh, facendo non meno di 165 morti  e oltre 400 feriti, forse più di 1000 gli sfollati (il manifesto, 10.8), e di questo i giornali europei ne hanno parlato perché quella zona è abitualmente frequentata da turisti europei che vanno a fare trekking d’alta montagna, e qualcuno questa volta è morto nel fango. Ma il conto finale non è ancora dato.

In Pakistan, non smette di piovere e una gigantesca onda di piena percorre da quasi tre settimane l’intero bacino dell’Indo – che taglia il paese da nord a sud – provocando una disastrosa alluvione: 1600 morti accertati finora (la Repubblica, 17.8), 20 milioni di sfollati, tra cui 6 milioni di bambini, oltre il 10% della popolazione del paese, raccolti persi, un quinto del territorio nazionale devastato.

La situazione si è presentata da subito gravissima a partire dalla provincia nord-orientale del Khuber-Pakhtunkwa, dove l’inondazione ha distrutto villaggi, case, ponti, campi coltivati, per poi raggiungere la parte centrale del Pakistan, il Punjab, e poi le pianure del Sindh, a sud, che sono il granaio del paese, ancora completamente sott’acqua. Inoltre l’alluvione minaccia la semina di metà settembre, e questo vorrebbe dire carestia per qualche decina di milioni di pakistani. Acqua potabile non ce n’è, molti ponti sono crollati, molte strade sono impraticabili e quindi gli aiuti immediati che servono per la semplice sopravvivenza sono ancora difficilissimi. Dissenteria, gastroenterite, colera hanno già cominciato a diffondersi. Una vera catastrofe.

I meteorologi affermano che si tratta della più grave alluvione da un secolo provocata da piogge monsoniche che sono le più forti e continue degli ultimi decenni. Ma è indiscutibile che in Pakistan, come dappertutto, il territorio ha subito parecchi dissesti dovuti esclusivamente alla mancanza di una pianificazione razionale dello sviluppo agricolo e delle risorse forestali; è altrettanto indiscutibile che in Pakistan, come dappertutto, anche nella nostra civilissima Europa, vi è l’assoluta assenza di piani di prevenzione delle conseguenze prevedibili delle piogge, mentre non manca mai una valutazione quasi immediata dei danni in termini di milioni di dollari!

D’altronde, l’intera vita degli uomini su questo pianeta, e in parte dell’ambiente naturale, dipende dall’economia capitalistica e dalla spasmodica riverca di profitto che sistematicamente cancella e distrugge – in ogni parte del mondo – qualsiasi cosa – boschi, corsi naturali dei fiumi, sottosuolo ecc. – che appaia come ostacolo e intralci la possibilità di cieco e immediato guadagno, cancellando nel contempo la memoria delle più antiche tradizioni agricole e della conoscenza e difesa del territorio che le generazioni precedenti possedevano. Questi sono alcuni motivi per i quali eventi naturali, per di più ciclici e stagionali, come le piogge monsoniche, prevedibilissimi, si trasformano nell’epoca del capitalismo in disastri di proporzioni sempre più devastanti.

I difensori ambientalisti del capitalismo, mentre vlanciano da tempo allarmi sempre più frequenti sui cambiamenti climatici provocati dalle emissioni di anidride carbonica dovute ad uno sviluppo “selvaggio” dell’ecopnomia sia nei paesi cosiddetti “emergenti” che nei paesi di vecchia industrializzazione, affermano che l’economia capitalistica si può riformare senza cambiarla dalle sue fondamenta: si può rendere “sostenibilie”. Essi sono convinti che sia possibile controllare lo sviluppo dell’economia di mercato, dell’economia capitalistica, impedendole di superare quei “limiti” che, una volta superati, provocano crisi economiche, disastri ambientali, carestie, guerre devastanti.

Il fatto è che ad ogni “disastro ambientale”, ad ogni “calamità naturale”, si deve rilevare che le loro conseguenze, soprattutto se disastrose, sono nella maggior parte dei casi imputabili all’attività umana, e precisamente all’attività economica capitalistica e alla corrispondente “gestione politica” da parte dell’unica classe che da questa attività ricava tutti i privilegi sociali: la classe borghese. Non c’è disastro ambientale e devastazione del territorio dai quali non emergano cause legate al profitto, e quindi alla corruzione, all’insipenza, all’incuria, al malaffare. Il guadagno immediato, facile, protetto dai poteri economici e politici, è l’obiettivo di ogni imprenditore, anche il più “onesto” e “legalitario”. Non è questione di “scegliere” se condurre l’azienda in modo onesto o no, perché il vero manovratore dell’attività economica e finanziaria del capitalismo non è il borghese, il capo d’azienda, il “padrone”, ma il mercato alle leggi del quale il borghese, il capo d’azienda, il “padrone” si devono sottoporre, pena la loro rovina economica e sociale.

Il mercato ha leggi che non si piegano secondo la volontà di tizio o caio, ma sono tutti i tizi e i cai che, per mantenere i privilegi economici e sociali tipici dei borghesi nella società capitalistica, devono sottostare alle sue leggi, alla legge del valore, del profitto capitalisttico, della redditività e competitività aziendale.

Le disastrose alluvioni come quelle che stanno devastando il Pakistan, e l’India e la Cina, ma che hanno messo a dura prova quest’estate anche la supercivile e organizzata Germania, sono in gran parte la conseguenza di una vera e propria guerra di saccheggio che il capitalismo conduce ormai sotto ogni cielo non solo contro la stragrande maggioranza della popolazione umana disseminata in tutto il mondo, ma anche contro l’ambiente naturale. Anche se lo sviluppo economico e scientifico che caratterizza la società borghese è immensamente più forte e potente rispetto alle società di classe precedenti, esso non ha e non avrà mai il potere di piegare le forze della natura ai propri interessi e voleri. Eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti, uragani, cicloni, glaciazioni o desertificazioni esprimono fenomeni che l’uomo della società moderna ha appena cominciato a riconoscere e ad analizzare, ma che è oggettivamente impedito a conoscerne le cause più profonde e le complesse linee di sviluppo proprio per la visioone distorta e del tutto miope del mondo che lo circonda, perché è immerso nella meschina e fuggevole realtà della mistificazione mercantile e superstiziosa generata dal modo di produzione capitalistico che mette al centro della vita economica e sociale dell’umanità – e quindi delle sue capacità conoscitive – la produzione di valori fittizi, come appunto sono le merci, e la conseguente produzione di ignoranza e superstizione come appunto è la produzione per lo scambio mercantile e per accumulare denaro. Ciò che il capitalismo è spinto storicamente a fare, passato il periodo della rivoluzione antifeudale e antidispotismo asiatico, è di utilizzare le “scoperte”, le “innovazioni”, le più avanzate “tecnologie” solo in funzione della produzione e riproduzione capitalistica, bloccando ogni possibile sviluppo scientifico e di conoscenza che non sia immediatamente, o in breve tempo, trasformabile in profitto capitalistico. In questo va cercata la causa della incapacità della borghesia di organizzare la vita economica e sociale in funzione della vita di specie e del suo sviluppo, invece che del mercato e del profitto capitalistico. E dato che il capitalismo trae più profitto dalle distruzioni e dalle catastrofi che non dalle misure di prevenzione, ben vengano per il capitalismo le devastazioni e le catastrofi. Abbiamo spesso chiamato il capitalismo come economica della sciagura. Ad ogni “calamità naturale” tale affermazione trova una tragica conferma!

Per il capitalismo non c’è limite allo sfruttamento del lavoro umano, in tutti i sensi, fino allo sfruttamento cinico e brutale di masse di uomini donne e bambini abbandonati alla miseria e alla morte per fame, per malattia o a causa di guerre di rapina. E non c’è limite nemmeno allo sfruttamento delle risorse naturali che di epoca in epoca possono rappresentare fonte di profitto capitalistico; ma lo sfuttamento è egualmente cinico e brutale. Per virtù propria, o per le illusorie prediche ambientaliste, il capitalismo non si fermerà mai in questa sua cieca corsa al profitto. Lo può fermare solo una forza sociale più potente ed egualmente mondiale: la clase proletaria internazionale in lotta contro la classe borghese e tutte gli strati sociali che vivono parassitariamente dello sfruttamento capitalistico, la classe proletaria che è l’unica forza sociale che ha già dimostrato di poter fermare la guerra imperialista trasformandola rivoluzionariamente in guerra di classe, come nel 1917 russo, ma che le vicende storiche non hanno permesso a quella prima rivoluzione proletaria di espandersi vittoriosamente in tutto il mondo ed essere anche l’ultima e definitiva rivoluzione che apriva finalmente la società umana alla sua storia di specie e ad un suo sviluppo in armonico rapporto anche con la natura.

Una potente rivoluzione ha aperto la strada allo sviluppo delle forze produttive e del capitalismo in Europa e nel mondo; ma quella rivoluzione, mentre la faceva finita con ogni economia chiusa e feudale aprendo alla società borghese le porte del mondo, portava lo sviluppo delle società divise in classi al suo massimo grado, semplificando gli antagonismi sociali e universalizzandoli, al di là del quale c’è soltanto la società senza classi, il comunismo. La stessa società capitalistica mette in questo modo le basi economiche per lo sviluppo ulteriore che storicamente richiede un passaggio rivoluzionario ancora più potente e violento di quanto non sia stato quello borghese, la rivoluzione proletaria mondiale. Il limite che il modo di produzione capitalistico non può superare è dato da se stesso: è il modo di produzione capitalistico che non ha alcuna possibilità di trasformarsi in un modo di produzione superiore, perché per quanto sviluppi se stesso e le forze produttive che lo definiscono – capitale e lavoro salariato – non fa che riproporre la contraddizione e l’antagonismo fra capitale e lavoro salariato, e riproporre la sua corsa forsennata verso crisi economiche e sociali sempre più devastanti. Il capitalismo si nutre di crisi, di sciagure, di distruzioni, di catastrofi, di guerre, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente, ma la  storia delle società umane insegna che oltre un certo limite di sopportazione l’uomo reagisce con estrema violenza e a fronte di condizioni storiche favorevoli rivoluziona da cima a fondo la propria società.

Allora non sarà più il mercato a dettare legge, a dettare le regole del comportamento umano, perché il mercato sarà definitivamente scomparso e sostituito da una organizzazione sociale razionale e pianificata, in grado di utilizzare le energie sociali e le risorse naturali nel modo più consapevole e lungimirante avendo come finalità permanente la soddisfazione dei bisogni della specie in armonia con la natura e non momento per momento, ma di generazione in generazione.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

18 agosto 2010 - Supplemento a «il comunista» n. 117

www.pcint.org

 

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