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Egitto in fiamme

 

Una forte e insistente ondata di rabbia delle masse arabe affamate e disoccupate sta mettendo a dura prova la tenuta del giovane, vorace e brutale capitalismo dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, sostenuto dal vecchio e brigantesco capitalismo d’Europa e d’America.

Anticipazione di un terremoto  sociale che solo l’entrata in scena della lotta di classe proletaria potrà risolvere a favore della stragrande maggioranza della popolazione.

 

Da cinque giorni le strade e le piazze del Cairo, di Alessandria, di Suez e di molte altre città egiziane sono teatro di una forte e insistente ondata di rabbia di masse che non sopportano più di essere state ridotte alla fame, schiave della disoccupazione e della miseria. Dopo Tunisi e Algeri, ora tocca al Cairo.

I media dell’opulento mondo occidentale, che ormai non possono nascondere la durissima repressione poliziesca, indirizzano tutte le informazioni sull’unico binario che interessa le classi dominanti occidentali: le “mancate riforme” e la mancanza di una “vera”democrazia! Hanno dovuto attendere che le masse sfogassero la loro incontenibile rabbia assaltando gli edifici del potere, bruciando tutto quel che potevano, tirando sassi, scontrandosi corpo a corpo con la polizia e cadendo sotto i suoi colpi di fucile, rovesciando e incendiando camionette e blindati, fregandosene spavaldamente del coprifuoco e non facendosi intimorire dalla brutalità della repressione borghese, per “ricordare” che i regimi foraggiati, protetti e armati fino ai denti dalle civilissime democrazie occidentali e soprattutto dagli Stati Uniti, sono in realtà regimi che hanno mantenuto l’ordine e il controllo sociale – soprattutto per conto delle potenze imperialiste – solo attraverso una sistematica violenza poliziesca, arrestando, torturando e mettendo a tacere con tutti i mezzi a disposizione qualsiasi protesta, qualsiasi “opposizione”. Come contropartita, questi regimi hanno avuto mano libera nel depredare a man salva il proprio paese, accumulando negli anni enormi ricchezze per i propri clan.

I timidissimi richiami al regime di Mubarak, come quelli precedenti al tunisino Bel Alì e quelli “preventivi” al re giordano Abdallah, perché siano concesse riforme attraverso le quali tacitare le più urgenti richieste delle masse – pane e lavoro, in pratica – fanno capire come Barak Obama, Angela Merkel, Nicolas Sarkosy e compagnia siano stati sorpresi dall’ondata di sommosse che sta espandendosi in tutti i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente.

Le democrazie occidentali sono davvero preoccupate dell’indigenza e della  miseria in cui sono precipitati da anni i proletari e le masse contadine di questi paesi? Per niente! In paesi in cui il capitalismo sta marciando nell’unica maniera possibile - data la sviluppatissima concorrenza interimperialista a causa della quale la popolazione di tutto il mondo è sottoposta ad una sistematica oppressione economica, sociale, politica e militare - nella maniera più selvaggia e brutale che mai la storia umana ha conosciuto; in paesi in cui il moderno modo di produzione capitalistico aveva illuso di portare civiltà e benessere, si sta sempre più evidenziando che il presente e il futuro per le loro masse lavoratrici è fatto solo di sfruttamento, di miseria, di fame e di repressione. I regimi che da venti o trent’anni, come Bel Alì in Tunisia e Mubarak in Egitto, pesano prepotentemente sulle spalle del loro popolo, e che oggi assaggiano una piccolissima dose della violenza che hanno somministrato per decenni agli odierni rivoltosi al solo scopo di “mantenere l’ordine capitalistico” per conto delle potenze imperialiste e per i propri privilegi, sono gli stessi regimi che per tutti questi decenni sono stati il punto d’appoggio delle potenze imperialiste che dominano il mondo.

Oggi, di fronte all’incontenibile esplosione di intolleranza da parte delle masse arabe affamate e disoccupate, Washington, Londra, Berlino, Parigi, Roma, Bruxelles, indirizzano al Cairo, come ieri a Tunisi e ad Algeri, e come a San’na, ad Amman, a Rabat, a Beirut, l’ammonimento ad aprire nei loro paesi la strada alla “libertà d’espressione”, ad avviare “riforme” che rispondano alle esigenze elementari della vita civile, a “fermare” la violenta repressione… Parole che non risolveranno mai alcunché, ma che alimentano la velenosa illusione che con un po’ di “democrazia”, con meno corruzione e meno avidità da parte dei potenti locali o stranieri, la situazione per le masse possa migliorare. I ben pasciuti democratici occidentali sanno per esperienza che le mille carte della “democrazia” possono essere giocate sui diversi scenari allo scopo di deviare le sommosse popolari verso obiettivi che non metteranno mai in discussione il modo di produzione capitalistico, ma che si limitano a cambiare i governi. Non è un caso che, dalle piazze in fiamme, i partiti di “opposizione” ai regimi attuali facciano convogliare la rabbia delle masse nelle rivendicazioni di “Bel Alì vattene!”, “Mubarak vattene!”: vogliono semplicemente approfittare di queste sommosse per sostituire le famiglie e i clan dei Mubarak e dei Ben Alì al governo dei rispettivi paesi. Per le masse che cosa cambierà? Sostanzialmente nulla, perché in cambio di un po’ di “libertà” di espressione e di “libere” elezioni ci sarà la continuazione del brutale sfruttamento delle masse proletarie e contadine povere a vantaggio del profitto capitalistico che in Egitto, in Tunisia o in Giordania si ottiene esattamente come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Italia o in Francia: sfruttando nel modo più intenso possibile la forza lavoro proletaria, schiacciando le condizioni di esistenza delle masse contadine al livello di pura sopravvivenza. Ma in Egitto, in Tunisia, in Algeria o in Giordania l’oppressione capitalistica è ancora più intollerabile che a Londra o a New York, a Parigi, a Roma o a Berlino, perché, in sovrappiù, vi cala anche l’oppressione imperialistica grazie alla quale le brigantesche borghesie opulente americane ed europee riempiono i propri forzieri e comprano la complicità dei partiti e dei sindacati che organizzano e controllano i rispettivi proletariati!

Le sommosse che scuotono il mondo arabo oggi, annunciano tensioni e sommosse future anche in Europa: il Mediterraneo, il vecchio e caro “mare nostrum” degli antichi romani, potrebbe trasformarsi in un mare di fuoco che incendia l’intero Vecchio Continente perché la crisi capitalistica che ha terremotato le economie occidentali negli ultimi due anni, dei cui riflessi, ritardati ma inesorabili, stanno soffrendo i paesi dell’immediata cintura periferica dei paesi imperialisti, non sarà superata dal capitalismo che al prezzo di opprimere ancor di più le masse lavoratrici di ogni paese.

I proletari nordafricani, mediorientali, balcanici, in questi mesi, con la loro sollevazione di rabbia portata avanti a mani nude, stanno gridando al mondo che il capitalismo non è in grado di soddisfare le elementari esigenze di vita delle masse e che la situazione intollerabile deve cambiare. I proletari d’Europa e d’America stanno attoniti a guardare! Spaventati ma allo stesso tempo inorgogliti da rivolte che mettono in fuga governanti prepotenti e sanguinari, ma attoniti stanno a guardare! I proletari dei paesi più ricchi del mondo, sottoposti anch’essi a condizioni di vita e di lavoro estremamente peggiorate rispetto ai decenni passati, non riescono a ribellarsi alla stessa maniera; sono più “civili”, sono nati e cresciuti nel rispetto della “legalità democratica”, sono da decenni ingannati dal mito di una democrazia di cui vedono ogni giorno l’inefficienza e l’impotenza a risolvere i loro problemi di sopravvivenza quotidiana, ma di cui fanno fatica a liberarsi per dare sfogo alla spinta materiale e “naturale” di ribellione che ogni schiavo sente in cuor suo! I proletari d’Europa hanno, però, una storia, una storia di lotte di classe, una storia di lotte rivoluzionarie non solo contro i vecchi regimi feudali ma soprattutto contro i moderni regimi borghesi capitalistici; è a questa loro storia passata che possono, e devono, ricollegarsi se non vogliono rendersi continuamente complici delle proprie borghesie imperialistiche; essi devono riannodare il filo rosso della lotta di classe che li ha visti protagonisti di gloriose lotte per l’emancipazione dallo sfruttamento capitalistico, che li ha visti protagonisti di rivoluzioni che hanno – quelle sì! – fatto tremare tutti i poteri imperialisti della moderna civiltà borghese!

I proletari dei paesi di giovane capitalismo, i proletari del Vicino e  Medio Oriente come del Nord Africa che in questi mesi stanno lanciando una potenziale sfida ai propri regimi borghesi, imboccando la strada della democrazia e di elezioni suppostamene non corrotte (sulla quale li stanno spingendo le stesse forze d’oppressione che ieri li hanno spinti in bocca ai clan dei Mubarak, dei Ben Alì o dei Bouteflika) non riusciranno a vedere un vero futuro per la propria classe, un futuro di emancipazione da uno sfruttamento che non potrà che essere sempre più duro, da uno sfruttamento che, come oggi getta le masse nella fame e nella miseria domani le trasformerà in carne da cannone; d’altra parte, non è forse già successo nelle guerre contro Israele, tra Iraq e Iran, tra Iraq e Kuwait o nelle guerre del Libano? I nazionalismi, di cui i vari regimi arabi hanno imbevuto le proprie masse per difendere gli interessi di casta e di fazioni borghesi di volta in volta affittate alla potenza imperialistica più intraprendente o più finanziariamente generosa, sono l’altra faccia della medaglia che si sposa perfettamente, se occorresse un’ulteriore dose di “collante sociale”, con il fondamentalismo religioso come ha dimostrato l’Iran di Komeini e il sionismo in Israele.

I proletari dei paesi arabi, che oggi esprimono la loro rabbia al di fuori di ogni strumentalizzazione religiosa, non potranno rimanere a lungo nella situazione di sottilissima laicità in cui si sono mossi in queste settimane. I regimi borghesi, anche quando precipitano in crisi politica come in Tunisia, in Egitto e come potrebbe succedere in Marocco, in Giordania e perfino nella Libia del rais Gheddafi, possono sempre contare – al di là dei singoli governanti e dei loro clan – sull’appoggio delle potenze imperialistiche che, pur se sorprese dalla violenza delle rivolte, sanno che le masse, se non sono influenzate e dirette, come non lo sono, dal partito proletario di classe – partito che possiede un programma rivoluzionario e la determinazione per preparare le masse alla futura rivoluzione anticapitalistica – sono masse che, sfogata la violenza e la rabbia accumulata in anni di sfruttamento e di oppressione, possono essere ricondotte ad una normalizzazione grazie al vecchio ma sempre efficace gioco della democrazia; e, se dovesse servire alla normalizzazione borghese, attraverso la quale continuare a fare gli affari, potrebbe anche essere accettata una soluzione di tipo islamico come, ad esempio, in Turchia.

I proletari, perciò, hanno davanti a sé sostanzialmente tre strade: tornare nel silenzio e nell’invisibilità come prima delle rivolte ma dotati di “libertà di espressione” e di “organizzazione” nella nuova “legalità” imposta da nuove fazioni borghesi e concordata con le potenze imperialiste senza l’accordo delle quali sarebbe molto difficile durare al governo a lungo; farsi rappresentare da partiti islamici che, attraverso la loro battaglia contro il malcostume e la corruzione, riescono a convogliare le aspirazioni di masse disgustate dalla degenerazione dei propri governanti; imboccare la via dell’organizzazione di classe, in difesa esclusivamente dei propri interessi immediati ma nella prospettiva di rivoluzionare l’intera società borghese immersa nella mercificazione di ogni attività, di ogni aspirazione, di ogni rapporto esistente.

La strada della lotta di classe è la più difficile, indiscutibilmente, e appare la più lontana perché il bisogno quotidiano di sopravvivenza in questa società spinge ogni individuo a vedere solo il proprio bisogno personale e, quindi, a confondere la propria vita nell’oggi e in futuro con l’idea che la stessa società borghese propaganda per se stessa: una vita di concorrenza, una vita di sopraffazione, una vita di “ricchi” e di “poveri”, di “fortunati” e di “sfortunati”, una vita in cui ognuno alla fin fine deve pensare solo a se stesso. Ma i proletari poggiano su rapporti di produzione e sociali da cui non possono estraniarsi; non possono “scegliere”, essi sono la forza lavoro salariata che i capitalisti devono impiegare allo scopo di ottenere i profitti. E’ la condizione materiale di classe salariata che fa dei proletari una classe che condivide gli stessi interessi immediati, interessi di sopravvivenza, di difesa della vita e delle condizioni di lavoro in ogni luogo e in ogni paese. Essi devono seguire la spinta materiale ad unire le forze per difendere meglio e con più efficacia le loro condizioni di esistenza: è in questo movimento di difesa che nasce la solidarietà proletaria, la consapevolezza di avere in mano una forza che non si limita a sfogare rabbia e insoddisfazione, ma che può essere organizzata per un futuro diverso da quello di eterni sfruttati dal capitale!

I proletari europei, a loro volta, proprio per la storia passata del loro movimento di classe, hanno tutto da perdere standosene a guardare che cosa succede sulle altre sponde del Mediterraneo. Le rivolte delle masse affamate e disoccupate del Nord Africa e del Medio Oriente li riguarda molto più direttamente di quanto non possano pensare: sono proletari che, spinti dalla fame e dalla miseria, e respinti nei loro paesi dalla repressione borghese, si rivolteranno ciclicamente e una parte di loro varcherà i confini dei paesi europei alla ricerca di mezzi di sopravvivenza che nei propri paesi non trovano più, come d’altra parte sta succedendo da diversi decenni. Dimostrazione ulteriore che le condizioni di lavoratori sfruttati dal capitale sono le stesse sotto qualsiasi cielo! I proletari europei già hanno assaggiato la concorrenza tra proletari, dello stesso paese e, con l’immigrazione dai paesi della periferia dell’imperialismo, dei paesi extra-europei e più poveri; il capitalismo come non può funzionare se non sfrutta sempre più intensamente il lavoro salariato così non può funzionare se non lo sfrutta attraverso una concorrenza sempre più acuta tra gli stessi proletari. Ecco perché ai proletari europei le rivolte di massa nei paesi del Mediterraneo devono interessare, eccome! Sono in realtà gli unici che non hanno motivo di spaventarsi di queste rivolte, che non hanno alcun motivo di temere che l’incendio dal Nord Africa raggiunga le capitali europee. Sono gli unici perché fanno parte della stessa classe di lavoratori salariati, sfruttati da capitali che sono intrecciati tra di loro da una fittissima rete di interessi che lega una borghesia alle altre, e che va combattuta in ogni occasione che si presenta; ma perché la lotta abbia efficacia e un futuro, deve conquistare il livello della lotta di classe, deve sganciarsi dalle illusioni e dai miti di una “legalità” e di una “democrazia” che qualsiasi borghese, qualsiasi capitalista sotto la pressione delle rivolte di piazza è disposto a concedere e a farsene promotore “contro” rappresentanti, ormai squalificati e politicamente bruciati, della stessa classe; salvo poi, a “normalizzazione” avvenuta, calpestarle senza scrupoli!

La lezione da tirare sulle rivolte che non si fermano nei paesi arabi, è appunto una lezione di lotta proletaria: la via da imboccare per i proletari di là e di qua del Mediterraneo, come del resto in ogni altro luogo del mondo, è la via della lotta di classe, della lotta che veda i proletari ergersi a difesa non di una falsa e decrepita democrazia borghese, ma di interessi di classe che rappresentano storicamente il futuro della società umana, il futuro dell’emancipazione dal modo di produzione capitalistico, da ogni oppressione sociale, economica, politica, militare che definisce la società borghese, la società del capitale.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

30 gennaio 2011

www.pcint.org

 

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