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Libia: è strage!

Il cannibalismo del governo di Tripoli mostra il vero volto del potere capitalistico libico, sostenuto, protetto, adulato e riverito per decenni dai governi italiani di qualsiasi colore!

 

 

Dopo le rivolte delle masse in Tunisia e in Egitto, la cui pressione ha mandato a gambe all’aria i sistemi di governo organizzati intorno alle famiglie di Ben Alì e di Mubarak, è stata la volta della Libia e del sistema di governo imperniato intorno alla famiglia di Gheddafi e alle tribù che lo sostengono da più di quarant’anni. Con una differenza rispetto agli altri paesi: la rivolta delle masse inermi in Libia si è trasformata in rivolta armata; reparti dell’esercito, dell’aviazione, della marina si sono rifiutati di sparare e bombardare la popolazione e alcuni di loro sembra siano passati dalla parte della popolazione, mentre Gheddafi e i suoi accoliti possono contare soltanto sui militari delle tribù della Tripolitania e sui mercenari africani e balcanici assoldati appositamente per reprimere la sollevazione popolare.

Nessuno di quei governi, però, sarebbe durato tanto – Ben Alì più di vent’anni, Mubarak trent’anni e Gheddafi più di quaranta – se non avesse potuto contare sull’appoggio, le coperture e la legittimazione internazionale da parte delle grandi potenze imperialistiche mondiali. Stati Uniti innanzitutto, nella loro qualità di imperialisti più potenti del mondo, e poi Gran Bretagna, Francia e Italia, nella loro qualità di vecchi padroni colonialisti del Nord Africa e del Medio Oriente, senza dimenticare la vecchia Urss quando, in concorrenza con gli imperialismi occidentali, tentava di penetrare nell’area mediorientale e mediterranea. Gli urti diplomatici che, di volta in volta, hanno alzato la tensione tra le potenze imperialistiche ora in un paese, ora in un altro – e  che talvolta hanno innescato azioni militari dirette, come nel caso della nazionalizzazione del Canale di Suez da parte dell’Egitto nel 1956 o nel caso dell’estensione delle acque territoriali libiche nel Golfo della Sirte nel 1981, per non parlare delle più recenti guerre del Golfo o delle guerre arabo-israeliane – non sono stati che la rappresentazione normale della concorrenza fra Stati borghesi che, raggiunto un certo punto di rottura nella guerra economica e commerciale, sbocca inevitabilmente in guerra guerreggiata.

Il quadro economico generale però non cambia, anzi, in un certo senso – soprattutto nelle aree in cui l’instabilità politica e territoriale succeduta alla cosiddetta decolonizzazione poteva mettere in serio pericolo gli interessi economici e finanziari delle metropoli colonialiste – avere  a che fare con governi autoritari e dispotici che davano “garanzia di stabilità” era per i paesi imperialisti il “prezzo da pagare” per il buon andamento dell’economia mondiale e dei profitti capitalistici! Non solo, se da un lato Mubarak servì all’imperialismo occidentale per tenere a bada gli indomabili proletari palestinesi allacciando buone relazioni con Israele, Gheddafi da parte sua serviva per controllare i flussi migratori delle masse africane verso l’Europa. D’altra parte, anche il recente accordo del 2008 tra Berlusconi e Gheddafi ha messo tra le sue principali clausole il controllo dell’emigrazione! E quest’ultimo costituisce un punto a favore del mantenimento di Gheddafi al potere, magari in una Libia spezzettata, per cui il governo italiano ha continuato sostanzialmente a sostenerlo pur di fronte al massacro iniziato contro i rivoltosi; è nota la cinica frase di Berlusconi quando dichiarò che non interveniva presso il suo amico Gheddafi per “non disturbarlo” in un momento così grave per la Libia…

Dal 15 al 20 febbraio, nelle scorse “cinque giornate di Bengasi”, una gran parte della popolazione si è sollevata contro il dispotismo di Tripoli sull’onda delle rivolte di massa che hanno già sconquassato Tunisia ed Egitto e che stanno estendendosi con diverse gradazioni in Algeria, in Marocco, in Yemen, in Barhein, in Iran, in Giordania, in Kuwait. Dalla Cirenaica, nella Libia orientale, il moto di ribellione in dieci giorni si è esteso a tutta la costa raggiungendo la capitale Tripoli, dove sembra si sia asserragliato Gheddafi coi suoi pretoriani, e da dove il “capo rivoluzionario”, come ancora ama definirsi in ricordo della sedicente rivoluzione del 1969 (in realtà colpo di Stato incruento con cui fu deposto re Idris I), ha lanciato la sua guerra contro il suo stesso popolo.

Giorno dopo giorno, il conteggio dei morti saliva da qualche decina a diverse centinaia; oggi la tv Al Jazeera parla addirittura di 10mila morti e di 50mila feriti: una strage, perpetrata dai poliziotti, dai soldati e dai mercenari chiamati da Gheddafi al fine di schiacciare nel sangue la rivolta e riprendere il controllo del paese e degli affari!

Il cannibalismo del governo di Tripoli mostra il vero volto del potere capitalistico libico, recita il titolo di questo nostro testo. Parliamo di potere capitalistico perché è il vero potere economico e politico su cui esseri mostruosi del genere Gheddafi poggiano sistemi di governo che opprimono le più larghe masse, sistemi con i quali le borghesie di tutti i paesi sfruttano nel modo più bestiale possibile le masse proletarie autoctone e immigrate, sistemi con i quali le borghesie dei paesi gonfi di petrolio, di gas naturale e di qualsiasi altra risorsa mineraria e del sottosuolo, accentrano in pochissime mani le grandi ricchezze dei loro paesi, mentre alle grandi masse, schiacciate nella miseria e nella fame, non è permesso nemmeno rivendicare una qualche forma di diritto.

I rappresentanti delle grandi democrazie occidentali, che si vantano delle libertà di cui godrebbero i popoli dei paesi occidentali, di fronte alle stragi che si consumano in questi mesi nei paesi del mondo arabo per mano di governanti che loro stessi hanno sostenuto e foraggiato, e con cui hanno fatto affari d’oro sotto la protezione di poteri dispotici e apertamente dittatoriali, non hanno che un pensiero dominante: salvare i profitti che provengono dai rifornimenti petroliferi, dalla vendita di armi, dalle infrastrutture con cui “modernizzare” quei paesi! Le borse a Washington, a Londra, a Parigi, a Berlino, a Milano cedono di qualche punto a causa del caos provocato dai moti di rivolta nei paesi arabi? E’ un “problema internazionale”, ne va della finanza e dell’economia mondiale, si alzano grida d’allarme perché si torni al più presto alla pacificazione sociale! A migliaia vengono uccisi, bombardati, imprigionati, torturati in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Algeria? E’ un “problema” dei tunisini, degli egiziani, dei libici, degli algerini, “problemi interni” ai loro paesi, nei quali “non ci si intromette”! Le grandi fabbriche di armi leggere e di armamento bellico americane, italiane, francesi, tedesche, inglesi, russe, che hanno riempito gli arsenali militari anche di questi paesi, hanno una preoccupazione dominante: ora che non ci sono più Ben Alì e Mubarak e che Gheddafi sta contando i suoi ultimi giorni, con chi continueremo a fare gli affari? Chi se ne importa delle migliaia di civili inermi ammazzati dalla soldataglia prezzolata: i profitti capitalistici devono essere salvaguardati, costi quel che costi! E se non ci sarà più un Gheddafi, bisognerà trovare qualcuno al posto suo col quale continuare a fare affari…

Un grande timore attraversa Roma, Madrid e Atene, che guardano direttamente il  Mediterraneo, e le capitali europee più importanti: l’invasione di centinaia di migliaia di fuggiaschi dai paesi del Nord Africa e del Medio Oriente sconquassati dalla crisi economica e dalle rivolte sociali, non più frenati da governi aguzzini. Una grande paura gela il sangue nelle vene dei governanti dell’Unione Europea, per i quali parlano chiaro i ministri italiani: solo dalla Libia potrebbero arrivare in Italia fino a trecentomila immigrati, ma se si pensa che solo in Libia sembra siano ammassati più di due milioni e mezzo di immigrati da altri paesi africani (secondo il ministro della difesa italiano La Russa), l’allarme per una possibile invasione di masse disperate che fuggono dalla miseria, dalla repressione e dalla guerra, percorrendo un vero e proprio corridoio aperto verso l’Italia e l’Europa costituito da una Libia crollata, sarebbe altissimo. Ed è per questo allarme che, davanti alle coste libiche, hanno cominciato a posizionarsi navi da guerra italiane! 

Il vero volto del capitalismo non è la facciata democratica dei diritti di parola, di manifestazione, di riunione, di organizzazione. Questi diritti, là dove esistono, sono stati comunque conquistati da lunghe lotte sociali delle quali il proletariato è sempre stato protagonista indiscusso; ma sono diritti che vengono prima o poi calpestati, perché il diritto borghese che deve primeggiare, anche a costo di limitare, ridurre o sospendere gli altri diritti democratici, è il diritto di sfruttare nel modo più vasto e intenso il lavoro salariato per estrarne pluslavoro, e quindi plusvalore che, per i capitalisti, si trasforma in profitto. La facciata democratica dei poteri borghesi, di fronte agli acuti problemi sociali che spingono le masse proletarie e proletarizzate, stremate dalla fatica del lavoro e dalla fame, a premere contro i baluardi del potere capitalistico rovesciandone i simboli, mostra tutta la sua mistificazione: la rivolta, anche armata, che scuote tremenda i regimi dispotici tenuti in piedi dalle democrazie imperialiste, può anche farla finita coi governi borghesi locali che hanno usato il massimo di repressione possibile nel tentativo di schiacciarla e di riprendere il controllo del paese; ma, consegnando ad altri governanti borghesi, meno coinvolti nel potere corrotto e dispotico precedente, il compito di “ripristinare la normale vita civile” ed aprire il paese alla “vita politica democratica”, non succede nulla di diverso che la continuazione del dominio del capitale sul lavoro, del dominio degli interessi capitalistici nazionali e imperialistici sull’intera popolazione e, in particolare, sul proletariato Qualche strato di piccola borghesia, gli avvocati, i giudici e soprattutto i militari potranno anche vedere soddisfatte le loro esigenze di prestigio sociale, ma la grandissima massa di proletari e di contadini poveri continuerà a non contare nulla e a rincorrere le proprie esigenze di vita quotidiana come prima, se non con difficoltà addirittura maggiori. Ed è anche per quest’ultimo motivo che a milioni, in questi ultimi anni, sono emigrati affrontando rischi e pericoli di ogni genere, e che anche in questi giorni continuano ad emigrare.

Ma le masse che emigrano, costrette dalla miseria, dalla fame, dalla repressione, dalla guerra, che cosa trovano nei ricchi paesi d’Europa? Trovano i centri di detenzione per clandestini, veri e propri lager; trovano le polizie e i militari più armati del mondo a perseguitarli, imprigionarli, respingerli; trovano lavoro sottopagato e illegale, trovano razzismo e pregiudizi piccoloborghesi anche quando riescono ad avere la “cittadinanza” del paese in cui hanno messo su famiglia. La civiltà borghese dei paesi che insegnano al mondo che la democrazia è il “bene fondamentale della vita civile”, poggia sempre sulla stessa base economica che ha segnato il destino dei paesi meno sviluppati capitalisticamente: sullo sfruttamento del lavoro salariato, e quindi sul dominio economico, sociale e politico della classe dei capitalisti che possiedono tutto, sia i mezzi di produzione che i prodotti, dunque possiedono il “diritto” di vita e di morte su milioni di proletari che abitano il mondo.   

 

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Sorprese dall’incendio sociale che si è sviluppato da oltre due mesi nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, le cancellerie delle capitali imperialiste d’Occidente e d’Oriente hanno continuato a “richiamare” i governi di questi paesi a “non esagerare” con la repressione e a “dare ascolto” alle richieste di “libertà” e di “riforme” che dalle piazze si alzavano. E’ caduto Ben Alì a Tunisi, è caduto Mubarak a il Cairo, è in caduta libera Gheddafi a Tripoli, vacilla Bouteflika ad Algeri: governi, per tanti anni dati per stabili, cedono, non sono più in grado di controllare le proprie masse, non sono più in grado di controllare i propri proletariati. Le cancellerie delle capitali imperialiste non temono tanto quel che succede oggi; temono quel che potrà succedere domani: temono che i movimenti sociali di rivolta popolare di oggi aprano la strada a movimenti di rivolta di segno proletario domani, temono che il proletariato contro cui la borghesia di ogni paese conduce la sua lotta di classe riconosca nel movimento di rivolta la forza sotterranea di un movimento di classe e che, perciò, accetti finalmente, apertamente, la lotta di classe contro la propria borghesia. Le cancellerie delle capitali imperialiste temono che, con la caduta di Gheddafi in Libia, si apra una fase ulteriore di rivolta sociale negli altri paesi dell’area, incoraggiando i proletari non solo dei paesi arabi ma anche degli altri paesi d’Africa e d’Asia a sollevarsi contro il dispotismo borghese e capitalistico. Allora si capisce l’attuale cambiamento di atteggiamento da parte di Washington che oggi, quando l’andamento della rivolta armata in Libia fa presupporre la fine di Gheddafi, minaccia di intervenire militarmente in Libia.

Sfortunatamente per le sorti dei proletari dei paesi in rivolta, all’ordine del giorno non è ancora la lotta di classe proletaria: le illusioni delle libertà e delle riforme democratiche sono ancora tanto forti e radicate da offuscare drammaticamente i veri interessi di classe dei proletari. E i proletari d’Europa e d’America, da decenni intossicati dal veleno democratico e collaborazionista, stanno a guardare, invece di accogliere queste rivolte sociali come un’occasione per scendere anch’essi in lotta contro le proprie borghesie imperialiste, veri vampiri che hanno succhiato il sangue di intere generazioni di proletari e di contadini arabi e mediorientali, dimostrando così di non essere complici delle repressioni, delle guerre, del brutale schiacciamento di ogni parvenza di vita civile che caratterizzano la situazione di quei paesi; dimostrando così di solidarizzare con i proletari dei paesi della periferia dell’imperialismo, unici veri alleati a difesa degli interessi proletari più generali, con gli unici fratelli di classe che popolano ogni paese del mondo.

Mubarak, Ben Alì, Gheddafi, e un domani anche il re del Marocco o di Giordania, possono essere sostituiti da rappresentanti dei partiti di opposizione, dei partiti democratici, da qualche giovane colonnello che si autodefinisce rivoluzionario o da qualche esule politico rientrato in patria grazie alla caduta del despota: ma la musica per i proletari cambierà poco. Le capitali imperialiste hanno già sperimentato molte volte questi cambiamenti, cercando di indirizzarli sempre verso il mantenimento dei cosiddetti “equilibri internazionali” anche se questi equilibri vengono continuamente messi in discussione dalla stessa concorrenza capitalistica e inter-imperialistica. Il vero e sostanziale cambiamento non potrà avvenire che attraverso la ripresa della lotta di classe, lotta alla quale il via potrebbe anche esser dato dai moti di rivolta nei paesi della immediata o lontana periferia dell’imperialismo, ma che dovrà necessariamente svilupparsi nei paesi più industrializzati perché sono essi il cuore pulsante del Moloch capitalistico mondiale!

 

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I comunisti rivoluzionari salutano con favore le rivolte sociali nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente non solo perché abbattono regimi dispotici e sanguinari, ma perché stanno svelando le vere caratteristiche dei poteri borghesi sia in quei singoli paesi, sia nei paesi imperialisti. I comunisti rivoluzionari, sapendo che questi movimenti, mobilitando le diverse classi sociali che formano il popolo “affamato” di democrazia, non potranno svilupparsi in quanto tali in movimenti di classe e rivoluzionari, guardano soprattutto le cause materiali, e non ideologiche, che ne hanno scatenato una coraggiosa ribellione per lo più disarmata, e che hanno riportato un giovane e battagliero  proletariato a scioperare e a manifestare nelle piazze e nelle strade. I comunisti rivoluzionari non si aspettano che le rivolte sociali odierne si trasformino in lotta di classe futura: i proletari dovranno organizzarsi e lottare indipendentemente da ogni altra classe e strato sociale, a difesa esclusiva dei propri interessi di classe, liberandosi delle illusioni democratiche e del soffocante abbraccio delle classi borghesi e piccoloborghesi; e la loro lotta dovrà esprimere gli elementi proletari più avanzati per la costituzione del partito di classe, del partito comunista rivoluzionario che non potrà avere altri obiettivi generali che l’abbattimento del potere borghese, in quanto espressione della dittatura capitalistica sotto qualsiasi forma organizzata, l’instaurazione della dittatura proletaria di classe guidata ed esercitata dal partito comunista e lo sviluppo della lotta rivoluzionaria internazionalista affratellando e unendo i proletari di tutti i paesi nella guerra contro ogni bastione controrivoluzionario.

La strada della ripresa della lotta di classe non è mai stata semplice e liscia, e non lo è tanto più oggi che il potere borghese nell’epoca dell’imperialismo si è enormemente rafforzato sul piano del dispotismo sociale e del militarismo, e che l’opera pluridecennale dell’opportunismo collaborazionista e socialimperialista ha piegato tragicamente i proletari, soprattutto dei paesi industrializzati, ad essere complici del proprio sfruttamento e delle guerre di rapina con cui da più di novant’anni il capitalismo ingrassa la classe borghese che lo rappresenta e lo difende. Ma è la strada che necessariamente bisogna imboccare per farla finita con le orrende stragi che le borghesie di tutto il mondo, prima o poi, consumano contro il proprio e altri popoli al solo scopo di difendere i loro privilegi di classe, la loro proprietà privata e il sistema di sfruttamento capitalistico su cui poggia il loro dominio sociale.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

24 febbraio 2011

www.pcint.org

 

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