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Grecia sull’orlo della bancarotta

I proletari che si stanno battendo da più di un anno contro misure d’austerità sempre più dure, stanno anticipando i tempi di lotta anche negli altri paesi europei

 

 

Gli effetti della crisi economica capitalistica mondiale, che ha messo in ginocchio dal 2009 le economie dei paesi più deboli anche d’Europa, stanno spingendo la Grecia verso la bancarotta.

L’economia greca, al pari dell’economia di molti altri paesi dell’Europa occidentale come l’Irlanda e il Portogallo e quasi tutti i paesi dell’Europa orientale, è stata sottoposta per anni ad una tensione sempre più forte a causa di un indebitamento sempre più alto dello stato e di uno sfruttamento sempre più micidiale di forza lavoro autoctona e immigrata: lo scopo era, soprattutto, di rimanere inserita in quel cerchio considerato “virtuoso” dell’euro per poter accedere più facilmente ai prestiti dalla BCE.  L’economia capitalistica è, in tutti i paesi, una economia fondata sul debito, ovverosia sui prestiti: e quando sorgono difficoltà nella restituzione dei prestiti, l’economia inevitabilmente va in crisi.

Come i guadagni, e i profitti, del sistema capitalistico non sono distribuiti equamente sulla popolazione, così nemmeno le conseguenze della crisi. I profitti capitalistici sono accumulati dai capitalisti, che sono la minoranza della popolazione, mentre la maggioranza può solo sperare nelle briciole; le conseguenze della crisi, quindi i peggioramenti in termini di salari e di condizioni generali di vita, sono gettate addosso alla stragrande maggioranza della popolazione che nei paesi capitalisti è formata soprattutto da proletari. Così, finché il capitalismo domina sulla società, i proletari pagano duramente sempre: se l’economia è in crescita (per usare un termine caro a tutti i borghesi) lo sfruttamento della forza lavoro proletaria non  diminuisce ma si allarga e si approfondisce, anche se qualche briciola viene concessa alle masse lavoratrici; se l’economia è in crisi, lo sfruttamento non sparisce ma si fa ancora più intenso per coloro che lavorano mentre la disoccupazione aumenta e si diffonde, in generale, la condizione di miseria per una parte sempre più larga della popolazione.

La crisi economica dimostra che l’economia capitalistica non ha alcuna possibilità di risolvere il problema della sopravvivenza del proletariato perché l’uscita dalla crisi, per il potere borghese, significa soltanto un aumento progressivo dello sfruttamento, della concorrenza tra proletari, del dispotismo economico e sociale, della repressione di ogni manifestazione di disagio e di rabbia con la quale i proletari esprimono la propria intolleranza per le condizioni di estrema precarietà e insicurezza in cui viene precipitata la loro vita.

In Grecia, già a maggio dell’anno scorso, gli operai sono scesi in lotta con scioperi e manifestazioni per opporsi con forza al piano di micidiale austerità che il governo Papandreu ha varato per poter assicurare la BCE e il FMI di poter restituire il prestito di 110 miliardi di euro che ritenevano necessario per “salvare l’economia greca” e, con essa, la stabilità dello stesso euro. Ma quel piano si è dimostrato insufficiente; ora stanno vagliando l’eventualità di un ulteriore prestito di 80-100 miliardi di euro perché l’economia greca non rivela alcuna possibilità di invertire entro il 2012 l’andamento volto al precipizio: la bancarotta dello Stato greco è alle porte, e le grandi banche, i grandi trust, i grandi stati capitalisti non hanno alcuna intenzione di farsi trascinare in una crisi ancora più profonda a causa del default greco.

L’unica via d’uscita che i potenti governanti e capitalisti europei vedono di fronte a questo scenario è di stritolare in una morsa ancor più forte le masse lavoratrici greche: la pressione economica su di loro non può passare se non attraverso una stretta ancora più devastante nelle condizioni materiali di sopravvivenza in cui le grandi masse lavoratrici sono costrette da anni. Che al governo rimanga il socialista Papandreu o che si installi un governo di “solidarietà nazionale”, o che si vada ad elezioni anticipate, il potere borghese non ha alternative: lacrime e sangue per i proletari, tallone di ferro contro la loro ribellione!

E i proletari, che possibilità hanno di uscire dalla situazione di pesantissime e intollerabili condizioni di vita?

Se continuano a seguire le illusioni della democrazia parlamentare che ripropone una perenne e impotente discussione tra forze politiche che hanno il comune interesse di “salvare l’economia greca” – dunque salvare i profitti del capitalismo greco – e di far fare al proletariato tutti i sacrifici necessari perché questo salvataggio alla fin fine avvenga, i proletari si autoimpediscono qualsiasi azione indipendente e utile ad organizzare la lotta sul terreno della difesa esclusiva degli interessi immediati proletari e a far pagare, nell’immediato, almeno una parte della crisi ai capitalisti e ai loro servitori.

Se continuano a dare fiducia a forze sindacali come il Pame e a forze politiche come il KKE, che hanno il compito di confondere il proletariato, e i suoi interessi di classe anche immediati, nella massa indistinta del popolo, e che, mentre gridano contro i monopoli e i profitti del capitale, lanciano la parola d’ordine della “difesa del paese dalla bancarotta”, i proletari saranno costantemente deviati sul terreno infido della conciliazione di classe, sul terreno in cui le parole di “lotta”, di “sciopero generale”, di “rabbia” e di aspirazione a “cambiare il sistema politico” si trasformano inevitabilmente in armi spuntate e inefficaci contro il sistema di potere borghese che fa e farà di tutto per incanalare la spontanea reazione delle masse proletarie ai peggioramenti della loro vita quotidiana verso un confuso, indistinto e impotente movimento popolare.

I proletari stanno vivendo sulla loro pelle, ogni giorno, non solo le conseguenze dello sfruttamento capitalistico in periodo di crisi, ma anche le conseguenze paralizzanti di politiche sedicenti democratiche, progressiste e falsamente socialiste che hanno sempre immerso nell’interesse “nazionale” le stesse esigenze elementari di vita dei proletari; che hanno sempre immerso nel “popolo” la classe operaia il cui antagonismo di classe, se riconosciuto apertamente, fa più paura di qualsiasi mobilitazione oceanica in manifestazioni di protesta davanti al parlamento. I proletari hanno oggi un’occasione in più per rendersi conto che le forze politiche che parlano di popolo, di volontà popolare, di sovranità popolare, di governo popolare o di “classe operaia-popolare”, in realtà si sono assunte il compito di convogliare la loro spinta spontaneamente e inconsapevolmente antiborghese verso un protagonismo politico all’interno delle istituzioni democratiche e all’interno del modo di produzione capitalistico contro il quale non sanno vedere nulla di più “radicale” che “la lotta contro i monopoli privati”, come se il monopolio di Stato non fosse esso stesso la massima espressione della concentrazione capitalistica attraverso cui il dominio capitalistico e borghese sulla società non si indebolisce, ma si rafforza!

I proletari in Grecia, come in qualsiasi altro paese, devono riscoprire davanti a loro una strada che lo sviluppo delle lotte di classe nella società borghese ha già mostrato, in passato, ai proletari di tutto il mondo: la strada della lotta di classe, aperta, dichiaratamente rivolta contro la classe borghese e gli strati sociali che ne difendono il dominio sociale e politico – come la piccola e media borghesia, la chiesa e come gli strati di aristocrazia operaia – la strada della lotta realmente indirizzata all’emancipazione del proletariato dal lavoro salariato e, quindi, dal capitale. Finché esiste lavoro salariato esiste capitale, ed esiste potere economico e politico borghese: per combattere contro il capitale il proletariato deve cominciare ad organizzarsi come classe distinta, e antagonista, dunque al di fuori di ogni conciliazione interclassista che presuppone l’idea e la pratica del “popolo”; deve riorganizzarsi sul terreno della lotta di difesa immediata in associazioni economiche indipendenti dalla politica e dalla pratica non solo della borghesia e dello Stato ma anche dagli apparati opportunisti del collaborazionismo di classe. Su questo terreno i proletari hanno la possibilità di riconoscersi fratelli di classe, di lottare contro la concorrenza fra di loro, di fare esperienza concreta grazie alla quale riconoscere amici e nemici e costruire una forte e duratura solidarietà di classe (di classe, non “popolare” o “nazionale”) e internazionale.

La crisi economica capitalistica e decenni di collaborazionismo interclassista hanno indebolito pesantemente il proletariato in ogni paese. Ma il proletariato può ritrovare la sua forza di classe ricongiungendosi con la tradizione di classe che nel tempo ha già espresso e con la quale ha fatto tremare ben più di un governo: ha fatto tremare l’intera società capitalistica e le classi dominanti borghesi di tutto il mondo. Ritrovare la strada della lotta di classe per il proletariato significa ricostruire la sua forza sociale indipendente e autonoma, significa immettersi nuovamente nella prospettiva di farla finita con la società del capitale, della miseria, della disoccupazione, della guerra, prospettiva nella quale i proletariato in lotta tornerà a riconoscere – come già nel 1848 col Manifesto del partito comunista, e nel 1917-19 col bolscevismo russo e l’Internazionale Comunista – come sua unica guida rivoluzionaria il partito comunista internazionale.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

18 giugno 2011

www.pcint.org

 

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