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Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                        


 

Lo sciopero è un’arma della lotta di classe da usare ad esclusiva difesa delle condizioni proletarie di vita e di lavoro.

O risponde con forza alla pressione micidiale che il padronato e i governanti che lo sostengono esercitano sul proletariato per ricavare dal suo sfruttamento il massimo profitto capitalistico possibile, oppure  è uno spreco di forze che porta alla demoralizzazione, trasformando la mobilitazione proletaria  in una processione più o meno rumorosa, ma del tutto inefficace!

 

 

Alla politica e alle pratiche opportuniste e collaborazioniste della triplice sindacale ufficiale CGIL, CISL e UIL – sindacati tricolori da quando sono nati nel secondo dopoguerra – era inevitabile che si contrapponessero, prima o poi, altre organizzazioni a tipo sindacale che si ponevano l’obiettivo di raccogliere l’insoddisfazione e la combattività di strati proletari che non affidavano più al sindacalismo ufficiale la conduzione delle loro lotte. Già negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, al di fuori delle organizzazioni sindacali ufficiali, le esperienze legate alla formazione dei Comitati Unitari di Base e dei Consigli di Fabbrica, dimostravano la necessità da parte degli operai di organizzare le proprie lotte e la propria spontanea contrapposizione agli interessi padronali in forme diverse e meno dipendenti dalle strutture burocratiche e dalle politiche opportuniste del sindacalismo ufficiale. Da allora, i tentativi di organizzazione al di fuori della triplice ufficiale aumentavano di numero, mano a mano che la pressione capitalistica sulle condizioni proletarie di vita e di lavoro si faceva sempre più pesante, aggravandosi ad ogni ciclo di crisi economica.

Con lo Statuto dei Lavoratori del 1970, governo borghese, padronato e sindacati tricolori rispondevano alla pressione delle lotte operaie del venticinquennio precedente, trasformando in legge una serie di “diritti” dei lavoratori e dei padroni; ciò valeva a riportare l’oggettivo antagonismo di classe tra proletariato e borghesia sul terreno delle riforme borghesi e del collaborazionismo tra padronato, governo e sindacati operai. Lo Statuto dei Lavoratori del 1970 è stato sempre presentato come una grande vittoria della democrazia per la quale, i sindacati ufficiali e i partiti politici parlamentari ed extraparlamentari che si dicevano rappresentanti degli interessi dei lavoratori, avevano “lottato” difendendo il diritto al lavoro, alla casa, alla vita civile in un paese uscito dal totalitarismo fascista ed entrato in una nuova epoca di civiltà moderna e repubblicana. Non c’è dubbio che, attraverso le dure lotte operaie degli anni del secondo dopoguerra, nonostante l’opera opportunista e controrivoluzionaria delle forze dell’opportunismo politico e sindacale, i cui maggiori rappresentanti sono stati il Pci e la Cgil, il proletariato italiano ha effettivamente ottenuto un rapporto meno vessatorio da parte del padronato e una difesa per legge – d’altra parte ereditata dal fascismo che si inventò gli ammortizzatori sociali per tacitare i bisogni elementari della classe dei lavoratori da cui voleva ottenere la più ampia collaborazione produttiva e sociale – delle condizioni della sua sopravvivenza quotidiana.

Ma il ciclo delle crisi economiche capitalistiche, apertosi internazionalmente nel 1975 e sviluppatosi con alti e bassi fino ad oggi e che continuerà anche se non linearmente fino ad una crisi internazionale di guerra mondiale, ha spinto la classe borghese dominante a rimangiarsi, seppur lentamente ma inesorabilimente, le concessioni che ha dovuto fare sotto la pressione delle lotte del proletariato, ma che ha avuto anche interesse diretto a fare per mantenere le inevitabili spinte classiste del proletariato nell’alveo della democrazia e della collaborazione interclassista. Il fascismo aveva già insegnato che lo sfruttamento del lavoro salariato in epoca moderna, una volta distrutte le sue organizzazioni classiste e rivoluzionarie sia politiche che sindacali, doveva comunque accompagnarsi a concessioni economiche che facessero da base materiale alla collaborazione interclassista; e la democrazia post-fascista ha imparato molto bene la lezione, utilizzando, insieme alle illusioni politiche dell’elettoralismo e della partecipazione all’economia nazionale e aziendale da cui far dipendere il benessere economico di ogni lavoratore, un ampio armamentario di ammortizzatori sociali nei meandri del quale imprigionare le grandi masse di proletari. Per qualche decennio la borghesia dominante ha utilizzato una parte delle sue risorse, per sostenere il castello di ammortizzatori sociali, rinunciando ad una  parte dei suoi profitti, mentre i proletari, per almeno tre generazioni dalla fine del secondo macello imperialistico mondiale, si abituavano a vivere contando su quella serie di supposte “garanzie” di sopravvivenza e di “benessere” che non hanno fatto altro che alimentare l’illusione che non si sarebbe tornati indietro e che la vita “futura” poteva essere solo migliorata...

Ma i licenziamenti, la chiusura delle fabbriche, la disoccupazione non solo giovanile e femminile, l’abbassamento del potere d’acquisto dei salari, la sempre più alta precarietà del lavoro e della vita, l’aumentata intensità dello sfruttamento del lavoro salariato da parte di ogni padrone, piccolo o grande che fosse, la costante realtà degli infortuni e delle morti sul lavoro, l’impossibilità di contare su un minimo di sicurezza di vita per il futuro prossimo, accompagnano da qualche decennio lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, dimostrando indiscutibilmente la tesi marxista della miseria crescente: mentre dal lato dei borghesi possidenti si accumulano sempre più ricchezze inestimabili, dal lato del proletariato – ossia dei senza riserve – si accumula miseria, fame, morte. Con il ciclo di crisi economiche che ha inevitabilmente investito la società capitalistica, allargandosi a macchia d’olio su tutto il pianeta, sebbene in qualche paese, come la Cina, la crescita economica andava in contrasto con la crisi degli altri paesi industrializzati, ma a prezzo di uno sfruttamento bestiale della propria classe lavoratrice, le vecchie borghesie imperialiste d’Europa e d’America non sono state più disposte a rinunciare ai loro profitti come nel periodo di espansione capitalistica precedente, costringendo i rispettivi governi ad applicare politiche di austerità sempre più pesanti per le masse proletarie e lavoratrici. Masse proletarie che nel frattempo sono state imprigionate nelle illusioni della democrazia e del benessere grazie alla collaborazione interclassista, disabituandosi a lottare solo per i propri interessi di classe.

Il futuro che la società borghese prospetta alle masse proletarie non è un futuro di benessere, di pace, di problemi risolti, di vita dignitosa. Il futuro che la società borghese mette di fronte agli occhi dei proletari dei paesi moderni, civili, ricchi, è quello rappresentato dalle masse di profughi e migranti che fuggono da paesi in guerra e disastrati economicamente, ridotti in queste condizioni proprio dallo sviluppo degli interessi borghesi e capitalistici dei paesi più ricchi. La borghesia italiana, alla pari di qualsiasi altra borghesia dominante nei paesi capitalistici più sviluppati, per piegare il proletariato autoctono ai propri interessi e ottenere, nello stesso tempo, il massimo sfruttamento possibile del lavoro salariato, ha bisogno di contare, oggi più che mai, data la crisi economica dalla quale gli è molto difficile uscire, sulle forze politiche e sindacali collaborazioniste e non solo su quelle più vecchie e sperimentate, ma anche su quelle più recenti che riescono ad attrarre gli strati di proletariato che, per la loro combattività, tentano di svincolarsi dalle maglie del burocratismo dei sindacati tricolori e dei partiti politici ormai da tempo venduti esclusivamente alla difesa dell’economia nazionale e della democrazia borghese. Da molto tempo i sindacati collaborazionisti ufficiali usano i mezzi della negoziazione, degli incontri ai vertici, dei cosiddetti “confronti paritetici” per dare il proprio “contributo” al risanamento economico delle aziende e dell’economia nazionale in generale, dedicando allo sciopero, alla sua organizzazione e ai suoi obiettivi uno spazio infinitamente marginale nella loro attività e utilizzandolo solo nelle occasioni in cui la mobilitazione dei lavoratori sia la meno dannosa e, quindi, del tutto inefficace, rispetto agli interessi aziendali e generali dell’economia capitalistica. Così, le organizzazioni sindacali nate al di fuori e “contro” i sindacati collaborazionisti ufficiali, sebbene in parte accolgano strati proletari spinti a lottare con mezzi e metodi diversi da quelli normalmente rinunciatari dei grandi sindacati ufficiali, sono costantemente solleticate dalle illusioni di una democrazia cosiddetta “diretta”, o “dal basso”, attraverso la quale sono indotti a credere di poter conquistare più forza e maggiore successo per il solo fatto di “scioperare” e di coinvolgere nella mobilitazione più gente possibile. Ma, non adottando mezzi e metodi classisti di lotta, per obiettivi esclusivamente di interesse proletario, queste organizzazioni finiscono per riportare i proletari che le seguono sullo stesso terreno impotente del riformismo collaborazionista la cui preoccupazione principale è di non recare alcun danno all’economia aziendale e nazionale, salvaguardando così gli interessi, e quindi i profitti, del capitale.

E’ un dato di fatto che, in alcune situazioni, i proletari sono stati e sono in grado di far sentire la propria voce e la propria forza in difesa di elementari rivendicazioni di sopravvivenza solo grazie all’apporto  e all’impegno di questi sindacati cosiddetti alternativi; nel settore della scuola e del pubblico impiego come nel settore metalmeccanico, della logistica o dei traporti. Ciò corrisponde alla spinta classista spontanea dei proletari a difendersi con la lotta diretta poiché, né dalle leggi che dovrebbero difendere i loro diritti né dai grandi sindacati ufficiali che dovrebbero farsi portatori della difesa degli interessi proletari anche nelle situazioni più marginali e nelle piccole imprese, possono aspettarsi una reale aiuto. Ma l’impianto riformistico generale che presiede queste organizzazioni impedisce loro di adottare sistematicamente piattaforme di lotta classiste, che definiscano obiettivi esclusivamente di classe da perseguire con mezzi e metodi esclusivamente di classe.

Con lo sciopero generale nazionale di tutte le categorie pubbliche e private di 24 ore, indetto per il 18 ottobre prossimo, dai sindacati USB, CUB, Cobas, USI e da altre sigle del sindacalismo cosiddetto di base, si manifesta una generica opposizione al governo Letta, alla Confindustria, ai sindacati Cgil, Cisl, Uil, alla politica dei tagli, indicando “altre priorità per i lavoratori, i disoccupati, i pensionati, gli studenti, i migranti e i rifugiati”. Belle parole, ma, mentre si elencano i diversi motivi di un disagio sociale che è evidente a tutti, per i quali i proletari dovrebbero “mobilitarsi” –disoccupazione al 12% in generale e a più del 40% per i giovani sotto i 25 anni, tagli nei settori dei servizi pubblici, aumento continuo e pesante delle tasse mimetizzate sotto le voci più strane, dilaganti sfratti e perdita delle case per morosità rispetto ai mutui, abbassamento dei salari  nel pubblico come nel privato, aumento progressivo della precarietà, ecc. – ci si accolla il compito di difendere le aziende “italiane”, definite “strategiche” come la Telecom e l’Alitalia, dalla svendita alle “multinazionali straniere” motivando questa rivendicazione con il fatto che esse devono essere e rimanere “servizi pubblici e beni collettivi” al di fuori della speculazione del capitale privato. Già questo cappello di difesa patriottica delle aziende cosiddette strategiche (a cui andrebbero evidentemente aggiunte le aziende dell’acciaio e delle armi) la dice lunga sulla visione generale che questi sindacati alternativi hanno della lotta operaia: difendere il capitale pubblico dall’aggressività del capitale privato non è una priorità proletaria, né una difesa degli interessi proletari, perché il capitalismo sviluppa la sua attività di sfruttamento sia attraverso il capitale pubblico che quello privato. Il dipendente nel settore pubblico e quello nel settore privato sono entrambi lavoratori salariati sfruttati dalla stessa legge del profitto capitalistico che, nella società borghese, presiede qualsiasi attività lavorativa, nelle grandi come nelle piccole aziende, nel settore pubblico come in quello privato, nelle aziende supertecnologiche come in quelle più arretrate, nelle produzioni strategiche come nelle produzioni rivolte al normale commercio delle merci.

Con questa impostazione, i sindacati di base che pretendono di essere alternativi ai sindacati Cgil, Cisl e Uil, dimostrano di non essersi spostati di un millimetro dal terreno del riformismo collaborazionista; non basta gridare più forte in difesa dei “diritti dei lavoratori”, non basta riunire migliaia di lavoratori per manifestare il proprio disagio sociale e la propria indignazione nei confronti di governanti e padroni che mettono al primo posto gli interessi del grande capitale (ma è il loro mestiere!), se poi li si imprigiona in una politica che converge esattamente con quella del collaborazionismo ufficiale. Cambiare mezzi e metodi di lotta rispetto a quelli del collaborazionismo sindacale e politico, significa adottare mezzi e metodi di lotta classisti coi quali i proletari esprimono con forza il loro antagonismo sociale combattendo in difesa esclusiva dei propri interessi di classe che non possono essere convergenti con gli interessi borghesi e padronali. Mentre il collaborazionismo interclassista cerca sempre di piegare le esigenze di vita e di lavoro proletarie alle esigenze del buon andamento economico delle aziende e del paese, dunque del profitto capitalista, il movimento di classe proletario combatte la sudditanza agli interessi capitalistici in cui l’opportunismo politico e sindacale costringe da lungo tempo le masse lavoratrici, ed organizza la lotta contro gli interessi padronali e la solidarietà proletaria contro la solidarietà padronale.

Soltanto mettendo al centro della lotta proletaria, e quindi al centro delle sue manifestazioni di sciopero o di protesta, i veri ed esclusivi interessi proletari – e tra i più importanti: l’aumento dei salari, la diminuzione drastica della giornata lavorativa a eguale salario, il salario intero ai disoccupati, senza distinzione di sesso o di nazionalità – combattendo innanzitutto la concorrenza tra proletari e contro ogni legge che la borghesia ha introdotto per dividere e reprimere i proletari in ogni loro espressione sociale e di lotta, è possibile per il proletariato riconquistarei il terreno sul quale è e sarà in grado di esprimere la sua forza storica: il terreno dello scontro di classe, il terreno della forza con la quale difendere efficacemente i “diritti” ad una vita meno precaria e sacrificata e meno votata alla schiavitù e alla morte. Lo sciopero, tanto più se generale, o è un’arma di lotta con la quale i proletari si contrappongono ai borghesi cercando di forzare la situazione a vantaggio dei propri interessi di classe, oppure è uno spreco di forze, un’arma spuntata, un’azione controproducente che porta solo alla demoralizzazione. Resta però il fatto che la situazione di generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie spinge obiettivamente i proletari più combattivi a cercare forme più incisive per fare della propria disponibilità alla lotta un punto positivo su cui creare una base più solida, e più larga, da cui ripartire, abbandonando finalmente il terreno viscido e melmoso del collaborazionismo che porta vantaggi esclusivamente al padronato e al suo governo.

La strada per riconquistare una reale forza di classe non sarà né lineare né facile: i proletari troveranno mille e mille ostacoli da superare, ma potranno percorrerla anche soltanto cominciando da situazioni locali, parziali, nelle quali riabituarsi a prendere le sorti della propria lotta nelle proprie mani, riorganizzandosi intorno a piattaforme di lotta che non cedano in nessun aspetto ai presunti interessi comuni con i padroni o con lo Stato. Il capitalismo ha molte facce, nel settore pubblico e in quello privato, può avere il volto umano del padrone amico dei suoi operai o il volto arcigno dell’amministratore delegato alla Marchionne, il volto buono del prete di strada o la faccia dell’usuraio o del mafioso, del pacifista o del guerrafondaio, dello speculatore di borsa, dell’evasore fiscale o dell’imprenditore che rispetta le leggi: ma la sua caratteristica fondamentale di sfruttamento del lavoro salariato, di arricchimento dei pochi e di immiserimento dei molti, non cambia. Il proletariato, che storicamente ha dimostrato di saper imboccare la via del rivoluzionamento generale della società, deve riprendere fiducia nelle proprie forze di classe antagonista alla classe borghese e iniziare a lottare solo per se stesso!

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

12 ottobre 2013

www.pcint.org

 

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