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TURCHIA: non le elezioni e gli appelli alla pace, ma solo la guerra di classe potrà mettere fine allo sfruttamento, all’oppressione e alla repressione!

 

 

Sabato 10 ottobre, un terribile attentato ha colpito la manifestazione, nel quadro della campagna elettorale, organizzata dal partito “filo-curdo” d’opposizione HDP insieme a diverse formazioni di sinistra (come il sindacato DISK, un sindacato di Funzionari, l’Unione dei Medici, l’Unione degli Architetti ecc.), per la democrazia, la sicurezza del posto di lavoro e la “pace” – in sostanza per la ripresa dei negoziati fra il PKK (Partito dei Lavoratori Curdi, organizzazione nazionalista curda impegnata da anni in azioni di guerriglia nel Kurdistan turco) e le autorità governative. Nell’attentato sono stati più di 100 morti e di 240 feriti. Gli organizzatori hanno incolpato il governo di esserne l’artefice.

Questo episodio, in effetti, si iscrive in un clima di tensione politica crescente: nel giugno scorso un attentato a Diyarbakir, nel Kurdistan, contro un meeting elettorale dell’HDP, aveva fatto 4 morti e 400 feriti; il 20 luglio un attentato suicida commesso da un giovane djihadista curdo a Suruc, città di frontiera con la Siria, aveva causato 33 morti durante un raduno di giovani maoisti vicini all’HDP. Se la responsabilità dello “Stato Islamico” sembra accertata in questi due casi, il sostegno da molto tempo accordato dal potere di Ankara a questa organizzazione e la sua ostilità nei confronti dei combattenti curdi siriani di Kobane, lasciano supporre un’implicazione delle autorità nell’attentato del 10 ottobre.

L’AKP, il partito islamico-conservatore al governo, e il presidente Erdogan non hanno mai cessato di accusare di “terrorismo” non soltanto il PKK, che ultimamente ha interrotto il cessate il fuoco dopo l’attentato di Suruc, ma anche l’HDP stesso e il suo leader Demirtas. Decine di sedi di questo partito sono state attaccate e talvolta incendiate da parte di scagnozzi legati all’AKP nel corso delle ultime settimane senza che la polizia intervenisse; al contrario, è contro Demirtas che è stato aperto un fascicolo giudiziario dopo la sua denuncia, durante una conferenza stampa, della passività colpevole delle forze di polizia, indagandolo per “insulto al popolo turco, alle istituzioni e agli organi di Stato, al presidente” e per “provocazione a commettere crimini e per terrorismo”. Il governo ha inoltre moltiplicato le misure di intimidazione contro i media e i giornalisti di opposizione; la sede del grande quotidiano di opposizione Hurryet è stata attaccata da manifestanti che avevano alla loro testa un deputato dell’AKP; la rete televisiva di opposizione è stata costretta ad interrompere le trasmissioni ecc.

Il primo novembre si terranno le elezioni legislative in Turchia, appena 5 mesi dopo le precedenti, che avevano visto l’AKP nettamente in testa (40,9% dei voti), ma anche se si trattava dela sua quarta vittoria consecutiva alle elezioni, l’AKP, perdendo circa il 9% dei suffragi, non ottenne la maggioranza assoluta che gli avrebbe permesso di raggiungere il suo obiettivo di riformare la costituzione per instaurare un regime presidenziale. La crescita elettorale dell’HDP, arrivando per la prima volta a passare la barriera del 10% dei suffragi a livello nazionale, è vista come la causa della sconfitta relativa dell’AKP. Alla fine di agosto, in seguito al fallimento dei negoziati per formare un governo di coalizione, l’assemblea parlamentare è stata sciolta annunciando le nuove elezioni. Numerosi analisti politici attribuiscono la ripresa degli scontri con i combattenti del PKK e la campagna “anti-terrorista” ad una manovra del governo per suscitare una reazione di paura grazie alla quale aumenterebbero le possibilità di vittoria elettorale dell’AKP. In effetti, Erdogan ed altri dignitari ufficiali hanno dichiarato che se l’AKP avesse ottenuto 400 deputati (cioè la maggioranza assoluta in parlamento) non vi sarebbero più stati atti di violenza...

Tuttavia gli avvenimenti turchi non possono essere ricondotti a semplici motivi elettorali e ancor meno all’ambizione di un uomo che sogna di essere un nuovo sultano. La Turchia sta affrontando  contraddizioni e problemi sempre più acuti; sono questi che hanno un effetto sempre più destabilizzante sull’equilibrio politico esistente nel paese che dal 2000 è sotto l’egemonia dell’AKP.

 

LA TURCHIA DALLA DEMOCRAZIA ALLA DITTATURA E VICEVERSA

 

Alla fine degli anni Settanta il capitalismo turco si dibatteva in gravi difficoltà economiche e finanziarie: deficit cronico della sua bilancia dei pagamenti e della sua bilancia commerciale, inflazione pressoché del 100%, indebitamento pubblico importante, numerose chiusure di aziende causa di un forte rialzo della disoccupazione (intorno al 20%). I proletari turchi risposero agli attacchi dei capitalisti con lotte coraggiose che provocarono una violenta repressione; per esempio, a Izmir nel febbraio 1980, il governo mobilitò circa 10.000 soldati appoggiati da blindati per mettere fine all’occupazione di una grande azienda.

Per opporsi alla crescente agitazione sociale e politica, le autorità democratiche facevano regolarmente appello alle bande neo-fasciste (“Lupi grigi”) – autori di numerosi assassinii e di attentati – nel quadro di una autentica “strategia della tensione” coscientemente organizzata dai circoli borghesi dirigenti in quanto si trattava di spezzare le lotte operaie (ovviamente accusate di “terrorismo”) e di preparare la via al ricorso ad una aperta dittatura. Alla fine del 1978, dopo il massacro, perpetrato su istigazione dei servizi segreti, di un centinaio di militanti di sinistra e di membri della comunità Alevita (gli aleviti sono una minoranza religiosa discriminata, che è stata un vivaio per i gruppi di sinistra e di estrema sinistra), fu decretata la legge marziale in molte regioni del paese; essa è ancora in vigore dopo il colpo di Stato del settembre 1980 quando i militari estesero il controllo a tutto il paese. Il passaggio dalla “democrazia” alla “dittatura” si realizzò “organicamente”; infatti nessuna forza o istituzione borghese democratica lo ostacolò: ennesima dimostrazione che democrazia e dittatura non sono che due forme del dominio borghese utilizzate di volta in volta a seconda delle situazioni.

I militari dichiararono di prendere il potere per “ristabilire l’ordine”, per porre fine ai conflitti sociali e all’instabilità parlamentare; essi agivano in accordo con gli Stati Uniti i cui legami con l’esercito turco erano molto stretti, essendo la Turchia un membro d’importanza strategica della Nato, e con l’approvazione dei paesi europei (la Germania, per esempio, accordò subito dei crediti al governo militare).

La repressione che seguì il colpo di Stato fu vasta, anche se non paragonabile a quella di Pinochet in Cile; in poche settimane diverse centinaia di migliaia di persone furono arrestate e 250.000 effettivamente accusate; vi sono state 500 condanne a morte pronunciate dai tribunali speciali (ma solo 50 eseguite),  più di 20mila condanne a pene detentive, migliaia di persone torturate, centinaia di persone uccise durante la detenzione, decine di migliaia cacciate dal loro posto di lavoro ecc. I partiti politici e i sindacti furono vietati. Sul piano economico, i militari misero in opera con molto zelo le raccomandazioni fatte dal FMI al precedente governo, soprattutto il congelamento dei salari e l’apertura economica agli investitori stranieri ecc.

Tre anni più tardi, la giunta militare, sempre con perfetto passaggio “organico”, dopo aver redatto una costituzione sostanzialmente ancora in vigore oggi, cedette il posto ad un governo civile; sparito del tutto ogni movimento operaio, e dunque compiuta la sua missione, la dittatura militare poteva passare la staffetta alla democrazia (dicembre 1983).

Quest’ultima avrà fin dall’inizio una connotazione liberale sul piano economico, autoritaria sul piano politico e religiosa sul piano culturale (istruzione religiosa obbligatoria a scuola ecc.). A dispetto della laicità affermata dopo Kemal Atatürc che combattè l’influenza religiosa perché – come nell’Europa del XVIII secolo – essa era legata alle vecchie classi precapitaliste, i borghesi turchi conoscevano perfettamente il ruolo insostituibile dell’oppio religioso per mantenere l’ordine sociale.

Drogata dall’afflusso di capitali stranieri che vi trovavano elevati tassi di profitto, l’economia turca conobbe in quegli anni una crescita sostenuta (4% in media all’anno), che fu però interrotta dalla recessione nel 1994 e nel 1999.

 

IL “MIRACOLO ECONOMICO TURCO”

 

La Turchia, ripiombata in una fase di stagnazione, segnata da un abbattimento della produzione industriale e da una forte inflazione, fu fortemente colpita dalla crisi economica internazionale del 2001. Toccato da quella che può essere definita la sua più grave crisi finanziaria, il paese si ritrovò sull’orlo del fallimento, la sua moneta perse il 50% del suo valore, il suo PIL  scese di oltre il 9% in un anno. E ancora una volta fu costretto a chiedere il soccorso del FMI.

La crisi politica scoppiata a causa della crisi economica trovò una soluzione nell’arrivo al potere del partito islamista AKP nel 2002; questo coincise con la ripresa economica e marcò l’inizio di un decennio di forte crescita (più del 5% medio per anno, con punte dell’8 e del 10%) tanto da far parlare di “miracolo economico turco”. La spiegazione di questa crescita va cercata in realtà nel basso costo del lavoro (-50%) fra il 2001 e il 2007, ciò che ha permesso alle merci turche di essere competitive sul mercato internazionale proprio quando il governo accentuava la sua politica di apertura economica agli investitori stranieri e riorganizzava le finanze del paese. Anche l’ultima crisi economica mondiale, nel 2008-2009, non ebbe che un effetto temporaneo sull’economia turca: dopo essere caduto del 4,8% nel 2009, il PIL conosceva una crescita “alla cinese” del 9,2% nel 2010 e dell’8,9% nel 2011.

Popolata da più di 77 milioni di abitanti e prima economia del Medio Oriente, la Turchia è giunta al 17° posto nella classifica delle potenze mondiali e al 7° posto in quella delle potenze europee nel 2012, secondo il FMI. In un decennio il PIL per abitante è triplicato, la dotazione in infrastrutture è cresciuta, si sono sviluppate delle grandi aziende turche che hanno conquistato delle fette del mercato internazionale nei settori delle costruzioni, dei servizi e dell’industria: nel Medio Oriente, nel Maghreb, nelle vecchie repubbliche sovietiche, ma anche in Europa.

Se l’agricoltura impiega ancora un quarto della popolazione attiva, in gran parte su piccoli appezzamenti poco produttivi, una percentuale equivalente (26%) lavora ormai nell’industria.

La Turchia è diventata il decimo produttore mondiale di acciaio (nettamente davanti alla Francia, alla Gran Bretagna e all’Italia), il quinto paese europeo produttore di automobili, il decimo costruttore europeo di bus, il sesto produttore mondiale di cemento, un grande produttore di apparecchi elettrodomestici (sesto esportatore mondiale di lavatrici, ottavo di frigoriferi, il primo fabbricante di televisori in Europa ecc.).

La produzione tessile e dell’abbigliamento ha resistito alla concorrenza asiatica sul mercato internazionale; non è più il primo settore industriale del paese (posto preso dalla produzione di automobili) ma resta ancora al terzo posto nelle esportazioni (i prodotti agricoli sono al primo posto): la Turchia è il secondo fornitore di prodotti tessili dell’Europa, dopo la Cina. Nei BTP (Buoni del Tesoro Poliennali) diverse grosse imprese turche hanno conquistato dei mercati soprattutto in Russia, nel Kazakhstan, in Romania e nei paesi arabi.

Dopo l’invasione di Cipro nel 1968, lo Stato turco ha iniziato a sviluppare un’industria militare capace di assicurargli il massimo di indipendenza. Questa industria si è sviluppata al punto da essere in grado di esportare all’estero una quota della produzione militare; gli industriali del settore contano sul sostegno del governo che ha lanciato dei grandi progetti, come quello di un aereo da caccia e di un carro armato d’assalto turchi.

L’esercito turco è, in numero di soldati, il secondo della NATO dopo quello degli Stati Uniti. E’ intervenuto diverse volte con colpi di Stato nella vita politica del paese; dopo il colpo di Stato del 1960, una riforma della costituzione aveva istituzionalizzato il suo ruolo nella vita politica e culturale del paese attraverso la creazione del Consiglio della Sicurezza Nazionale; il ruolo di questo CSN è cresciuto, dopo il colpo di Stato del 1980, attraverso leggi deliberate dai militari prima di passare il potere ai civili: le raccomandazioni del CSN hanno il sopravvento sulle decisioni del consiglio dei ministri. Tanto che, nel 1992, il capo di stato maggiore poteva così tranquillamente affermare che la Turchia era “uno Stato militare”.

I governi dell’AKP si sono sforzati con successo di restringere il loro ruolo politico, ma l’AKP godeva sempre di un peso economico non indifferente. Attraverso l’intermediazione del Fondo pensioni delle Forze Armate (OYAK), l’AKP è presente in una decina di aziende di settori diversi (OYAK, ad esempio, è associata a Renault nell’azienda OYAK-Renault, la più grande del paese e una delle prime aziende esportatrici) e possiede una delle più importanti banche turche; inoltre un conglomerato industriale delle forze armate (TSKVG) raggruppa diverse decine di aziende che fabbricano armi.

L’espansione economica del capitalismo turco si è tradotta anche in uno spettacolare rialzo degli investimenti  all’estero: dal 2002 al 2012, gli investimenti si sono più che decuplicati! E gli investimenti stranieri in Turchia sono quasi sei volte più elevati degli investimenti turchi all’estero: la crescita economica turca dipende ancora largamente dall’afflusso di capitali dall’estero. Questo sviluppo economico ha fatto la fortuna di vasti settori piccoloborghesi e borghesi, come le famose “tigri d’Anatolia”, padroni di piccole e medie imprese di provincia che hanno prosperato nel corso degli ultimi anni, anche sui mercati internazionali; è quindi naturale che questi settori, oltre al tradizionale conservatorismo religioso, siano stati fino ad oggi i più solidi sostenitori dell’AKP e del suo leader.

Grazie alle risorse emerse dalla crescita economica i governi successivi dell’AKP, seguendo costantemente una politica economica liberale, hanno condotto nello stesso tempo una politica di protezione sociale, senza dubbio limitata ma senza precedenti in Turchia: copertura sanitaria estesa a tutti, diverse misure d’assistenza sociale sovente basate sugli enti locali e attribuite in un’ottica religiosa e conservatrice (aiuti in natura ai più poveri durante il ramadan ecc.). Sul piano della politica interna, l’AKP ha messo fine a tutta una serie di discriminazioni contro i curdi e le minoranze religiose, e dei negoziati avviati col PKK aventi l’obiettivo di giungere ad un accordo di pace definitivo avevano già portato alla sospensione delle azioni militari di questo gruppo. Tutto questo spiega la persistente popolarità dell’AKP, perfino negli strati diseredati, e il fatto che fosse riuscito a diventare il partito maggioritario nelle regioni abitate dai curdi, dove i settori più reazionari della popolazione erano sedotti dai suoi discorsi religiosi. Basandosi sulla consistente partecipazione alle elezioni, anche da parte degli strati più poveri della popolazione, in un recente rapporto l’OCSE si felicitava del fatto che “esiste una forte coesione sociale intorno alle istituzioni democratiche turche”: l’AKP ha servito molto bene l’ordine borghese!

Sul piano della politica estera i governi dell’AKP, di fronte agli ostacoli frapposti dai governi europei all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, hanno in parte riorientato le loro azioni verso i paesi arabi e verso la vecchia URSS. Le cosiddette “primavere arabe”, l’arrivo al potere in Egitto dei Fratelli Musulmani, l’attesa prossima caduta del regime baathista in Siria, sembra che abbiano coronato di successo, per un momento, questo orientamento: era l’epoca, nella quale, nei media occidentali, si presentava la Turchia come un modello di regime islamico democratico (!) che gli Stati arabi avrebbero dovuto seguire...

Inebriato da questo successo, Erdogan, dopo la sua elezione a presidente nel 2014 non aveva esitato a fissare degli obiettivi molto ambiziosi al suo programma “Visione 2023” (nel centesimo anniversario della repubblica turca) per una “nuova Turchia”: fare di questo paese la decima potenza mondiale – triplicando il PIL e realizzando progetti faraonici (come la realizzazione del più grande aeroporto mondiale, la costruzione di migliaia di km di linee ferroviarie ecc.) – il degno successore del vecchio impero ottomano. In breve, la continuazione del miracolo economico!

 

L’INVERSO DI UN MIRACOLO

 

L’economia turca ha tuttavia delle debolezze importanti, che fanno pensare che la visione dell’AKP somigli più ad un miraggio che alla realtà.

Il tallone d’Achille della crescita economica consiste nel basarsi in gran parte sull’afflusso di capitali stranieri in cerca di investimenti redditizi; invece, da qualche tempo questi capitali sono diminuiti e da alcuni mesi, come in altri paesi emergenti, si asssite anche ad una fuoriuscita di capitali accelerata dalle minacce sulla stabilità politica nel paese e nell’intera regione, dai bassi tassi di interesse e dalla caduta della moneta turca.

Quest’ultima, rispetto al dollaro, ha perso il 50% del suo valore; se, da un lato, questo favorisce le esportazioni turche,  dall’altro la sua precipitosa caduta provoca la fuga dei capitali al punto che gli economisti evocano sempre piu insistentemente l’eventualità di una “crisi finanziaria” in Turchia. In ogni caso, per il momento, questa situazione ha prodotto un rialzo dell’inflazione: +8% nel 2014 secondo Eurostat, ossia il tasso più elevato di tutti i paesi membri dell’Unione Europea o “associati” ad essa (la Turchia è un paese “associato”). In particolare sono aumentati più di altri i prezzi dei prodotti alimentari: +10% a ritmo annuale secondo gli ultimi dati conosciuti (agosto 2015).

A partire dal 2012, il tasso di crescita economica del paese si è fortemente ridotto. Gli ultimi dati statistici pubblicati (2° trimestre 2015) indicano che il rallentamento continua e lasciano presupporre che la Turchia potrebbe entrare in recessione da qui alla fne dell’anno, contro l’ipotesi del governo di un tasso di crescita del PIL del 4% per il 2015. In politica estera Erdogan colleziona uno scacco dopo l’altro, con conseguenze inevitabili sul piano interno: è entrato in contrasto con l’Egitto, con Israele, con la Russia, mentre le sue relazioni con gli Stati Uniti stanno diventando difficili, gli Europei continuano a rifiutare l’ingresso della Turchia nella UE, Bachar el-Assad è ancora a Damasco mentre piu di 2 milioni di rifugiati siriani sono in Turchia...

 

SFRUTTAMENTO CAPITALISTICO E LOTTE PROLETARIE

 

Mentre è un paradiso per i capitalisti (Istanbul conta più miliardari di Parigi), la Turchia è un inferno per i proletari. Essa si piazza al secondo posto fra ipaesi dell’OCSE quanto a ineguaglianze di reddito, giusto davanti al Messico. Ma le ineguaglianze sono anche regionali: nelle regioni curde poco sviluppate, il reddito familiare medio non è che il 29% di quello di una famiglia di Ankara.

La disoccupazione è in aumento e sta superando il 10% registrato alla fine del 2014. Questa cifra può non sembrare particolarmente elevata, ma non riflette per nulla la realtà, perché la manodopera è composta in buona parte da lavoratori atipici: in particolare in agricoltura (90%); ma questi lavoratori sono impiegati in tutte le branche dell’economia: nell’industria, secondo le statistiche ufficiali (Turkstat), essi rappresentano quasi un terzo degli occupati, e questa percentuale è molto più alta nell’industria tessile.

I proletari che lavorano con contratti atipici non godono praticamente di alcuna protezione sociale, hanno salari più bassi e possono essere licenziati da un  giorno all’altro. Impiegati per lo più nelle piccole e piccolissime imprese del paese (il 55% dei lavoratori è in aziende con meno di 10 dipendenti), essi subiscono i colpi più forti durante le crisi economiche in cui queste imprese sono le prime vittime.

In generale i salari turchi sono bassi, anche nei settori a contratto regolare e nelle grandi aziende. Il salario medio stimato è di 590 euro al mese nel 2014 (2220 in Francia, 1700 in Spagna, 1260 in Grecia) Il salario minimo è stato fissato per il 2015 a 424 euro al mese (è di 1428 in Francia, 757 in Spagna, 648 in Grecia), ma si tratta del salario lordo; tolte le tasse e le ritenute, il salario è inferiore di circa il 30%. Ma, in realtà, la parte piu importante dei lavoratori è pagata al di sotto del salario minimo: più del 16% dei maschi e più del 25% delle femmine che svolgono una giornata di lavoro normale (almeno di 8 ore) ricevono un salario mediamente inferiore del 30% del salario minimo netto!

Gli orari di lavoro sono elevati: la durata legale di lavoro è di 45 ore settimanali, ma nel 2011 più di 6 milioni di persone (ossia più del 40% della manodopera totale) lavoravano dalle 50 alle 70 ore se non di più. Sebbene il lavoro minorile (al di sotto dei 14 anni) sia vietato, nel 2012 quasi 300.000 bambini dai 6 ai 14 anni, in particolare in agricoltura, nel periodo della raccolta dei frutti, lavoravano fino a 11 ore al giorno. Ma anche nel settore industriale i minori di 18 anni sono numerosi: dal 1994 al 2006 la proporzione dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni è passata dal 16 al 28%. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT, organizzazione dell’ONU), il tempo di lavoro medio dei minori è tra i più elevati al mondo: 51 ore medie la settimana! Di conseguenza, il numero di minori morti sul lavoro è si alzato a 38 nel 2012.

Va detto che la Turchia è il primo paese d’Europa per numero di incidenti sul lavoro, il terzo a livello mondiale dopo l’Algeria e il Salvador, secondo l’OIT; ogni giorno, mediamente, si contano 3 lavoratori morti e 172 feriti. I minatori sono i più numerosi tra le vittime del capitalismo turco: dal 1995 al 2012, più di 3000 minatori sono morti e più di 360.000 sono stati feriti.

Nel maggio 2014 un’esplosione nella miniera di Soma fece 301 morti (1). In seguito a questa tragedia nella città sono scoppiati scontri con la polizia, quando più di 10.000 manifestanti hanno protestato contro la mancanza di misure di sicurezza nella miniera al grido di “Erdogan dimissioni!”; il ministero del lavoro aveva sostenuto che in un recente giro di ispezioni tutto era risultato in regola. Un anno più tardi 9 minatori sopravvissuti della miniera di Soma sono stati accusati dalla giustizia di aver organizzato una manifestazione e di aver fatto un blocco stradale violando la legge: rischiano 6 anni di prigione...

In tutto il 2014 vi sono stati 1886 morti in incidenti sul lavoro, e questi sono dati ufficiali che con ogni probabilità nascondono una buona parte di incidenti che riguardano i lavoratori atipici. Più che di incidenti, si tratta piuttosto di una vera e sanguinosa guerra di classe che i capitalisti conducono contro i proletari!

Ereditate dal regime militare, le leggi antisciopero sono ancor oggi perfettamente applicate; esse hanno permesso di sospendere uno sciopero dei siderurgici all’inizio di quest’anno e uno sciopero nelle fabbriche di ceramica in giugno, in nome della “sicurezza nazionale”...

Ma questa legislazione antioperaia non ha potuto impedire l’ondata di scioperi selvaggi che ha colpito l’industria automobilistica nel mese di maggio, prendendo le mosse dal complesso industriale di Bursa. Il movimento era cominciato nella fabbrica Renault con una agitazione contro il contratto collettivo siglato dal sindacato ufficiale Turk Metal e per il suo allineamento con il contratto firmato alla Bosh (20% di aumento salariale) dopo qualche giorno di sciopero; alcuni energumeni di questo sindacato giallo giunsero ad attaccare un capannello di operai innescando così la collera di tutti i lavoratori.

Iniziato alla Renault, il movimento di sciopero si è esteso alle altre fabbriche del settore automobilistico e in altre città; alla Fiat, alla Ford, alla Tofas, alla Valeo ecc, più di 15.000 operai sono scesi in lotta nonostante l’opposizione del Turk Metal, e questa agitazione si è estesa anche ad altri settori. A dispetto delle minacce e della repressione (47 operai sono stati arrestati dalla polizia e deferiti all’autorità giudiziaria per aver organizzato uno sciopero illegale), gli operai hanno proseguito la lotta tanto a lungo che, di fronte alla minaccia di una generalizzazione del conflitto, i padroni e il governo sono stati costretti a cedere. Dopo 2 settimane di sciopero, gli operai della Renault hanno ottenuto degli aumenti di salario, di non essere perseguiti giudiziariamente e soprattutto il diritto di aderire al sindacato scelto da ognuno di loro. Dimostrazione che la lotta operaia risoluta è in grado di far arretrare i capitalisti e il loro Stato, per quanto repressivo esso sia!

Le crescenti difficoltà economiche in Turchia non hanno avuto conseguenze solo tra i proletari, ma anche in larghi settori della popolazione, mentre la speculazione immobiliare non si arresta e gli scandali di corruzione giungono a coivolgere anche la famiglia del presidente. Questo che spiega l’importanza assunta nel 2013 dalle manifestazioni contro il progetto di distruzione del Gezi Parc di Istanbul: questo movimento, chiaramente piccoloborghese, ha potuto, infatti, radunare centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, e alimentare dei movimenti di “indignati” in diversi paesi. L’HDP, il partito parlamentare curdo, è riuscito indiscutibilmente a capitalizzare elettoralmente una parte di questo malcontento.

 

LA QUESTIONE CURDA

 

La questione curda riveste un ruolo importante nella politica interna, ma anche nella politica estera, della Turchia. Costantemente accusati di separatismo, sottoposti a discriminazioni politiche e sociali diventate più pesanti dal colpo di Stato militare del 1980, i Curdi costituiscono dal 15 al 20% della popolazione del paese, secondo le stime ufficiali. Le regioni curde sono le più povere e le meno sviluppate economicamente della Turchia, e ciò provoca una forte emigrazione verso le altre regioni del paese e all’estero: una parte importante dei proletari turchi, compresa l’emigrazione in Europa, è curda. La “questione curda” è quindi diventata una questione centrale della lotta proletaria: la lotta risoluta contro tutte le discriminazioni e le repressioni verso i curdi, per l a totale eguaglianza dei diritti, è indispensasbile per saldare i ranghi del proletariato in Turchia. Da parte loro i borghesi attizzano le divisioni, stimolando e alimentando il nazionalismo e il patriottismo turco, organizzando ripetute campagne contro il “terrorismo”, allo scopo di indebolire la classe operaia e di creare un fossato tra proletari curdi e non curdi.

Sulla base della vera oppressione nazionale subita dai curdi, il PKK iniziò una guerriglia nel 1984 per ottenere l’indipendenza della regione. Il conflitto fece decine di migliaia di morti; più di 3000 villaggi vennero distrutti dall’esercito, causando, secondo le cifre ufficiali, lo “spostamento” di più di 375.000 persone cacciate dalle loro case e ridotte alla condizione di senzatetto. Questa brutalità e la costante repressione della polizia, militare e giudiziaria verso ogni espressione curda, anche la più riformista, spinsero molti curdi a simpatizzare per il PKK. Benché si dichiarasse partito dei lavoratori, e si richiamasse al socialismo, il PKK incarnava e incarna la risposta borghese, nazionalista, ad una oppressione borghese aggravata dal colpo di Stato militare del 1980. Il suo “socialismo” non era che una versione del capitalismo di Stato esistente nell’URSS o in Cina e gli serviva per cercare un appoggio da Mosca; ma dopo il crollo dell’URSS, il PKK addandonò i suoi discorsi pseudo-socialisti per giurare il suo pieno rispetto dei valori dell’Islam. In seguito giunse a modificare la rivendicazione dell’indipendenza con quella di una semplice autonomia delle regioni curde in seno alla Turchia nel quadro di una organizzazione cantonale del paese: una specie di “confederalismno democratico”.

Rompendo con la politica abituale dei governi turchi e a dispetto dell’ostilità degli ambienti nazionalisti, dei circoli militari e anche di alcuni suoi partigiani, l’AKP mise fine al alcune discriminazioni verso i curdi e alle vessazioni poliziesche e giudiziarie che erano moneta corrente in passato; iniziò con il PKK dei negoziati che, anche se non portarono ad un accordo definitivo, determinarono comunque la fine delle azioni di guerriglia.

Ma dopo alcuni mesi il governo Erdogan riprese la retorica anticurda tradizionale. Non è certo per ragioni elettorali che l’AKP ha perso i suoi elettori curdi senza guadagnare elettori nazionalisti.

In realtà la classe dominante turca teme più di ogni altra cosa la creazione di una entità curda autonoma ai suoi confini siriani perché questa rischierebbe di alimentare le spinte separatiste fra le masse diseredate curde di Turchia. Il mantenimento, se non proprio dell’unità del paese, almeno della permanenza indiscussa dell’ordine borghese non soltanto nelle regioni periferiche povere del sud ma anche nelle grandi città e nelle grandi fabbriche dell’Anatolia o del Bosforo, impone dunque agli occhi dei borghesi turchi che i curdi siriani non riescano a conquistare una indipendenza di fatto o di diritto.

E’ questa la ragione per la quale il governo turco ha fatto tutto ciòl che poteva per lasciare isolati i combattenti curdi dell’YPG (legato al PKK) a Kobane di fronte a quelli dello Stato Islamico (ISIS), anche con repressioni cruente come accaddedurante le manifestazioni di solidarietà con i curdi nell’ottobre 2014 (più di 30 morti). Il governo turco ha lungamente rifiutato di impegnarsi militarmente contro lo Stato islamico e anche quando si è ufficialmente convinto, sotto pressione americana, ad autorizzare l’uso delle basi aeree per la coalizione anti-ISIS, esso ha in realtà diretto il grosso dei suoi bombardamenti contro le postazioni del PKK in Iraq, in Turchia e in Siria.

Secondo le autorità turche, il bilancio della ripresa, in luglio, dei combattimenti con il PKK  era, alla metà di ottobre, di più di 150 morti fra i poliziotti e i militari contro più di 2.000 “terroristi” morti.

 

L’HDP, SYRIZA TURCO

 

Il Partito Democratico del Popolo, l’HDP, è un partito di origine essenzialmente curda, vicino al PKK, spesso descritto come l’immagine legale di questo partito. In realtà esso ha riunito nel suo seno diversi piccoli gruppi e partiti di sinistra, ecologisti, maoisti, trotskisti, e ciò gli ha permesso di ottenere una risonanza nazionale facendolo assomigliare al partito greco Syriza. Raccogliendo il 13% dei voti alle elezioni legislative di giugno, ha potuto per la prima volta superare la barriera del 10% avendo così la possibilità di avere dei deputati al parlamento (80). La “sinistra della sinistra” europea ha salutato questo successo elettorale con lo stesso entusiasmo con cui aveva salutato le vittorie elettorali di Syriza...

L’HDP pratica una stretta parità e una politica di quote: ha 2 “co-presidenti”, un uomo e una donna, i suoi candidati alle elezioni sono 50% uomini e 50% donne, e riserva il 10% delle candidature a persone LGBT (Lesbiche, Gay, Bi- e Transessuali). Non esita a parlare di autogestione, di lotta contro lo sfruttamento dei lavoratori e a tenere discorsi talvolta “anticapitalisti” ecc. In realtà, è fondamentalmente un partito interclassista, riformista. Ufficialmente associato al “Partito Socialista Europeo” (raggruppamento di deputati europei socialdemocratici), intende democratizzare la Turchia attraverso l’instaurazione di una nuova costituzione che garantisca i diritti delle minoranze. L’HDP ha svolto la funzione di intermediario nei negoziati tenutisi nel 2013 fra il PKK e il governo, ed ha per lungo tempo creduto alla possibilità di ripresa di questi negoziati. E’ per questo che – mentre il governo rilanciava la guerra contro il PKK, l’AKP ed Erdogan moltiplicavano le denunce del “terrorismo curdo”, il primo ministro accusava apertamente l’HDP di complicità e quest’ultimo denunciava le “azioni criminali dell’AKP” – l’HDP non ha avuto alcuno scrupolo nell’entrare nel governo provvisorio formato dall’AKP per portare il paese verso le elezioni!

Ciò non ha evitato le accuse, da parte dei media vicini all’AKP e ad Erdogan, di sostenere il terrorismo, né ha impedito gli attacchi contro le sue sedi; ai suoi ministri e ai suoi deputati è stato impedito dalla polizia di andare alla città di Cizre sottoposta ad un blocco militare ecc. Trovandosi in una situazione sempre più insostenibile, l’HDP è stato costretto alla fine ad uscire dal governo appena qualche settimana dopo la sua formazione.

Questa esperienza la dice lunga sul quel che ci si può attendere da questo partito, non soltanto da parte dei proletari, ma da parte delle masse povere in generale, curdi compresi: come Syriza e come tutti i partiti riformisti, l’HDP non può in definitiva che piegarsi alle esigenze borghesi e difendere il capitalismo nazionale.

I partiti riformisti, collaborazionisti, che non hanno altro motto che pace e democrazia, sono degli avversari dell’emancipazione proletaria; essi non sono a fianco dei lavoratori, ma a fianco degli sfruttatori, anche quando sono bersaglio delle forze borghesi reazionarie come ieri in Cile o oggi in Turchia. I proletari non possono contare, per difendersi, su questi falsi amici che li tradiranno sempre. In Turchia, come dappertutto, essi possono contare solo sulla loro propria lotta di classe, sulle organizzazioni indipendenti di classe, sia sul terreno della lotta di difesa immediata che sul terreno politico più ampio.

La situazione dei proletari turchi non è facile, costretti ad affrontare come sono, uno Stato particolarmente brutale che, per assicurare il buon funzionamento del capitalismo, usa tutti i mezzi, legali e illegali, e che passa alternativamente e parallelamente dal metodo democratico al metodo dittatoriale di governo.

L’orribile massacro di Ankara, giunto dopo gli attentati e gli attacchi precedenti, dimostra nuovamente che gli appelli alla pace non sono che polvere negli occhi e il circo elettorale un mortale vicolo cieco. Davanti alle contraddizioni che lacerano la Turchia capitalista e, ad un grado ancora maggiore, i paesi mediorientali vicini, se non vogliono rimanere eterne vittime dei capitalisti e del loro Stato, i proletari non hanno altra scelta che quella di lottare sulla base dell’indipendenza di classe.

Di fronte alla guerra sociale che i borghesi scatenano loro contro, essi dovranno impegnarsi, sotto la direzione del loro partito di classe internazionalista e internazionale, nella guerra di classe contro il capitalismo che, superando ogni divisione etnica, religiosa e nazionale, andrà oltre ogni frontiera nazionale per abbracciare l’intera regione.

Grazie al peso sociale che lo stesso sviluppo del capitalismo nel corso di questi ultimi anni ha conferito al proletariato della Turchia, quest’ultimo possiede la forza potenziale per compiere questo grandioso compito futuro, unendosi ai proletari di tutti i paesi.

 

Abbasso il capitalismo!

Viva la guerra di classe!

Viva la rivoluzione comunista internazionale!

 


 

(1) Vedi il comunista, nr. 135, luglio 2014, Capitalisti e minatori: spietata ricerca del profitto capitalistico contro vite umane.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

18 luglio 2015

www.pcint.org

 

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