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Migranti stranieri: braccia da sfruttare fino allo sfinimento o carne da macello

 

 

Schiacciati dal bisogno di sopravvivere, i migranti stranieri sono alla mercé di imprenditori senza scrupoli e taglieggiati da caporali aguzzini che approfittano della lentezza e della interessata cecità della burocrazia locale e statale. Forza lavoro a costi bassissimi e spesso in nero, costretta a faticare fino a 14-15 ore al giorno, sette giorni su sette, senza alcuna tutela, senza riposi e ferie, e gettata fuori se protesta o se si ammala. La civiltà del capitale si mostra così nella sua essenza, e ciò che capita ai migranti stranieri è ciò che sta capitando anche ai braccianti italiani. La via d’uscita da questa situazione, durissima come la sopravvivenza quotidiana, sta nella lotta di classe che unifichi i proletari italiani a quelli di qualsiasi altra nazionalità: lottare per vivere, non lavorare per morire!  

4 agosto 2018. Campagne del foggiano; siamo in piena stagione della raccolta dei pomodori. Un furgone chiuso con a bordo 8 persone, sulla provinciale 105 tra Castelluccio dei Sauri e Ascoli Satriano, si scontra con un tir carico di pomodori; i soccorritori non hanno ancora capito la dinamica dello scontro, forse un colpo di sonno o un malore di uno dei due autisti. Le 8 persone del furgone erano tutti braccianti africani: 4 sono morti, gli altri sono feriti; tornavano dalle campagne doveva avevano raccolto i pomodori fin dalle prime luci dell’alba.

Dalla fine di luglio sono migliaia i lavoratori, in grandissima parte stranieri, impegnati nelle campagne del foggiano per la raccolta dei pomodori. Provengono dal Burkina Faso, dalla Sierra Leone, dalla Nigeria, dal Mali, dall’Uganda, dalla Guinea, dal Gambia, ma anche dalla Romania, dalla Bulgaria e dalla Polonia. Per lo più vivono in ghetti, in edifici diroccati o si accampano sotto gli alberi (cfr. bari.repubblica, 4/8/2018).

6 agosto 2018. Nelle campagne di Lesina, sulla statale 16, svincolo per Ripalta, in direzione San Severo, in provincia di Foggia, un furgone carico di braccianti africani si scontra frontalmente con un tir carico di farinacei: 12 migranti morti, 3 feriti, compreso il camionista del tir. Anche in questo caso, per un colpo di sonno o un malore, l’autista del furgono invade la corsia opposta e si va a scontrare con il tir. I migranti, a fine giornata di lavoro, stavano per essere riportati al Ghetto di Rignano Garganico, «l’accampamento abusivo dove risiedono oltre 500 cittadini extracomunitari» (cfr.  bari.repubblica, 6.8.2018).

In tre giorni, nella sola provincia di Foggia, sono morti 16 braccianti stranieri, e 8 sono feriti. E’ uno squarcio di quel che succede nelle campagne italiane, ogni anno, in tutti i periodi di raccolta, dai pomodori alle ciliegie alla frutta in genere. Sono centinaia di migliaia gli schiavi nei campi, sembrano invisibili, ma le statistiche raccontano una realtà di cui lo Stato, le Regioni, i Comuni, ogni volta che tragedie che non si possono nascondere salgono alle cronache, sembrano stupirsi: ma come!, ci sono le leggi, ci sono i contratti nazionali, gli accordi con le associazioni degli imprenditori, e di recente, nel 2016, è stata varata anche una legge specifica contro il «caporalato», e ancora si assiste a fenomeni di supersfruttamento dei braccianti e di illeciti di ogni tipo? I nostri governanti, nazionali o locali, sanno perfettamente come stanno le cose, solo che non hanno interesse a eliminare il fenomeno del supersfruttamento: al massimo fanno qualche legge – ma che regolarmente non viene applicata e rispettata – che tende ad attenuare gli effetti più brutali dello sfruttamento capitalistico. I sindacati tricolore, che normalmente cercano la collaborazione delle istituzioni e degli imprenditori per far applicare uno straccio di legge o di contratto ufficiale, vanno a sbattere sistematicamente contro un muro di gomma; d’altra parte, essi cercano di ottenere dalle stesse aziende che fanno profitto alla sola condizione di supersfruttare i lavoratori, di non sfruttarli fino a qual punto, di pagarli e trattarli secondo i contratti nazionali, di non farli lavorare in nero e di non servirsi dei caporali. Ma grandissima parte dell’attività agricola di questo tipo, che dura il limitato periodo di tempo in cui i prodotti devono essere raccolti, è condizionata proprio dal sistema del caporalato che garantisce agli imprenditori agricoli tutta la forza lavoro necessaria in quel periodo, a costi molto bassi secondo il meccanismo del cottimo, lavorando fino a 15 ore al giorno ogni giorno per tutto il periodo. Quale istituzione, quale organizzazione sindacale riuscirebbe a soddisfare queste esigenze delle aziende agricole? Nessuna. Infatti, il tentativo fatto in Puglia, sul piano del trasporto dei braccianti nei campi della raccolta, di mettere in funzione il trasporto pubblico – attraverso un regolare bando di concorso ed evitando in questo modo di ammassare gruppi di braccianti in furgoni scassati e pericolosi – è miseramente fallito. Il responsabile della CGIL-Flai della Puglia è costretto ad ammettere che «il trasporto pubblico dedicato alla stagione avrebbe bisogno della collaborazione delle imprese per tracciare i percorsi necessari; collaborazione che non c’è mai stata»! (cfr. bari.repubblica, 5/8/2018).

Secondo il quarto rapporto «Agromafie e Caporalato – Osservatorio Placido Rizzotto», della Flai CGIL, in Italia sono 400 mila i lavoratori agricoli a rischio (su 1 milione circa). I migranti si confermano una risorsa fondamentale per l’agricoltura italiana. Nel 2017 ne sono stati registrati 286.940, circa il 28% del totale. Ma a questo numero vanno aggiunti quelli del sommerso: oltre 220 mila stranieri assunti in nero e con retribuzioni molto più basse di quelle previste dai contratti nazionali. Il business del lavoro «irregolare» e del caporalato è stimato in 4,8 miliardi di euro. La percentuale degli «irregolari» è del 39%, tanto da calcolare un’evasione contributiva di 1,8 miliardi di euro. E la legge contro il caporalato è come se non esistesse.

Finora sono 30.000 le aziende agricole che ricorrono all’ «intermediazione» (dunque al caporalato!) e sono circa il 25% del totale. Il caporale ingaggia i braccianti e viene pagato dal proprietario dell’azienda, ma anche dagli stessi lavoratori che devono dargli una parte del loro compenso. Sono costretti a versare anche 5 euro per il trasporto nei campi, 3 euro per un panino, 1,5 euro per una bottiglietta d’acqua. La paga: tra i 20 e i 30 euro al giorno (3 o 4 euro l’ora), da 8 a 12 ore al giorno di lavoro (e quelle pagate sono molto meno di quelle effettivamente lavorate, come il sistema capitalistico vuole per qualsiasi lavoro salariato), lavoro a cottimo per un compenso di 3 o 4 euro a cassone da 375 kg. Salario al 50% di quello previsto dai contratti nazionali. Le donne vengono pagate il 20% meno degli uomini. Ci sono anche molti casi su ulteriore supersfruttamento con la paga oraria si 1 euro (la Repubblica, 12.7.2018). La corrispondente di “Repubblica”, che riporta questi dati, aveva iniziato il suo articolo raccontando la storia di Serge, un giovane che arriva in Italia dalla Costa d’Avorio, nel 2016, e che trova lavoro nei campi in Sicilia. Mette in evidenza come le speranze di Serge si infrangono rapidamente di fronte alla realtà: non gli spetta alcun diritto, neanche al riposo ed è sottopagato. «Scopre il caldo – continua la corrispondente di Repubblica – insopportabile nelle serre di plastica e la fatica inumana di non fermarsi mai, per nessun motivo, dalle 5 del mattino alle 4 del pomeriggio. Solo 20 minuti per mangiare. Sette giorni su sette. E scopre le ustioni sulla schiena e che, se non vieni al campo anche quando stai male ti buttano fuori; e se in serra arriva la polizia, ti devi nascondere. E stare zitto. E non protestare. Perché, come dice il “padrone”, “questo lavoro te lo devi meritare”!» (www.repubblica.it/cronaca/2018/07/12/news/rapporto_agromafie-201599978/?ref=search).

In queste ultime righe è condensato il contenuto del rapporto capitalistico che fa da base tra l’imprenditore e il lavoratore salariato; se il lavoratore è migrante, il rapporto è ancor più a favore dell’imprenditore, che nei fatti ha in mano la vita e la morte dei proletari che lavorano per lui.

Un’altra cronaca, tra le tante, entra ancor più nel vivo delle condizioni in cui sono costretti i braccianti; e in questo caso i braccianti sono tutti italiani, a dimostrazione che la micidiale concorrenza che le aziende alimentano tra proletari attraverso l’impiego di centinaia di migliaia di migranti stranieri con salari da fame, va a toccare direttamente anche i proletari italiani, sia sul piano delle sempre peggiori condizioni di lavoro che sul piano del salario. Ne parla un articolo pubblicato su “la Repubblica”, edizione di Bari, del 24/7/2018, intitolato «Caporalato a Bisceglie: lavoratori sfruttati per 14 ore al giorno». Ecco cosa si legge: Pagavano i braccianti, prevalentemente donne, e reclutate nei territori di Mola di Bari, Noicattaro, Conversano e Rutigliano, 2,5 euro all’ora facendole lavorare 14 ore consecutive sotto i teloni con temperature altissime, pretendendo che ogni giorno restituissero al caporale 2 euro. L’indagine è partita 2 anni fa, dopo segnalazioni anonime, monitorando circa 2 mila braccianti, facendo emergere un trattamento discriminatorio nei confronti delle donne, pagate meno degli uomini. Sono emersi anche episodi di omesso soccorso verso braccianti che si sono sentiti male anche più volte al giorno. L’azienda agricola in questione è la Extrafrutta di Bisceglie. Una donna che, per tre anni, ha lavorato in questa azienda come addetta a incassettare le ciliegie nel magazzino di Bisceglie e, poi, all’acinellatura. Nei campi, racconta, «giungevo tramite un bus dell’azienda dopo essere partita da Mola di Bari intorno alle 01.30» e «lavoravo anche per 15 ore consecutive, sempre in piedi, con una breve pausa pranzo di soli 30 minuti”. «Coloro che non pagavano – racconta la donna riferendosi chiaramente ai caporali – venivano allontanati».

La Extrafrutta era gestita, oltre che da un amministratore e da un contabile, da una donna di nome Maria Macchia, il caporale che si faceva chiamare Marisa, e che istruiva i braccianti su cosa rispondere in caso di controlli dei finanzieri, distribuendo loro dei pizzini in cui era scritto che non dovevano chiamarla “caporale”, dovevano dire di lavorare 6 ore al giorno (e non 14 come invece lavoravano) e non dichiarare che le corrispondevano una percentuale sul salario, già molto basso, che altro non era che una vera e propria tangente. Una tangente che non solo era costituita in ore di lavoro non pagate, ma anche da una parte del magro salario percepito!

Oltre allo sfruttamento bestiale riservato ai braccianti stranieri e italiani, questi proletari rischiano la vita nei campi mentre lavorano e sulle strade mentre vengono trasportati da una parte all’altra, come è successo il 4 e il 6 agosto.

Che cosa hanno detto le “autorità”? Salvini, l’arcigno ministro dell’Interno, ha annunciato: «Controlli a tappeto contro il caporalato», mentre i rappresentanti dei 5 Stelle lanciano un appello per discutere una loro proposta di legge presentata nel 2016 pe contrastare il caporalato: «Siamo stanchi di leggere queste notizie – dichiara la pentastellata consigliera regionale Barone – così come siamo stanchi di sentire ogni estate le stesse belle parole dopo ogni tragedia, senza da queste segua alcun provvedimento concreto per arginare il fenomeno del caporalato». Poverini, sono stanchi di leggere queste notizie e sentire le belle parole che tutte le autorità dicono sistematicamente dopo ogni tragedia, e che vengono bellamente dimenticate qualche settimana dopo, mentre il supersfruttamento e le morti sul lavoro continuano imperterriti! D’altra parte, che cosa c’è da aspettarsi da chi, nel vivo della tragedia, alza la voce per dire che bisognerebbe emanare dei provvedimenti per arginare il fenomeno del caporalato? Attenzione: arginare, non eliminare, che equivale ad ammettere che il fenomeno del caporalato non potrà mai essere debellato completamente: alla faccia della dignità dei lavoratori!

Ma il fenomeno del caporalato non è avulso dal sistema economico che lo comprende e lo alimenta. Le stesse indagini che la magistratura di tanto in tanto mette in campo, nel tentativo di dimostrare che la democrazia funziona e che le leggi “se rispettate” porterebbero qualche beneficio, dimostrano che lo sfruttamento capitalistico non ha limiti se non quando le masse proletarie si ribellano contro i capitalisti, si uniscono nella lotta di difesa della propria esistenza perché solo con la forza, non con le parole, possono ottenere che le condizioni di lavoro non peggiorino. Anche se condannata una qualsiasi “caporale Marisa”, ce ne sono altri mille che continuano a schiacciare centinaia di migliaia di proletari, extracomunitari o meno, in condizioni di vera e propria schiavitù, col beneplacito delle aziende agricole. A parte lo spreco di belle parole, da parte dei politici, dei sindacalisti, dei procuratori, dei vescovi di fronte ad ogni tragedia sul lavoro che non si può nascondere, è ancora una volta il ministro dell’Interno Salvini – quello che non vuole aprire i porti ai naufraghi, che vuole censire i rom, che vuole rimandare i migranti nei campi di concentramento libici da dove sono scappati – che mette in evidenza l’interesse di fondo che preoccupa il governo: «Se l’agricoltura italiana non fosse costretta a inseguire la concorrenza sleale di altri produttori, probabilmente avremmo fenomeni minori di illegalità; traduco: se l’Europa non ci costringesse a inseguire l’importazione forzata di pomodori tunisini, arance marocchine, riso birmano, grano canadese, per i nostri agricoltori forse vivere sarebbe più semplice». Più semplice per le imprese agricole, non certo per i braccianti! Dunque il supersfruttamento dei migranti e dei braccianti, e le morti sul lavoro, rispondono alle esigenze delle aziende agricole italiane che devono vedersela con la concorrenza straniera, che a sua volta è istigata da istituzioni sovranazionali che si identificano nella generica “Europa” tirata in ballo tutte le volte che il famoso motto: «prima gli italiani», viene sbandierato contro i migranti e la concorrenza. Torna in primo piano, in effetti, l’impotenza congenita del potere borghese di fronte alle leggi del mercato che si dimostrano, in ultima analisi, più forti di qualsiasi legge e di qualsiasi intervento delle famose “autorità”.

Ma i sindacati confederali non sono da meno, nell’evitare di prendere di petto il problema generale dello sfruttamento capitalistico. Nella loro funzione di collaboratori del potere borghese e capitalistico, fanno indagini, redigono statistiche, e alzano la voce quando i morti sul lavoro sconvolgono le masse tra le quali essi traggono i propri iscritti.  Lo sport di incolpare il caporalato dello sfruttamento bestiale dei braccianti e dello stretto controllo dei lavoratori dei campi grazie al quale i caporali si assicurano la fonte dei loro guadagni, è condiviso dalle autorità politiche e amministrative, dalle autorità di polizia, dai partiti parlamentari e dai sindacati. La loro visione democratica e riformista non permette e non permetterà mai di comprendere che la causa vera di queste tragedie sta nel modo di produzione capitalistico e che i proletari, dell’industria, dei campi, dei trasporti e di qualsiasi altro settore di attività, se non vogliono morire di fatica, di lavoro e di fame devono unirsi come classe antagonista alla classe degli imprenditori, alla classe dei capitalisti e ai loro sostenitori e tirapiedi – economici, sociali, politici, militari, religiosi – in difesa esclusiva dei propri interessi che, prima di tutto, sono interessi di sopravvivenza, di esistenza, lottando sia sul piano delle condizioni di lavoro, sia sul piano del salario, sia sul piano dell’organizzazione di classe.

Imboccare questa via, dopo decenni di illusioni democratiche, di collaborazionismo politico e sindacale da parte dei partiti cosiddetti dei lavoratori e dei sindacati sì operai, ma votati a conciare la pelle dei lavoratori salariati a favore dell’economia aziendale e nazionale, dopo decenni in cui anche solo il ricordo delle vigorose lotte operaie in difesa dei loro interessi immediati è stato sepolto sotto montagne di negoziati e contrattazioni inconcludenti e demoralizzanti, imboccare la vera via della lotta classista, attuata con mezzi e metodi classisti – ossia che non tengono conto degli interessi delle aziende, ma solo di quelli dei proletari – sarà molto dura, ma è l’unica che può dare ai proletari, migranti e autoctoni, la reale possibilità di difendersi dai molteplici attacchi alle loro condizioni di vita e di lavoro che il sistema capitalistico mette in atto per ricavarne il massimo profitto al minor costo possibile.

E’ questa lotta classista che potrà cominciare a dare delle risposte positive ai proletari, migranti e autoctoni, ed è la sola che potrà effettivamente arginare qualsiasi fenomeno legato allo sfruttamento e al controllo criminale della forza lavoro salariata; in attesa di poter, un domani, sull’esperienza di lotta effettivamente accumulata e sul suo allargamento ai proletari di ogni settore produttivo e distributivo, passare dalla lotta di difesa dalla pressione e dalla repressione capitalistica alla lotta di offesa contro il sistema borghese che difende gli interessi della classe dominante, del capitale contro il lavoro salariato. La riorganizzazione di classe, l’associazionismo operaio classista potrà rinascere alla condizione che i proletari tornino a lottare sul terreno della lotta di classe, riconoscendo l’antagonismo di classe che li oppone, non solo idealmente ma soprattutto concretamente, ai borghesi e ai capitalisti e trattando il proprio presente e il proprio futuro come un bene che soltanto la lotta di classe può proteggere e, nello stesso tempo, favorire. U questo cammino, i proletari troveranno sempre in prima fila i comunisti rivoluzionari e il loro lavoro per formare il partito comunista, compatto e potente, che li guiderà nel lungo e accidentato percorso verso l’emancipazione.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

8 agosto 2018

www.pcint.org

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