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Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                


 

A Hong Kong un movimento di lotta di grande ampiezza, ma interclassista

 

 

Il movimento di protesta a Hong Kong dura da più di due mesi; non dà segni di stanchezza, nonostante le dichiarazioni del governo locale sulla sospensione di una misura che aveva dato fuoco alle polveri, la campagna dei media contro la violenza dei manifestanti, le minacce del governo cinese e la repressione poliziesca. Il movimento ha toccato anche un livello più alto giungendo ad uno “sciopero generale” il 5 agosto, il primo movimento di questo genere dopo gli scioperi e i moti del 1967.

Tutto è cominciato con l’annuncio da parte del governo di un decreto che autorizzava le estradizioni verso la Cina continentale.

Gli accordi passati, dalla restituzione nel 1997 del territorio di Hong Kong alla Cina da parte del governo britannico, conosciuto col nome di “un paese, due sistemi”, lasciava alla vecchia colonia il suo sistema giuridico e normativo – nel quadro del quale Hong Kong era diventata una potenza economica e finanziaria di primo piano. Il territorio beneficiò di uno statuto che decretava l’autonomia amministrativa e giudiziaria, con un parlamento e un governo locale, usciti da elezioni indirette. Il campo detto “pro-Pechino”, maggioritario, vi rappresenta gli interessi dei grandi capitalisti; i partiti detti “pan-democratici”, che assolvono il ruolo di oppositori, sono anch’essi borghesi, e alcuni di loro ricevono dei sussudi dagli Stati Uniti. Le elezioni del 2016 hanno visto un certo successo da parte di partiti detti “localisti” (indipendentisti), spesso di estrema destra, che fanno leva sull’ostilità di una parte della popolazione nei confronti della Cina e delle minoranza etniche, accusate di essere responsabili dell’aumento di certi prezzi, come quelli degli alloggi, e di voler approfittare delle prestazioni sociali locali e di essere una causa di criminalità (1).

 

L’importanza di Hong Kong per la Cina

 

Hong Kong è stata per molto tempo il principale punto di contatto dell’economia cinese con il resto del mondo, e ciò attribuisce un’importanza insostituibile alle attività commerciali e finanziarie di Pechino. E’ per questa ragione che la Cina accettò di concedergli uno statuto particolare grazie al quale si assicurava la continuità degli affari senza scontri. Avendo conosciuto da tempo un’innegabile industrializzazione, Hong Kong aveva sviluppato fin dagli anni Sessanta floride attività industriali, grazie ai lavoratori cinesi immigrati ma sottopagati perché “clandestini”. Alla fine degli anni Settanta si contavano circa 900.000 operai che lavoravano in oltre 20.000 fabbriche; questo significava che a fianco delle grandi fabbriche vi erano molte piccole imprese, appartenenti soprattutto al settore tessile e dell’abbigliamento. Nello stesso periodo comparvero o si installarono anche imprese elettroniche, farmaceutiche, dell’orologeria, dei giochi ecc. Hong Kong faceva parte del gruppo di paesi chiamati le “tigri asiatiche” con Singapore, la Corea del Sud e Taiwan (conosciuta anche come Formosa), paesi del Sud Est asiatico dall’industrializzazione velocissima.

Ma, all’inizio degli anni Ottanta le industrie di Hong Kong, vista l’apertura economica della Cina con una manodopera a basso prezzo, cominciarono a delocalizzare massicciamente le loro fabbriche, soprattutto nella vicina regione di Canton. Si stima, oggi, che le aziende di Hong Kong, territorio popolato da 7,5 milioni di abitanti, sfruttino intorno ai 10 milioni di lavoratori nella Cina continentale! Il calo del settore industriale si è accentuato ulteriormente dopo la crisi del 2008, e i capitalisti si sono orientati ancor più verso il settore terziario per realizzare i loro profitti. Le ultime statistiche disponibili indicano che l’industria propriamente detta (settore “manifatturiero” secondo la terminologia anglosassone) impieghi non più di 900.000 persone contro oltre 700.000 nel commercio e nella logistica, 550.000 nei “servizi professionali”, 250.000 nel settore finanziario e altrettanti nel settore turistico (2).

Man mano che la Cina ha stabilito legami diretti con il mercato mondiale, Hong Kong ha perso l’importanza che aveva in precedenza per la Cina, ma resta una piazza finanziaria d’importanza internazionale per le imprese cinesi (la sua Borsa è la 6a a livello mondiale e vi sono quotate le più grandi società cinesi), un centro commerciale e di scambi internazionali (è il 5° porto  mondiale per il traffico di containers, il suo aeroporto è all’ottavo posto mondiale per numero di passeggeri) ecc. Questo significa che i disordini che stanno avvenendo in questi mesi possono avere conseguenze che superano largamente i limiti del suo territorio.

Il movimento di protesta attuale ha raggiunto un’ampiezza ben superiore rispetto a quella della cosiddetta “rivoluzione degli ombrelli” dell’ottobre 2014; allora, decine di migliaia di giovani, soprattutto studenti, manifestarono e fecero dei sit-in a Hong Kong contro un progetto di legge che consentiva solo a dei “patrioti” designati da Pechino la possibilità di concorrere ai posti di comando del governo, e per chiedere il suffragio universale (il progetto di legge sarà poi definitivamente respinto).

Gli attuali manifestanti vedono nel progetto di decreto odierno un primo passo, chiaramente deciso da Pechino, per mettere fine allo statuto speciale di Hong Kong. I timori degli abitanti sono alimentati dalla svolta autoritaria e repressiva del governo cinese. Vi era stato, inoltre, il precedente dei proprietari e degli impiegati di una libreria di Hong Kong prelevati da agenti cinesi nel 2015 a causa della pubblicazione di opere contro il presidente Xi Jinping.

L’indiganzione di numerosi abitanti contro le brutalità della polizia nei confronti dei giovani manifestanti pacifici ha ingrossato le file dei manifestanti. Il 9 giugno scorso, era sceso in strada un milione di persone; il 16 giugno, benché il governo avesse nel frattempo annunciato di aver “sospeso” il suo progetto di decreto, circa due milioni di persone, di tutte le età e di ogni condizione sociale, hanno manifestato, reclamando il ritiro definitivo del decreto e le dimissioni della capa del governo.

Senza raggiungere numeri così alti, le manifestazioni successivamente sono continuate malgrado le dichiarazioni e le minacce del governo, la repressione della polizia o il ricorso alla malavita (membri delle “triadi”, organizzazioni criminali di tipo mafioso, hanno attaccato i manifestanti). Il 12 agosto, tutti i voli in arrivo e in partenza da Hong Kong sono stati soppressi dato che migliaia di manifestanti avevano invaso l’aeroporto, bloccandolo. Numerosi manifestanti portavano una benda su un occhio in solidarietà con un manifestante accecato da un proiettile sparato dalla polizia.

Da parte sua, il governo centrale di Pechino che, in un primo tempo, sembrava avesse ignorato il movimento, non fa che aumentare le minacce contro i manifestanti accusati di essere dei “terroristi”; ha lasciato intendere che i suoi soldati acquartierati sul territorio potrebbero dar man forte ai poliziotti di Hong Kong. Ha anche obbligato la Cathay Pacific, la compagnia aerea di Hong Kong, a comunicargli i nomi degli impiegati che hanno scioperato, vietando in ogni caso di sorvolare il territorio cinese...

Pechino teme che l’agitazione si diffonda nella Cina continentale, e quindi fa pressione perché il governo locale ceda il meno possibile: l’esempio sarebbe troppo dannoso, in questo trentesimo anniversario delle manifestazioni di piazza Tienanmen. Nella sua propaganda, ad uso interno, Pechino denuncia gli avvenimenti come un’azione anticinese organizzata sotto sotto da Washington. Ma l’imperialismo americano ha subito dichiarato di non fornire alcun sostegno alle “sommosse”, come le ha chiamate Trump.

 

Cause sociali della mobilitazione

 

La profondità e la durata di questa mobilitazione sono il segno che le sue cause vanno ben al di là dell’opposizione ad un decreto: le cause sono sociali.

A dispetto dell’apparente prosperità del territorio, simboleggiata dai suoi sfavillanti grattacieli o dai record borsistici, la situazione non è per nulla rosea per i suoi abitanti.

Senza dubbio il livello di vita della popolazione in generale e anche quello degli stessi proletari non è più quello di 50 anni fa; ma le diseguaglianze hanno raggiunto un livello senza precedenti dopo 45 anni (data delle prime statistiche a questo riguardo). Il tasso di povertà ufficiale è intorno al 20%, contro l’11% del 1991. Questa povertà tocca soprattutto gli anziani, le donne, le minoranze etniche e i lavoratori a basso salrio. Il salario minimo, in 8 anni, si è abbassato in termini reali (3). E’ emblematico che la manifestazione sindacale del primo maggio, che ha radunato 4.000 persone, tra le sue rivendicazioni centrali aveva posto la limitazione della settimana lavorativa a 44 ore, l’aumento dei salari e delle pensioni di vecchiaia.

Ma anche i lavoratori meglio retribuiti conoscono difficoltà crescenti, visto il costo della vita e in particolare degli alloggi. La crisi delle abitazioni raggiunge un livello tale che decine di migliaia di poveri vivono in “gabbie” di 2 metri di lunghezza ammassate le une sulle altre, o in appartamenti che i “mercanti del sonno” dividono in soppalchi per ammucchiare più persone possibile. Anche i piccoloborghesi soffrono di questa situazione: vedono i loro redditi taglieggiati dai prezzi degli alloggi, e non riescono, se non con difficoltà, ad acquistarne uno.

 

Una mobilitazione interclassista dagli orientamenti borghesi

 

Lo “sciopero generale” del 5 agosto non deve alimentare illusioni; alcuni l’hanno paragonato al grande sciopero generale del 1925 che, nel periodo rivoluzionario dell’epoca, vide decine di migliaia di proletari esercitare un controllo di fatto sulla città, trascinando dietro di sé le masse oppresse ed estendendo il movimento a Canton. Niente di più falso!

Oggi, anche se ben più numeroso di allora, il proletariato si trova al rimorchio delle masse indifferenziate, chiamato a svolgere il compito di punto d’appoggio di un movimento che ignora del tutto i suoi interessi e le sue rivendicazioni. Lanciato all’inizio principalmente da democratici, il movimento si è esteso rapidamente agli studenti e agli strati piccoloborghesi (liberi professionisti ecc.) che temono di veder minacciato il loro stile di vita, un movimento che si è generalizzato acausa dell’atteggiamento delle autorità.

A differenza del movimento degli ombrelli, quando esisteva un’organizzazione dirigente (il sindacato studentesco), il movimento attuale rigetta ogni forma di organizzazione prefissata, contando sui social-network per organizzare di volta in volta la loro mobilitazione. E rigetta anche tutto ciò che potrebbe alludere a una divisione di classe, presentandosi come un movimento di tutti gli abitanti di Hong Kong. Al punto che, secondo alcune testimonianze, i membri delle minoranze etniche hanno paura di partecipare alle manifestazioni.

L’onnipresente rivendicazione di democrazia non è accompagnata da alcuna denuncia né critica, anche se parziale, del sistema economico e sociale capitalista; si ha, al contrario, una difesa di questo sistema, valorizzato come tipico di Hong Kong, contro le minacce che farebbe pesare su di esso il governo di Pechino. Se le speranze, o gli appelli, agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna per sostenere Hong Kong contro Pechino sono, a questo stadio, marginali, si iscrivono tuttavia naturalmente nella logica degli orientamenti borghesi di tipo nazionalista del movimento.

 

Una sola prospettiva per i proletari: la rivoluzione comunista internazionale

 

Come altri movimenti dello stesso tipo in altri apesi, il movimento di Hong Kong, non è ancora l’inizio della lotta proletaria di classe; ma, come gli altri movimenti di questo tipo, è un segno della lacerazione dello statu quo sociale che domani potrà permettere al proletariato di entrare in lotta per proprio conto – non solo per difendere i suoi interessi immediati, ma anche per lanciarsi nella lotta rivoluzionaria anticapitalistica. A questo scopo dovrà necessariamente liberarsi delle unioni popolari o nazionali che lo imprigionano, rompere la subordinazione agli orientamenti borghesi e piccoloborghesi e ritrovare le proprie armi di classe unendo le sue lotte al di sopra delle frontiere. Questo è il solo mezzo di trascinare dietro di sé, nella lotta contro il capitalismo, gli strati piccoloborghesi spinti a ribellarsi di fronte al peggioramento delle loro condizioni.

Allora “la rivoluzione del nostro tempo” non avrà come obiettivo di “liberare Hong Kong” (slogan di origine indipendentista largamente ripreso nelle manifestazioni suscitando grande indignazione da parte della capa del governo locale), ma quello di liberare i proletari e tutti gli oppressi rovesciando il capitalismo in tutta la Cina e nel mondo intero: sarà la rivoluzione comunista internazionale.

 


 

(1) Certi localisti rivendicano il riconoscimento di abitanti di Hong Kong soltanto per coloro che parlano cantonese (dialetto cinese della regione di Canton-Hong Kong) e non mandarino, che è la lingua ufficiale sul continente – o... inglese, mentre numerosi abitanti originari parlano altri dialetti (Hakka, Chaozhou).

(2) Hong Kong Monthly Digest of Statistics, Luglio 2019.

(3) South China Morning Post, 27/9/2018.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

14 agosto 2019

www.pcint.org

 

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