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Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                


 

La violenza contro le donne è parte integrante della violenza di classe espressa nella società in cui i rapporti sociali dipendono strettamente dai rapporti di produzione e di proprietà borghesi

 

 

Nella società in cui la vita dipende dal capitale e dallo sfruttamento del lavoro salariato, in cui la classe borghese domina grazie alla proprietà privata dei mezzi di produzione e, soprattutto, all’appropriazione privata della produzione sociale; nella società in cui lo Stato e le sue leggi sono i più efficaci difensori del dominio borghese sulla società; nella società in cui la sopravvivenza delle grandi masse lavoratrici dipende esclusivamente dal salario e il salario dipende esclusivamente dalla convenienza che il capitalista ha nell’assumere, o meno, lavoratori; nella società in cui l’acqua, l’aria, le risorse naturali e la stessa forza lavoro sono merci; in una società di questo genere la violenza  contro le donne è parte integrante della violenza di classe che, col capitalismo, non ha fatto che diventare quotidiana, normale!

Con il progresso industriale è aumentata la massa dei lavoratori, rispetto alla classe dominante borghese, e lo sfruttamento della forza lavoro salariata si è allargato coinvolgendo oltre al maschio operaio anche la donna operaia e i fanciulli operai. La borghesia “non lascia indietro nessuno” – così recita la sua propaganda anche di fronte alla pandemia da Covid-19 – certo, infatti sfrutta, da sempre, qualsiasi essere umano fin dalla sua nascita!

Se un tempo la donna subiva una forma particolare di oppressione, quella domestica, essendo costretta, per vivere, ad occuparsi della casa, del cibo, del vestiario, dei figli mentre il marito, il padre, l’uomo di famiglia andava a lavorare sotto padrone, il progresso sociale portato dalla grande industria l’ha attirata in fabbrica e negli uffici aggiungendo così all’oppressione domestica l’oppressione salariale. E’ per questa ragione che Lenin sintetizzava la condizione della donna nel capitalismo come doppia oppressione. La condizione di schiava domestica non viene superata, e tantomeno cancellata, dall’essere diventata lavoratrice salariata: in realtà, la cosiddetta “indipendenza” economica che la donna avrebbe “conquistato” nei confronti del suo uomo e della famiglia è un falso passo verso l’emancipazione dalla schiavitù domestica, perché la opprime dentro e fuori casa; finché la società è organizzata a immagine e somiglianza della classe dominante borghese, con i suoi rapporti di produzione e di proprietà, la donna subirà sempre la doppia oppressione, sarà sempre considerata una proprietà privata a disposizione del padre, del marito, del fratello, insomma della famiglia.

Il capitalismo, attirando la donna e i figli minori nei processi produttivi, oltre ad ampliare lo sfruttamento sull’intera famiglia proletaria, ha contemporaneamente aumentato la concorrenza tra proletari, perché oltre a quella già esistente tra proletari maschi (per gradi di istruzione e di specializzazione diversi, per età e nazionalità diverse e disponibilità ad essere pagati meno degli altri) si è aggiunta la concorrenza tra proletariato maschile e proletariato femminile. 

Le lotte del proletariato maschile non potevano non coinvolgere, prima o poi, il proletariato femminile strappandolo, in un certo senso, dalla condizione di oppressione domestica per la quale – in particolare nei riguardi dei figli – la donna si sente fisicamente e moralmente impegnata in modo diretto. Il corso storico di queste lotte ha portato, nei paesi più industrializzati, alla conquista di tutta una serie di diritti politici ed economici che non sarebbero mai stati ottenuti se fossero dipesi solo dalla volontà della classe dominante borghese. E questi sono stati, senza dubbio, dei notevoli passi avanti, proprio sul piano politico, da parte del proletariato in generale, perché hanno posto di fronte al proletariato il nodo intorno al quale si risolvono o meno i problemi sociali: il potere politico.

Finché il potere politico resta nelle mani della classe borghese, i rapporti sociali di produzione e di proprietà non cambiano e, quindi, non cambiano nemmeno le conseguenze dirette e indirette di questa organizzazione sociale: la violenza economica capitalistica che costringe la stragrande maggioranza della popolazione a subire lo sfruttamento del lavoro salariato, gli infortuni e le morti sul lavoro, la diffusione di malattie dovute all’inquinamento atmosferico, delle acque e dei terreni, la disoccupazione, la miseria, la fame, fa da base ad una violenza che si esprime in un vero e proprio disprezzo per la vita altrui, si tratti di lavoratori dipendenti, di abitanti in città inquinate e in quartieri emarginati, di familiari a cui sottrarre dei beni o su cui sfogare la propria rabbia e le proprie insoddisfazioni.

La tanto osannata civiltà dei diritti, del progresso tecnologico, delle istituzioni democratiche, è mai riuscita a ridurre o addirittura azzerare, il tasso di violenza che le statistiche borghesi classificano sotto la voce stupri, molestie sessuali, femminicidi o omicidi in generale? Assolutamente no! Anche le statistiche dell’ultimo decennio rilevano che viene uccisa una donna ogni tre giorni, e che 3 donne su 4 sono state uccise all’interno della  famiglia, da mariti, partner o ex partner e che, durante i lockdown dovuti alla pandemia, il 90% delle donne uccise lo è stato per mano di familiari! Una carneficina continua!

La famiglia, considerata l’istituzione base della società, è invece il luogo dove al posto dell’amore si esprime il massimo disprezzo della vita della donna, ed ha poca importanza se la violenza avviene in casa o per strada. Ma se già in famiglia la donna subisce questa condizione di oppressione che può sfociare in maltrattamenti, stupri e uccisioni, cosa dire dei luoghi esterni alla famiglia, dei posti di lavoro, di divertimento, delle scuole dove atti di bullismo e molestie sessuali sono all’ordine del giorno. Atti di questo genere, che un tempo sembravano rari solo perché le donne che ne rimanevano vittime non avevano il coraggio di denunciarli e di ribellarsi, oggi sono oggetto di notizia quotidiana di giornali, radio, televisioni, e più sono efferati più “fanno notizia”, “fanno vendere”, “fanno audience”; sono diventati – come d’altra parte ogni altro atto violento e criminale – soggetti di film e di fiction su cui si costruiscono carriere e affari. Essi fanno parte delle normali disgrazie quotidiane di questa società sulle quali si levano parole di compassione da parte delle autorità e dei benpensanti, parole che vengono, però, immediatamente soffocate da altre normali disgrazie quotidiane: perché non ci sono i soldi per mettere insieme il pranzo con la cena, perché aspettare un figlio mette a rischio il posto di lavoro, perché ammalarsi significa essere considerati merce avariata, perché rivendicare una reale attuazione della parità di diritti tra femmine e maschi è una fatica di Sisifo che non raggiunge mai l’obiettivo.

La diseguaglianza sociale che pone le donne in uno stato di inferiorità perenne, sul piano economico  come su quello politico e sociale, è alla base dell’atteggiamento borghese del predatore a caccia di prede. Alla pari dell’appropriazione privata che vige nel processo produttivo capitalistico (il prodotto che l’operaio produce non è di sua proprietà, ma è di proprietà esclusiva del padrone borghese, e l’operaio viene pagato con un salario che corrisponde ai soli mezzi di sussistenza necessari per mantenersi in vita), cioè dell’appropriazione del lavoro altrui (come afferma il Manifesto di Marx-Engels) da parte del capitalista, vige la stessa legge nei confronti della donna: essa diventa oggetto di appropriazione privata da parte dell’uomo, marito, padre o partner che sia, ed è questa appropriazione privata che viene formalizzata nella famiglia. E su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica (ancora il Manifesto). Nella famiglia proletaria, l’effetto dello sviluppo industriale della società comporta non solo un ulteriore elemento di concorrenza tra maschi e femmine appartenenti alla stessa famiglia, ma anche una continua lacerazione dei vincoli familiari dovuta al condizionamento del guadagno privato mentre i figli vengono trasformati in articoli di commercio e strumenti di lavoro: schiava la donna, schiavi i figli. L’umanità, tanto decantata da una cultura che mira esclusivamente a giustificare l’eternità dei rapporti di produzione e di proprietà borghesi, è stata semplicemente disumanizzata e questo lo si deve non alla cattiveria del tale o tal altro borghese, ma all’organizzazione sociale borghese che si basa sul modo di produzione capitalistico che tutto trasforma, come detto, in articolo di commercio, in strumento di produzione: produzione di profitto naturalmente.

 

La società borghese si vanta di aver raggiunto livelli di cultura, di scienza, di tecnologia, di benessere mai raggiunti nelle società precedenti, e si vanta di procedere verso una “completa parità di genere” che sarebbe dovuta alla “presa di coscienza” dei popoli più civili, più progrediti, più democratici. Dopo aver scritto sulle proprie bandiere un obiettivo storico trinitario libertà-eguaglianza-fraternità, e averlo smentito fin dal primo momento come obiettivo di tutti i “cittadini”, dimostrando nei fatti che tali parole valevano e valgono esclusivamente per la classe dominante borghese: ogni borghese vuole essere libero di perseguire i propri interessi privati poggiando su basi economiche e politiche che gli permettono di realizzarli, e vuole essere libero, come ogni altro borghese, di sfruttare il più possibile la forza lavoro salariata per il proprio profitto privato. Il resto dei cittadini, e i proletari in particolare, sono “liberi” di accettare le condizioni poste dal borghese – attraverso il suo Stato e le sue leggi – e di sottomettersi al regime salariale se vogliono sopravvivere in una società che non è la loro, ma è dei borghesi.

La società borghese mostra di essere del tutto incapace di attuare la tanto decantata “parità di genere”, la tanto propagandata civiltà del diritto uguale per tutti. In realtà è una società che trasuda violenza da tutti i pori e non è certo un caso che tale violenza si manifesti soprattutto contro le parti più deboli della società: le donne, i bambini, gli anziani, gli stranieri.

Il proletariato femminile ha dovuto faticare molto di più del proletariato maschile per raggiungere, anche solo formalmente, una serie di diritti che non gli erano riconosciuti, in particolare sul piano salariale e normativo; e ha dovuto faticare enormemente per ottenere il diritto al divorzio e all’aborto. Ma come ogni diritto borghese, la sua applicazione è condizionata dalle risorse economiche individuali, e a questo condizionamento si aggiungono la pressione culturale e religiosa che eleva a principio il “sacro vincolo del matrimonio” e la sacralità della vita anche nella fase fetale. Per l’ennesima volta è la donna a subire le conseguenze più negative di questa doppia pressione, economica e cultural-religiosa.

I “diritti”, il cui riconoscimento la società borghese non poteva più rifiutare, sono stati scritti nelle leggi o addirittura nelle Costituzioni. Ma la loro applicazione è totalmente condizionata dal rapporto di forze stabilito tra borghesia e proletariato. Nel momento in cui la borghesia subisce la pressione da parte della forza del movimento proletario è pronta a emanare leggi e articoli di legge che formalmente favoriscono le sue rivendicazioni; ma col tempo questa pressione di esaurisce e la classe borghese, con la forza del suo Stato e dei suoi governi, si rimangia le concessioni fatte, riscrive le leggi o gli articoli di legge che vanno a vanificare il contenuto di quelle rivendicazioni. Riconosciuto il diritto all’aborto è bastato riconoscere il diritto all’obiezione da parte dei ginecologi per complicare la sua attuazione; per non parlare del divorzio la cui attuazione dipende esclusivamente dalle possibilità economiche dei due divorziandi. Ma ci sono donne che all’aborto o al divorzio non ci arrivano perché vengono uccise prima...

 

Una borghesia che tratta i proletari come schiavi salariati, le donne come articoli di commercio e strumenti di produzione, e che sguazza in una società che ha mercificato ogni attività umana ed ogni rapporto umano, che “diritto” ha di perpetuare il suo potere politico, il suo dominio sul mondo?

La borghesia sa bene che non è di diritto che si tratta, ma di forza. E la sua forza è determinata da una parte dal fatto di essere la classe dominante, di avere lo Stato e la forza militare al proprio servizio, e di influenzare culturalmente e politicamente le grandi masse proletarie; dall’altra, dal fatto di avere al suo fianco i sindacati economici e i partiti politici opportunisti che organizzano e influenzano direttamente il proletariato, e che svolgono la preziosissima opera di conservazione sociale che si chiama collaborazione di classe. La grande forza su cui la borghesia conta, e che le permette di illudere i proletari, e in particolare le proletarie, che la strada della loro emancipazione è quella che la stessa borghesia indica – proposte di legge, discussioni nel parlamento, movimento pacifico di pressione, nel rispetto delle leggi esistenti e dell’ordine pubblico – è data proprio dall’asservimento generale del proletariato alle esigenze borghesi, con l’accettazione del fatto che tutto possa venir messo in discussione, dialogando pacificamente, tranne la struttura economica della società e la sua sovrastruttura politica esistente.

La borghesia, dopo aver riconosciuto storicamente l’esistenza delle classi e della lotta fra di loro in quanto classi con interessi antagonistici, ha sviluppato all’interno del corpo sociale proletario – attraverso l’inoculazione dell’opportunismo riformista e democratico-pacifista – una risposta negativa alla spontanea spinta alla lotta classista. Inebetito dalle forti dosi di illusioni riformiste somministrate per decenni dalla vasta schiera di opportunisti, il proletariato non riconosce più se stesso come una classe che ha interessi suoi, specifici, appunto di classe che sono totalmente antagonistici a quelli della classe borghese e per la difesa dei quali la via da seguire è quella della lotta antiborghese, utilizzando mezzi e metodi di lotta che si riferiscono alla forza e non al “diritto”.

Ottenere una drastica riduzione della giornata lavorativa, un abbattimento dei ritmi di lavoro, reali misure di sicurezza sul lavoro, aumenti salariali consistenti, pieno salario ai licenziati e ai disoccupati, cioè rivendicazioni basilari che uniscono proletari e proletarie di ogni età, settore e nazionalità, non lo si può fare discutendo sulla base della conciliazione degli interessi, ma lottando e forzando i borghesi a trattare sulla base delle rivendicazioni operaie e non su quelle borghesi. Certo, dalla sera alla mattina non è pensabile che il proletariato si alzi in tutta la sua potenza sociale e metta con le spalle al muro la classe dominante borghese. Ma deve cominciare a reagire all’oppressione, ai soprusi, alle vessazioni, alle ingiustizie su questo terreno, sul terreno della lotta in difesa esclusiva dei propri interessi di classe, anche partendo da episodi parziali, locali, che possono sembrare di poca importanza come può essere, nei posti di lavoro, un maltrattamento o una mancanza di rispetto da parte dei capi, soprattutto se rivolti a una donna. E’ proprio nella solidarietà dei proletari maschi che le proletarie possono trovare la forza di reagire anche individualmente a tutta quella serie di atteggiamenti, insinuazioni, tentativi o vere e proprie molestie che fiaccano il loro morale e la considerazione di se stesse rendendole ancora più esposte a subire altre angherie fino ad obbligarle magari a licenziarsi.    

La socialità che si costruisce nei posti di lavoro o nei circoli sociali tra proletari è il terreno su cui rafforzare la coscienza di essere parte di una classe che non è condannata per tutta la vita ad essere sfruttata, maltrattata e gettata da una parte quando non serve più a produrre profitti, ma che è portatrice di una prospettiva sociale completamente opposta, tesa a combattere ogni forma di oppressione e a superare ogni antagonismo tra le classi in un futuro che va preparato con la lotta di classe, con la lotta che unisce al di sopra delle differenze di sesso, di età, di nazionalità, l’unica classe storicamente rivoluzionaria di questa socieltà: il proletariato, la classe dei lavoratori salariati.

Battersi contro l’oppressione della donna, per i proletari, significa assumere nelle proprie rivendicazioni di classe le rivendicazioni che riguardano direttamente le donne, sia nei posti di lavoro sia nella vita sociale. E’ un errore pensare che, ad esempio, per l’aborto si devono muovere soltanto le donne perché le riguarda direttamente. Questo è un diritto che vale soprattutto per il proletariato, perché le donne della borghesia non si sono mai fatte alcuno scrupolo nel decidere, se di loro convenienza, di abortire: hanno i soldi, le amicizie e la complicità dei mariti o degli amanti. Ma la donna proletaria se la deve vedere con i medici obiettori di coscienza, con i soldi che mancano per andare ad abortire in altri paesi, col fatto che la gravidanza è iniziata dopo essere state violentate, e con le pressioni religiose che le investono direttamente e, spesso, sono costrette a portare fino in fondo la gravidanza per poi dare il nascituro in adozione perché non hanno le risorse per mantenersi e mantenerlo. Il borghese non si pone il problema di un diritto di questo genere perché se si pone il problema, coi soldi lo risolve, che ci sia o meno una legge che ne regolamenti l’attuazione.

 

La posizione dei comunisti rivoluzionari non è cambiata da quella espressa fin dal 1848 nel Manifesto di Marx-Engels. Primo: i comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato. Perciò non ci sono distinzioni tra “questione femminile” e “questione maschile”. Il proletariato nel suo complesso è semplicemente la classe dei lavoratori salariati di qualsiasi età, genere, categoria o nazionalità. E’ interesse di tutto il proletariato, del proletariato di ogni paese, lottare contro l’oppressione salariale cui è sottoposto; e lottare non per mitigarla, per trovare una via di mezzo che attutisca i lati più acuti e obbrobriosi di questa oppressione, ma per eliminarla completamente dalla società. Ma per eliminarla dalla società, visto che il capitale non esiste senza sfruttamento del lavoro salariato, bisogna eliminare il capitale, il suo modo di produzione. Il capitale e il suo modo di produzione sono difesi dal potere politico della classe borghese dominante; e finché il potere politico resta nelle mani della borghesia, il capitale, il suo modo di produzione e le sue leggi economiche, continueranno a dominare sull’intera società. Il proletariato, a differenza della borghesia, non è il rappresentante di un nuovo modo di produzione che già si sviluppa all’interno di questa società (come fece il capitalismo) e che ha bisogno, ad un certo grado dello sviluppo del suo modo di produzione, di prendere il potere per instaurare una diversa società divisa in classi (come fece la borghesia). Il proletariato, cioè la classe dei puri salariati, dei senza riserve, proprio in forza della produzione sociale che il capitalismo ha instaurato e sviluppato suo malgrado, rappresenta la classe produttrice per eccellenza che, nella sua lotta contro la borghesia capitalistica, evoca un’organizzazione sociale che non solo si baserà sulla produzione sociale (come il capitalismo) ma che eliminerà ogni oppressione ed ogni divisione in classi della società perché eliminerà i rapporti di produzione e di proprietà borghesi: si aboliranno la proprietà privata e l’appropriazione privata della produzione sociale, dunque l’appropriazione del lavoro altrui. La collettività sociale sarà l’organizzatrice della nuova società in cui non esisteranno più le classi, gli antagonismi di classe, la proprietà privata, ed ogni tipo di oppressione sparirà.

Allora, oltre all’oppressione salariale, sparirà anche l’oppressione domestica della donna, perché tutte le attività domestiche e familiari che finora sono svolte dalla donna nel piccolo mondo delle quattro mura di casa saranno attività sociali, svolte dalla collettività compresa l’educazione dei figli dei quali, superato il periodo naturale dell’allattamento e dei primissimi anni di sviluppo, sarà la collettività ad occuparsi liberando la madre dalla costrizione di esserne schiava per una vita intera.

Naturalmente, come hanno mostrato le rivoluzioni proletarie che hanno già tentato di dare il colpo di grazia al capitalismo, nel 1871 con la Comune di Parigi, e nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, la via per raggiungere quell’obiettivo storico non è una via né pacifica, né graduale. Ma il principio comunista rivoluzionario del proletariato che si eleva a classe dominante dopo aver abbattuto il potere della classe borghese, è un principio invariante. Soltanto in questo modo il proletariato potrà adoperare il suo dominio politico per avviare la trasformazione della società borghese in società socialista, accentrando tutti i mezzi di produzione e tutti i capitali nelle mani dello Stato proletario che avrà il compito di distruggere i rapporti di produzione e di proprietà borghesi per instaurare i nuovi rapporti sociali ispirati alla soddisfazione dei bisogni della comunità umana e non dei bisogni del mercato.

In questo lungo percorso storico, la donna che posto avrà?

l proletariato femminile sarà decisivo quanto quello maschile perché avrà gli stessi interessi, gli stessi obiettivi, la stessa forza per farla finita con la società dell’oppressione e della violenza istituzionalizzata.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

8 marzo 2021

www.pcint.org

 

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