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Sul 25 aprile e il mito della Resistenza antifascista

L’inganno del proletariato continua...

 

 

Per la borghesia e i suoi tirapiedi opportunisti mascherati da rappresentanti dei lavoratori, non mancano mai le occasioni per inneggiare all’unione nazionale, alla solidarietà nazionale, alla collaborazione interclassista.

Da sempre la corrente della Sinistra comunista ha lottato frontalmente contro il nemico principale della classe proletaria – la classe borghese – senza mai dimenticare che questo nemico ha molti alleati: la piccola borghesia, i vari strati delle mezze classi, la chiesa e una cospicua serie di opportunisti vestiti in vario modo da “difensori” della classe lavoratrice, dai riformisti ai pacifisti, dai democratici ai massimalisti, dai rivoluzionari a parole ma borghesi nei fatti. E questi veri e propri collaborazionisti sono sempre stati i più infidi, i più insidiosi, i più pericolosi per il proletariato perché piegano gli interessi immediati e futuri della classe proletaria alle esigenze della conservazione sociale, alle esigenze del capitalismo. Tale collaborazione interclassista nasce nelle file stesse del proletariato, in quella che Engels fin dal 1845 chiamò aristocrazia operaia, cioè quegli strati operai che i capitalisti privilegiano rispetto alla massa proletaria pagandoli meglio, istruendoli ed educandoli ad assimilare lo stile di vita, le idee e le ambizioni della piccola borghesia: sono operai in quanto forza lavoro salariata, ma ideologicamente assimilano le ambizioni dei piccolo borghesi e sono spinti a difendere quei piccoli ma reali privilegi che i borghesi capitalisti concedono loro facendone strumento diretto della concorrenza tra proletari. E sappiamo che la concorrenza tra operai è una delle armi più efficaci che la classe borghese usa per rafforzare il proprio dominio e per attirare nel proprio campo, in difesa della sua società, almeno una parte, se non la grande maggioranza, della classe proletaria. Non è un caso che Marx ed Engels, nel Manifesto del partito comunista, trattando la questione della lotta di classe, dell’unione dei proletari (unione di classe e non unione nazionale!) e del partito politico di classe che rappresenta la punta più alta dell’organizzazione dei proletari in classe, sottolineino che questa unione viene «spezzata ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi».

La borghesia, nella sua lotta quotidiana contro la classe proletaria, ha tutto l’interesse a spezzare l’unione, l’organizzazione classista dei proletari, poiché in questa unione, in questa organizzazione di classe il proletariato trova la sua vera forza sociale. Per i suoi scopi, la borghesia non si limita a costituire lo strato di aristocrazia operaia, perché nello sviluppo della lotta proletaria di resistenza quotidiana al capitalismo può succedere che una parte di quella aristocrazia operaia possa retrocedere dalla sua funzione di attivo strumento antioperaio in mano alla borghesia, possa essere almeno in parte neutralizzata. Perciò i borghesi accerchiano la classe proletaria con tutta una serie di organizzazioni politiche, sociali, sindacali, religiose, culturali che, con compiti diversi, funzionino nello stesso tempo da calamite che attraggono e imbrigliano le forze proletarie e da organismi che deviano, frenano, spezzano le materiali spinte proletarie alla lotta di classe, alla lotta contro la borghesia.

Perché i proletari possano effettivamente riconquistare il loro terreno di lotta classista non possono esimersi dal lottare contro tutte le diverse forze dell’opportunismo, del collaborazionismo interclassista, per il fatto che si frappongono, in difesa della conservazione sociale, tra la classe borghese e la classe del proletariato con la funzione di alimentare, ed organizzare, la concorrenza tra proletari. I proletari hanno dimostrato, nel corso dello sviluppo storico del loro movimento di classe, di poter sbaragliare, sebbene non in modo definitivo, le forze opportuniste della conservazione sociale; e l’esempio della vittoriosa Rivoluzione d’Ottobre russa, instaurando la dittatura del proletariato che tenne testa non solo agli attacchi interni delle bande delle Guardie Bianche, ma anche agli attacchi esterni degli eserciti delle potenze imperialiste che miravano ad abbattere il potere proletario conquistato in Russia, è lì a dimostrarlo. Come è sempre successo nella storia della lotta fra le classi, la vittoria alla classe rivoluzionaria non arride se non dopo molte battaglie. É avvenuto per la classe borghese nelle sue rivoluzioni antifeudali, inevitabilmente avviene e avverrà per la classe proletaria nelle sue rivoluzioni antiborghesi. La storia non gira pagina nell’arco di una insurrezione... Le forze di conservazione sociale non scompaiono di colpo, resistono nel tempo, si riorganizzano, combattono per restaurare il loro potere, non si danno mai per vinte. É per questo che la classe rivoluzionaria deve instaurare la sua dittatura, rafforzandola e indirizzandola sia alla difesa del potere conquistato sia alla conquista del potere politico in altri paesi: lo ha fatto la borghesia nell’era della sua rivoluzione antifeudale, lo ha fatto e lo deve fare il proletariato nell’era della sua rivoluzione anticapitalistica.

E’ inevitabile che il proletariato, persa ad un certo punto la sua guerra civile rivoluzionaria, subisca la reazione borghese e la restaurazione del suo potere politico. E’ quanto è successo negli anni Venti del secolo scorso, quando il potere politico del proletariato instaurato in Russia rimase isolato e il proletariato dei paesi industrializzati d’Europa, a partire da quello tedesco, non ebbe la forza di sbaragliare le forze dell’opportunismo interclassista, aprendo in questo modo la via alla degenerazione del partito bolscevico e dell’Internazionale Comunista e, quindi, alla sconfitta della rivoluzione proletaria in tutto il mondo. La vittoria borghese, la vittoria delle potenze imperialiste, nella dinamica dello sviluppo capitalistico, non poteva che aumentare il dominio sociale ed economico del capitalismo sulla società, acutizzandone le contraddizioni e rigenerando gli stessi fattori di crisi e di contrasto fra gli Stati che erano stati alla base della prima guerra mondiale e della rivoluzione proletaria in Europa.

Quella situazione favorevole alla rivoluzione proletaria (sia in termini oggettivi che in termini soggettivi, data la forte presenza e attività di sindacati di classe e di partiti politici di classe) non si ripresentò nel periodo in cui si preparò e scoppiò la seconda guerra mondiale; la sconfitta proletaria subita in Russia e nel mondo distrusse i partiti proletari di classe, a cominciare dal partito bolscevico di Lenin, e distrusse le tradizioni classiste della lotta proletaria sostituendole con il collaborazionismo interclassista e col nazionalismo più schietto mascherati entrambi, per poter essere accettati dalle masse proletarie, con i colori della lotta proletaria e del comunismo. La guerra che le potenze fasciste e le potenze democratiche si fecero – è relativamente importante quali delle due la scatenò, perché entrambe erano interessate a farla e a ricavarne i maggiori vantaggi – aveva tutte le caratteristiche della guerra imperialistica di rapina (descritta perfettamente da Lenin fin dalla prima guerra mondiale). Ma come in ogni guerra, le borghesie dovevano mobilitare le masse a difesa dei propri Stati, delle proprie “patrie”, del proprio capitalismo nazionale e non ci fu miglior argomento per convincere le masse proletarie a versare il loro sangue a favore dei capitalisti di ogni nazione se non quello della difesa degli interessi dei propri privilegi, della propria civiltà, da una parte assimilabili alla razza ariana e alla perfetta organizzazione sociale centralizzata, dall’altra parte assimilabili alla democrazia antitotalitaria e alla libertà individuale. Il risultato è stata la distruzione di merci, attrezzature, città intere e di decine di milioni di morti, ossia – dal punto di vista capitalistico – la distruzione di una sovraproduzione che aveva intasato i mercati e mandato in crisi tutti i capitalismi nazionali, la distruzione di un’enorme quantità di forza lavoro sovrabbondante che non aveva sbocchi nel mercato del lavoro e la nuova spartizione del mercato mondiale tra le potenze vincitrici. Hanno vinto militarmente le potenze democratiche, ma le potenze fasciste hanno lasciato in eredità alle democrazie di tutto il mondo la loro politica sociale di collaborazione tra le classi istituzionalizzata, organizzata direttamente dallo Stato. Inoltre, il proletariato ha subito ancor più il fascino della democrazia antifascista, cioè l’inganno più sottile e raffinato che la borghesia potesse scovare per far fare alle masse proletarie la sua guerra, sia negli eserciti degli Stati che combattevano la triplice alleanza nazifascista tra Germania Italia e Giappone, sia nelle bande partigiane che potevano essere organizzate all’interno di questi tre paesi, e la Resistenza partigiana antifascista, specialmente in Italia e in Francia, e in minor misura anche in Germania, hanno dimostrato come la classe borghese sia riuscita a far sì che i proletari si ammazzassero a vicenda non importa se vestivano l’uniforme dell’esercito regolare o i panni del partigiano.

      

Trattando la critica della resistenza partigiana, in un articolo del 2015 scrivevamo (1):  

«Il 25 aprile italiano non è che la celebrazione dell’ennesima vittoria della classe dominante borghese sul proletariato, la celebrazione della collaborazione fra le classi contro la lotta della classe proletaria nella prospettiva della sua effettiva emancipazione dall’oppressione salariale e capitalistica. Alzare le bandiere rosse, mescolate alle bandiere tricolori, nelle manifestazioni del 25 aprile è un ulteriore sfregio alla tradizione di lotta del proletariato il cui sangue è stato fatto versare non per la sua rivoluzione e per l’abbattimento del regime borghese, ma per prolungare nel tempo il tormento del lavoro salariato, l’oppressione rappresentata principalmente dallo sfruttamento della forza lavoro proletaria in ogni angolo del mondo.

«Lottare contro il fascismo, cioè contro un particolare metodo di governo del dominio di classe della borghesia, avrebbe potuto rappresentare per il proletariato la fase più chiara e decisiva della sua lotta rivoluzionaria perché col fascismo la classe borghese aveva gettato la maschera, aveva apertamente dichiarato la sua guerra di classe contro il proletariato, aveva strappato ogni velo democratico a copertura di tutti gli inganni ideologici e politici con cui la classe borghese alimentava la sua influenza sul proletariato, sia direttamente sia attraverso le organizzazioni riformiste. Le indicazioni del giovane Partito comunista d’Italia nel 1921, guidato dalla Sinistra comunista, giovane ma temprato da una lunga battaglia ideologica e pratica contro le tendenze riformiste, erano inserite nella prospettiva della lotta rivoluzionaria, dunque nell’accettazione da parte proletaria del terreno dell’aperto scontro di classe con le forze illegali e legali dello Stato borghese in una guerra civile che la stessa borghesia aveva dichiarato armi alla mano.

«Il fascismo era la faccia dura della controrivoluzione, ma si fece sempre più temerario nella misura in cui il proletariato veniva indebolito e disorientato dalle forze dell’opportunismo, sia sul piano politico che sindacale. Come vigliaccamente le squadre fasciste colpivano i proletari più isolati nelle campagne e nelle piccole città, così si proteggevano dietro le forze di polizia e dell’esercito e dietro la magistratura, tutte le volte che le forze proletarie rispondevano agli attacchi con vigore e successo. L’obiettivo della democrazia borghese al potere e delle squadre fasciste era lo stesso: colpire e piegare le forze proletarie, disorganizzarle e renderle inoffensive. Una volta vinta la resistenza di classe del proletariato, e passato il pericolo di una sua insurrezione rivoluzionaria, il fascismo si poteva prendere il lusso di mettere in pratica la politica riformista al fine di mantenere il dominio borghese sul proletariato, concedendogli quella serie di “garanzie” sociali che il socialismo riformista e pacifista aveva propagandato per tanti anni. Grazie al fascismo, nacquero gli ammortizzatori sociali.

«Ma il potere borghese, pur vestito dell’ideologia democratica che ha per base il feticcio di una eguaglianza del tutto astratta tra i possidenti di ogni ricchezza e i lavoratori salariati possessori soltanto della propria forza lavoro che, oltretutto, soltanto i possidenti di ogni ricchezza possono “comprare”, è un potere in realtà estremamente violento – come dimostrano le continue guerre di rapina che scoppiano in ogni parte del mondo».

Perciò, scrivevamo che: «Rivendicare il ritorno alla democrazia, dopo il fascismo, come hanno fatto tutti i partiti operai opportunisti, a cominciare dai partiti stalinisti, in realtà è stato come dare il via libera al potere borghese non solo per la “ricostruzione post-bellica”, ma soprattutto per la conservazione del potere in eterno, guadagnando in cambio l’istituzionalità dei “nuovi” sindacati operai e dei “nuovi partiti” attraverso cui si toglieva al proletariato la prospettiva di difesa di classe e di riorganizzazione indipendente. La collaborazione fra le classi è stata fatta passare come una “conquista” del proletariato, mentre non era che la continuazione della stessa politica sociale della borghesia fascista, solo col mezzo “democratico”».

 

Il 25 aprile 2021, come quello del 2020, sono caduti nel periodo in cui la pandemia di Covid-19 sta ancora mietendo vittime; gli ospedali sono ancora pieni di ammalati “covid” mentre gli ammalarti di altre patologie gravi sono stati messi da parte; sulle campagne di vaccinazione iniziate frettolosamente da qualche mese (le big-pharma vogliono incassare al più presto i loro profitti) si alternano grida di gioia e di paura; la corruzione e la malversazione non si sono mai fermate, anzi hanno accompagnato la pademia con grande entusiasmo da parte degli usurai, siano essi legalissimi come le banche, siano illegali come le diverse organizzazioni malavitose. E non potevano mancare i grandi appelli alla solidarietà nazionale, alla comunanza degli interessi di tutti i “cittadini”, mentre naturalmente continuano a imperversare le misure di contenimento vietando di fatto assembramenti e riunioni (in vista del primo maggio, non si sa mai che qualche gruppo proletario non si decida a scendere in strada a manifestare la propria rabbia...). Tanto più oggi che in Italia si è formato “un governo di unità nazionale” nel quale tutti i partiti parlamentari si sono infilati (meno i destri di Fratelli d’Italia, che sono rimasti all’opposizione, per dimostrare che la democrazia “funziona”...) e si sono presi la briga chi di inneggiare alla resistenza partigiana, chi di non contestarla, in vista di mettere le mani su quel che a loro interessa effettivamente in questo momento, il malloppo di 220 miliardi di euro che, grazie ai fondi europei, sarà disponibile da luglio in poi. Da questo punto di vista sono tutti partigiani, tutti inneggiano alla ripresa economica, alla “crescita”, tutti si danno da fare per “gli italiani”, e nessuno di loro – almeno fino a quando non saranno sicuri di aver dirottato quei fondi europei nelle attività di loro interesse – pensa di dover scendere dagli scranni del governo per rivendicare le elezioni.

Ma il partigiano della resistenza antifascista chi era? Che funzione ha svolto?

Nel “filo del tempo” intitolato Marxismo o partigianismo, del 1949, possiamo leggere, tra gli altri, i seguenti brani: 

«Al difficile cammino della classe lavoratrice socialista, la degenerazione opportunista 1914-’18, battuta vittoriosamente dal bolscevismo, ossia dal marxismo nella sua vera concezione, sta come la degenerazione partigianesca 1939-1945. Nella prima crisi si riuscì a ritornare al nostro metodo specifico di lotta fondando i grandi partiti rivoluzionari autonomi. Dopo la seconda, il proletariato è sotto la minaccia di una nuova infezione partigiana» (2).

In un certo senso, dal punto di vista della conservazione sociale capitalistica, non hanno del tutto torto i borghesi che propongono di assimilare i partigiani “rossi” che combatterono per ripristinare la “democrazia”, ai partigiani “neri” che combatterono sotto le bandiere della Repubblica di Salò: “Il partigiano è quello che combatte per un altro, se lo faccia per fede per dovere o per soldo poco importa”, affermavamo nel “filo del tempo” ora ricordato.

Il militante del partito rivoluzionario è il proletario che combatte per sé stesso e per la classe cui appartiene, mai per il nemico di classe, si presenti in qualsivoglia veste.

  


 

(1) Cfr. Il mito della Resistenza partigiana tiene accesa la fiamma del nazionalismo, del patriottismo, del sostegno al potere della classe dominante borghese, sotto il cui giogo è prigioniera la classe proletaria, in pace come in guerra, “il comunista”, n. 139, giugno 2015.

(2) Cfr. Marxismo o partigianismo, della serie “Sul filo del tempo”, scritto da Amadeo Bordiga e pubblicato nel giornale di partito di allora “battaglia comunista”, n. 14, 6-13 aprile 1949.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

26 aprile 2021

www.pcint.org

 

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