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Carcere di Santa Maria Capua Vetere: la mattanza di un anno fa

 

 

Tra marzo e aprile del 2020, in ben 21 carceri italiane, da Salerno a Modena, da Frosinone a Bologna e a Napoli, da Alessandria a Foggia, Vercelli, Palermo, da Aversa a Pavia, da Milano a Melfi, Bari, Santa Maria Capua Vetere e altre, si sono verificate proteste e rivolte dei detenuti quasi sempre violente. Il risultato finale, secondo quanto scrive la Repubblica del 2/7/2021, è stato di 13 vittime e più di 200 feriti. Pochissimi gli istituti penitenziari dove le condizioni di vita sono ritenute “positive”; quelli di Bollate, Padova, Rebibbia, Volterra, secondo don Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano (Corriere della sera, 8/7/2021).

Intorno al 5 marzo 2020 si era diffusa in tutte le carceri la notizia che, a causa del Covid-19, venivano sospesi i colloqui; come se il contagio fosse provocato soltanto dai parenti nei colloqui... Come all’esterno delle carceri, così anche al loro interno, ormai si sapeva che il Covid-19 era molto pericoloso, non solo per la sua contagiosità, ma anche perché poteva portare alla morte; che negli istituti carcerari le cure mediche fanno schifo lo sapevano bene i detenuti, e i loro parenti. Le autorità preposte disponevano questa sospensione, in verità per un primo periodo limitato, perché altro non sapevano che fare. Il Covid-19 poteva colpire personale e detenuti, e il sovraffollamento non poteva certo permettere il distanziamento tra le persone che veniva indicata come una delle misure principali da adottare… Non parliamo poi del gel igienizzante, delle mascherine, dei guanti, del lavarsi frequentemente le mani… Sta di fatto che i detenuti avevano tutte le ragioni per temere che, nei loro confronti, le condizioni di sicurezza sanitaria sarebbero mancate, tanto più date le condizioni di igiene praticamente inesistenti in molte carceri… Se poi venivano tolti anche i colloqui, ossia l’unico rapporto con l’esterno, la situazione diventava insopportabile…

Aldilà di quello che è stato scritto nella Costituzione repubblicana (ogni presidente della repubblica proclama che è la più bella Costituzione del mondo…), il carcere, in realtà, non è mai stato e non è adibito alla “rieducazione” dei detenuti, ma è sempre stato, ed è, estremamente punitivo. Il sistematico sovraffollamento è già di per sé la causa delle peggiori condizioni di vita del carcerato; quando in una cella prevista per due o per quattro carcerati si è ammassati due o tre volte tanto, quali sono le condizioni igieniche attuabili, quale distanziamento è possibile? Con la dichiarazione ufficiale della pandemia di Covid-19, quali e quanti dispositivi di protezione individuale sono stati distribuiti nelle carceri quando mancavano perfino per i medici e il personale degli ospedali pubblici?

E’ talmente evidente che la vita in carcere non è soltanto una punizione comminata per i reati commessi, ma è soprattutto umiliazione, assenza di quei diritti individuali di base che vengono sbandierati in ogni dichiarazione pubblica e in ogni articolo di giornale; ricatti, pestaggi e tortura: sì, pestaggi e tortura non sono una rarità! L’indagine sulla mattanza di Santa Maria Capua Vetere lo ha dimostrato drammaticamente. E il pensiero non può non riportare alla mattanza del 2001, a Genova durante il G8, alla scuola Diaz, al carcere di Bolzaneto…

La rabbia e la violenza con cui i detenuti, portati all’esasperazione, si sono ribellati a queste condizioni, visto che si sono diffuse rapidamente da un carcere all’altro, sono state spiegate dal ministero, dal governo, dalle tv e dai giornali a grande tiratura, come fosse stata una regia da parte delle organizzazioni criminali, presenti e operanti fuori come dentro alle carceri. Questa tesi è in realtà servita per nascondere la reale dinamica dei fatti.

C’è voluto più di un anno, ma le denunce dei detenuti e dei parenti sono riuscite a superare le mura delle carceri, hanno trovato l’orecchio di qualche magistrato disposto ad ascoltare per poi mettersi ad indagare. Raramente le vessazioni, i soprusi, i ricatti e i pestaggi che normalmente avvengono nelle carceri, e in alcune carceri in particolare, costituiscono motivi per interventi giudiziari e politici adeguati finalizzati per lo meno a scoprire la verità dei fatti. Come dicevamo, solo rari istituti penitenziari, come quello di Bollate, possono venire presi ad esempio per dimostrare che la vita in carcere può essere condotta in regime ovviamente di restrizione, ma aperto alla famosa “rieducazione” intesa come avvio di rapporti lavorativi, di apprendimento scolastico, di vita quotidiana in celle non affollate, di mantenimento di igiene basilare, di attività fisica, sportiva, culturale ecc. Le statistiche dicono che la percentuale di recidiva per i detenuti che escono dal carcere di Bollate non supera il 20%, mentre è mediamente del 50%, se non di più, per tutti gli altri istituti di pena. Ma questo esempio, in realtà, serve al potere borghese a soli fini propagandistici per mantenere l’illusione che nella democrazia repubblicana e costituzionale italiana sia possibile che alle belle parole seguano i fatti, quando la realtà vera racconta una storia completamente opposta.

E la storia emersa dalla “ignobile mattanza” (sono le parole del gip Sergio Enea, vedi la Repubblica, 2/7/2021)  del 6 aprile 2021 al carcere di Santa Maria Capua Vetere è emblematica. La sospensione dei colloqui, con la scusa del Covid-19,  aveva reso la situazione in questo carcere – come in molti altri – molto delicata dal punto di vista del suo controllo. Già l’intervento del Gis (Gruppo di intervento speciale) nel reparto “Nilo”, dal quale erano emerse quelle che in gergo burocratese chiamavano “intemperanze”, faceva capire che non si trattava di una “perquisizione”, richiesta dalla direzione del carcere per ricercare eventuali oggetti contundenti ed altro utilizzabile in una possibile ripetizione della rivolta dell’anno precedente; si sarebbe trattato di una vera e propria rappresaglia. Ed è esattamente quel che è successo. Il fatto poi che tutta la linea di comando – dal provveditore all’amministrazione penitenziaria della Campania, Antonio Fullone, al comandante Pasquale Colucci del gruppo speciale di supporto agli interventi, dal comandante della penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Manganelli, al commissario capo responsabile del reparto “Nilo” e al comandante del Nucleo investigativo centrale della penitenziaria, Francesca Acerra, e agli ispettori Michele Sanges e Salvatore Mezzarano, fin su su al direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dello Stato, Francesco Basentini – a vario titolo è risultata coinvolta. Non è bastata l’omertà, che di regola salva i veri responsabili degli abusi e, in questo caso, li avrebbe protetti in merito alla mattanza; hanno cercato in tutti i modi di nascondere, depistare, manomettere i video, ma questa volta non ci sono riusciti. Troppo sicuri di sé, comunicavano tranquillamente con le chat e contavano sulle reciproche coperture e complicità, ma sono stati “scoperti”.

La Repubblica del 3 luglio 2021 sintetizza in questo modo la situazione: «“Pagheremo tutti. Chiuderanno Santa Maria”. Quattro parole. Frammenti che sembrano resa e confessione. Espressioni su cui punterà molto l’accusa. Ma un fatto è certo: il gruppo di dirigenti e comandanti aveva messo in campo “ogni sforzo” per ostacolare le indagini sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Foto di “strumenti” di minaccia realizzate ad arte nelle celle dei detenuti, per addebitargli intenti aggressivi e giustificare così le violenze di massa. Video manomessi e retrodatati, Relazioni fasulle, Invenzioni di regie criminali perduranti tra esterno ed interno del penitenziario. Gli inquirenti sospettano anche che fosse stato progettato un reset dell’intero impianto di sorveglianza: ritardato per loro sfortuna, da un tecnico esterno, forse pigro, e dai tempi lenti delle normative anti-Covid. Una strategia che riguarda soprattutto i vertici, tra uffici del Provveditorato e divise della penitenziaria, all’indomani di quella “spedizione punitiva” avvenuta il 6 aprile del 2020 nel reparto Nilo della Casa Circondariale “Francesco Uccella” che il Gip definisce “orrenda mattanza”».

Ma non bastavano i pestaggi. Le testimonianze dei detenuti raccontano di una malvagità più bastarda ancora. Dalle voci dei 292 detenuti del reparto “Nilo” del carcere di Santa Maria Capua Vetere, alcuni dei quali trasferiti dopo la mattanza nel reparto Danubio e collocati in due nelle celle di isolamento previste per una sola persona, il Corriere della sera del 5 luglio scorso ne riporta alcune: «“Le condizioni della cella erano pessime, era sprovvista di coperte, lenzuola, tavoli, sgabelli, tanto è vero che per circa cinque o sei giorni siamo stati di fatto costretti a mangiare a terra” – “Nel Danubio sono rimasto quattro giorni in isolamento, in particolare la sera del 6 non ci è stato somministrato il pasto, né l’acqua, né i farmaci. Non ci è stata, altresì, data la possibilità di cambiarci per quattro giorni” – “Una volta collocati nelle stanze del Danubio, ci hanno lasciati lì per cinque giorni, con gli abiti sporchi e senza la possibilità di cambiarci nemmeno gli indumenti intimi ancora sporchi di sangue” – “Sono stato nella cella 16 per circa dieci giorni, di cui sei passati senza ricambi, lenzuola, e prodotti per l’igiene, oltre che senza mascherine”…».

Ma ci sono soprattutto le immagini della videosorveglianza, le immagini che i vari responsabili cercavano di manipolare o eliminare, dalle quali si evince chiaramente – secondo il gip – che la mattanza è stata organizzata, preparata accuratamente e messa in pratica cinicamente sia dagli agenti del reparto antisommossa, sia dagli agenti del carcere stesso. In un primo momento sembrava che si trattasse davvero di una normale perquisizione, molto attenta e scrupolosa, con i detenuti che portano fuori delle celle i letti per smontarli e a perquisizione terminata rimontarli…, ma poi, nella sala della socialità dove i detenuti sono seduti sulle sedie accostate al muro, «succederanno cose orrende»; «i video riportano quasi solo pestaggi. Nella sala della socialità, nei corridoi, sulle scale» (Corriere della sera, 8/7/2021).

Naturalmente, da parte di tutto l’arco parlamentare non potevano mancare le dichiarazioni di sorpresa per quanto è avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere rimbalzando da una parte all’altra il solito ritornello: chi sbaglia paga, anche se indossa una divisa… però non si può fare di tutta l’erba un fascio, non tutti i 40.000 agenti della penitenziaria sono criminali… Se c’è stata mattanza c’è stata però anche una rivolta, con morti e feriti…

Resta la realtà delle carceri italiane, una realtà che le stesse istituzioni europee hanno più volte denunciato, soprattutto dopo la mattanza di Genova 2001… Cos’è cambiato? In Italia non esisteva una legge sulla tortura, e così, sia per le prescrizioni che per l’impossibilità di inchiodare l’agente tale o tal altro (a parte il carabiniere Placanica per aver sparato a Carlo Giuliani…) con qualche articolo di legge, per gli “abusi” attuati alla Diaz e a Bolzaneto, lo Stato – quell’entità che a tutti i politici, che siano al governo o meno, fa comodo citare come fosse al di sopra di ogni responsabilità specifica – non ha mai chiesto scusa a nessuno, e noi, comunisti rivoluzionari, non la pretenderemo mai perché sappiamo che è lo strumento principale della classe dominante e che le sue azioni sono azioni attuate in difesa della conservazione sociale, del modo di produzione capitalistico e della società borghese con tutti i suoi “abusi”. La società borghese si basa sull’economia capitalistica e sui rapporti borghesi di proprietà e di produzione, che generano lo sfruttamento del lavoro salariato, lo sfruttamento e il supersfruttamento e che, in difesa di quei rapporti e di quell’economia, si è organizzata a livello politico, amministrativo, giudiziario nel modo più consono, con una forza militare adeguata alla bisogna.

E’ nato prima il carcere o la fabbrica in cui i lavoratori vengono sfruttati fino allo sfinimento? Il carcere, sicuramente, perché la società borghese lo ha ereditato dalle società divise in classi che l’hanno preceduta. Non per niente Marx parlava della fabbrica come di una galera per i lavoratori… E il carcere è sicuramente l’istituzione che sintetizza meglio di qualsiasi altra la realtà della vita sociale nel capitalismo: se non stai alle regole di sudditanza che la borghesia dominante ha stabilito, se ti ribelli ad esse si aprono le porte del carcere per richiudersi alle tue spalle. La punizione è l’alfa e l’omega della civiltà borghese; non puoi scegliere, sei costretto a lavorare sotto padrone, o a diventare tu stesso padrone per sfruttare lavoro altrui, sennò la tua sopravvivenza non è certa. O sfrutti il lavoro altrui, direttamente o indirettamente, o ti fai sfruttare; e chi sfrutta fa parte della minoranza che ha il potere o lo condivide, e sicuramente lo difende. Chi invece per sopravvivere è costretto a farsi sfruttare ha una sola alternativa: si rassegna, piega la testa, come una bestia da soma, oppure si ribella. Ma si è sempre da soli contro un’istituzione, sia essa la fabbrica o la galera.

Le rivolte in carcere dimostrano, in fondo, che la  vita in questa società ti conduce ad essere solo contro il mondo. Certo in carcere ci finisci per moltissimi motivi differenti, ma è un fatto che la maggior parte della popolazione carcerata proviene dagli strati più disagiati della società, proletari, nullatenenti, immigrati, sottoproletari, coloro che per sopravvivere sono stati spinti ad andare in un modo o nell’altro contro le regole del “vivere civile” (come la borghesia ama definire il suo vivere nella sua società). Perciò vengono trattati come reietti, come un peso per la società da trattare come spazzatura per la quale, nei paesi più “civili”, più “moderni”, ovviamente “democratici”, il massimo che possono prevedere è di applicare la “differenziata” (quelli più docili, quelli problematici, quelli dipendenti da droghe, quelli servili e viscidi, quelli che resistono e non si sottomettono facilmente, gli spioni e così via), così, giusto per non appesantire troppo il lavoro dei guardiani, dei secondini – come si diceva un tempo –, degli agenti della penitenziaria. I quali agenti, in generale, provengono essi stessi per la maggior parte dagli strati proletari della popolazione, per i quali il lavoro che sono chiamati a svolgere è un lavoro che viene considerato di fatto simile più ai guardiani di un porcile che non agli operatori ecologici. Ripulire l’ambiente sociale dei rifiuti abbandonati dall’inciviltà diffusa anche nei paesi più “civili”, è una cosa – e non sempre è un lavoro soddisfacente da svolgere tutti i giorni… – altra cosa è ripulire la società dai criminali, dai disadattati, dagli emarginati per il quale “lavoro” sono chiamati i poliziotti, i detective, i carabinieri, mentre gli agenti della penitenziaria sono chiamati a “custodire” e a controllare che i detenuti non evadano, non si ribellino alla punizione comminata, si pieghino alle regole che la durezza della detenzione impone, passino il tempo di reclusione senza provocare problemi a coloro che li controllano. Di fatto, anche gli agenti della penitenziaria sono in buona parte “prigionieri” delle regole della detenzione come in caserma ma col vantaggio che sono dalla parte del potere e che possono sfogare la loro rabbia e l’insoddisfazione della loro vita su chi sta peggio di loro, i detenuti appunto.

E’ ben vero che la prigione è dura per i detenuti, ma è la società borghese  stessa, civile, democratica, a stabilire che devono essere trattati come persone che godono di diritti e che questi diritti devono essere riconosciuti in pratica perché la detenzione deve essere un’occasione per rientrare nella società civile seguendo le sue regole, e non semplicemente la punizione più dura. Belle parole, la realtà, che di tanto in tanto viene a galla, è del tutto opposta; e la mattanza di Santa Maria Capua Vetere lo conferma.

Ma la preoccupazione vera del potere politico rispetto a quanto è successo in quel carcere quale è stata?

Il “Garante nazionale dei detenuti”, Mauro Palma, a la Repubblica del 3/7/2021, dopo l’incontro che ha avuto con il presidente del consiglio Draghi, nel quale si preoccupava «per la cultura che emerge dalle immagini del carcere di Santa Maria Capua Vetere»,  sottolineando come l’allarme che gli esponeva era anche la preoccupazione di Draghi, è «un’immagine che l’Italia non merita», era dispiaciuto perché «tutto questo può produrre riflessi in Europa», e perché «di certo ne può risultare fortemente danneggiata l’immagine di un Paese che invece ha fatto progressi rispetto alla condanna di Strasburgo per le condizioni dei detenuti»… Progressi perché nel 2017 è stata varata una legge sulla tortura? Si è visto quanto questi progressi hanno impedito che nelle carceri italiane continuassero ad esistere condizioni invivibili, in termini di sovraffollamento, di cure mediche inesistenti, di igiene ecc., e che si producessero episodi come questo di Santa Maria Capua Vetere. Ma quanti episodi di questo genere, anche se non sfociati in una vera e propria mattanza, sono accaduti in tutti questi anni e non hanno mai avuto il clamore come quest’ultimo, e quanto si può credere che all’Italia borghese interessi salvare un’immagine decente sulle proprie carceri, quando dopo Genova 2001 si è avuta Santa Maria Capua Vetere 2021?

In carcere i proletari potranno ottenere condizioni più vivibili non solo attraverso le ribellioni che si sono svolte in tanti anni – è logico che chi viene colpito direttamente reagisca protestando anche con violenza – ma soprattutto se all’esterno, nella società, e non solo grazie ai parenti, si sviluppi un movimento classista che includa nelle sue rivendicazioni quelle che riguardano specificamente le condizioni di vita nelle carceri; come per i disoccupati, anche i proletari carcerati non vanno abbandonati alla loro situazione specifica. Fanno sempre parte della classe proletaria che in generale viene sfruttata, umiliata, vessata, ricattata e, se si ribella, repressa da un potere che, mentre tollera e si confonde con ogni tipo di “abuso”, di illegalità, di crimine – salvo ogni tanto procedere a delle retate, e a qualche condanna, che hanno un risalto più mediatico che di reale lotta in grado di sconfiggere ogni forma di criminalità – tende a lasciar mano libera ai suoi sgherri tutte le volte che ritengono di dover usare la maniere forti: così contro gli operai che lottano per condizioni di salario e di lavoro meno brutali formando i picchetti, come contro gli immigrati che clandestinamente – perché non c’è altro mezzo per sfuggire a fame, guerra e repressione – sbarcano in terra italiana alla ricerca di una sopravvivenza meno incerta che nei loro paesi; così contro i disoccupati che lottando organizzano proteste di strada per ottenere un lavoro o un salario, come i carcerati che vogliono essere considerati essere umani e non spazzatura.

Dalle belle parole di qualche politico “sensibile” ai diritti umani, ai documenti preparati dal “garante dei detenuti”, dalle “reprimenda formali” di un’Unione Europea che ha ben altri interessi economici, finanziari e politici cui dedicare le proprie forze, a qualche articolo di legge che in parlamento può avere l’occasione di passare, non  c’è da aspettarsi nulla di determinante.

Quel che serve, e servirà, ai proletari è l’organizzazione classista sul terreno della lotta incentrata su rivendicazioni interessanti esclusivamente la vita, il lavoro e il futuro della classe proletaria. La classe borghese non si prenderà mai carico degli interessi di classe del proletariato; la democrazia parlamentare è semplicemente un gigantesco diversivo con il quale la borghesia devia il movimento proletario sul terreno della miglior difesa della società esistente, con tutto il suo sfruttamento, con tutta la sua repressione, con tutti i suoi abusi sistematici.

La via della lotta proletaria come classe che lotta per se stessa è lastricata di enormi difficoltà, è indiscutibile. Interminabili decenni di opportunismo politico e sindacale e di collaborazione interclassista hanno debilitato il proletariato a tal punto che oggi fa fatica anche soltanto a lottare per i suoi interessi più elementari. Ma da questo abisso il proletariato saprà risollevarsi perché, oltre un certo grado di pressione, l’involucro politico-economico borghese salterà come salta una caldaia all’interno della quale la pressione supera il livello di tenuta. I comunisti rivoluzionari lavorano oggi per quel domani.  

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

9 luglio 2021

www.pcint.org

 

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