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L’Italia borghese è fondata sulle stragi dei lavoratori!

 

 

Raffinerie, fabbriche petrolchimiche, siti di stoccaggio carburanti, impianti di depurazione, acciaierie, cisterne e autobotti, siti ferroviari e stradali, cantieri edili: sono tutte bombe ad alto potenziale sempre pronte ad esplodere. E a morire sono i lavoratori!

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E’ stato scritto nell’articolo 1 della Costituzione repubblicana post-ventennio fascista. Ma il lavoro, nel capitalismo, è fondato sullo sfruttamento sempre più intensivo dei lavoratori salariati e sul sistematico disprezzo della loro vita. Per il capitale i lavoratori sono semplicemente dei mezzi che servono per produrre merci e per far profitto. Se un macchinario si guasta il padrone cerca di aggiustarlo al prezzo minore possibile; se il guasto non è riparabile, rottama il macchinario guasto e lo sostituisce. Alla stessa stregua, se un lavoratore si fa male e non può continuare a lavorare, il suo lavoro viene assegnato a qualche altro lavoratore in attesa che torni guarito; se non guarisce dalle ferite riportate o dalla malattia che l’ha colpito, se l’infortunio a causa del lavoro gli crea disabilità permanenti viene semplicemente abbandonato al suo destino e sostituito con altri lavoratori. Se muore, alle lacrime dei parenti e degli amici si accompagnano alcune parole di “umana solidarietà” da parte delle istituzioni e dell’azienda in cui lavorava, mentre i sindacati alzano temporaneamente la voce gridando: queste morti sono inaccettabili!, non devono più succedere!... Poi, tutto torna come prima, i lavoratori continuano a morire sul lavoro o a causa del lavoro, le istituzioni e le aziende continuano a elargire qualche parola di “umana solidarietà”, i sindacati  e i partiti “di sinistra” continuano a spender fiato nel denunciare le mancate misure di sicurezza e che morti così non si devono più verificare, qualche ora di sciopero, qualche interrogazione parlamentare se gli “incidenti” provocano più morti... e poi tutto torna come prima.

Ma lo sfruttamento intensivo della forza lavoro non si ferma, anzi, aumenta; le misure di sicurezza continuano a mancare o ad essere insufficienti e continua la politica di indifferenza verso le morti sul lavoro e da lavoro. Passano i mesi, gli anni, i decenni, e la strage di lavoratori non si ferma mai! 

In Italia, come in qualsiasi paese del mondo, la produzione capitalistica e la sua distribuzione devono rispondere alla legge del profitto, e il profitto è garantito dai più bassi costi di produzione, di manutenzione, di stoccaggio, di trasporto e dai più bassi costi della forza lavoro. Gli alti profitti vanno in parallelo con l’alto sfruttamento del lavoro salariato (la chiamano produttività del lavoro) e il massimo contenimento dei salari. Al lavoro “regolare”, al lavoro previsto dagli accordi legalizzati si accompagna sempre più il lavoro irregolare, illegale; lo chiamano nero, lo chiamano povero, sottoposto al sistematico ricatto della concorrenza a costi inferiori con altri lavoratori, solitamente immigrati, al caporalato, alla vera e propria schiavitù. Più il capitalismo si sviluppa, e più aumenta la quota del lavoro pagato una miseria, del lavoro nero, del lavoro in appalto, mentre si gonfiano di miliardi le tasche dei capitalisti. La famosa crescita economica che ogni borghesia nazionale vuole assicurarsi e grazie alla quale propaganda un illusorio futuro benessere per tutti e la lotta contro la povertà delle masse che vi sono precipitate, ha in realtà un prezzo: la vita dei lavoratori salariati i quali, quando il capitale non gliela strappa violentemente, subiscono malattie, infermità, handicap e miseria che li accompagnano fino alla morte. Nel frattempo la disoccupazione aumenta, e aumenta l’impoverimento generale delle masse proletarie.

 

L’Italia è fondata sulle stragi di lavoratori, nei posti di lavoro o nel tragitto per andare o tornare dal lavoro. Di fronte ad ogni strage la stampa, le radio e le televisioni riempiono i loro servizi di dati sugli infortuni e sulle morti pubblicando interviste e dichiarazioni dei soliti politicanti, dei sindacalisti, dei prefetti. Ad esempio, La Stampa di Torino del 10 dicembre, dopo aver ricordato che il 6 dicembre del 2007 l’incendio all’Acciaieria Thyssenkrupp di Torino provocò 7 morti immediatamente (e altri 6 nel corso dello stesso mese per le ferite riportate), pubblica qualche riga in ricordo anche dei 6 morti, l’11 giugno 2008, all’impianto di depurazione dei rifiuti urbani di Mineo, in provincia di Catania; dei 32 morti e del centinaio di feriti, il 29 giugno 2009, quando un treno merci deraglia alla stazione di Viareggio e danneggia una cisterna di Gpl facendola esplodere, e il 31 agosto 2023, sulla linea ferroviaria Torino-Milano all’altezza di Brandizzo, quando 5 operai vengono travolti e uccisi. L’elenco, come si sa, è tristemente molto più lungo e pesante. Solo quest’anno le stragi sul lavoro precedenti a quest’ultima sono state quella del cantiere Esselunga di Firenze, il 16 febbraio scorso, dove sono morti 5 lavoratori e 3 infortunati gravi, e quella del lago di Suviana, a Bargi, nell’appennino bolognese, dove l’esplosione alla centrale idroelettrica Enel il 9 aprile scorso ha provocato 9 morti. E ora si aggiunge l’esplosione all’enorme deposito di carburante dell’Eni di Calenzano dove sono morti 5 autotrasportatori, altre 26 persone sono ferite più o meno gravemente, e solo per un colpo di fortuna non sono esplose le cisterne vicine che avrebbero provocato un disastro incalcolabile vista la vicinanza di questo sito all’abitato di Calenzano. Nel 1956, quando sorse l’impianto Eni, l’area che occupava era tutta campagna acquitrinosa; solo dopo la costruzione dell’Autostrada del Sole, che passa per Calenzano, tutta l’area circostante all’impianto Eni si riempì di capannoni, edifici commerciali e di abitazioni, diventando molto popolata. Perciò, se la bomba rappresentata dall’impianto Eni scoppiasse, interesserebbe direttamente Calenzano, Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio (circa 100mila abitanti in totale) che, da quell’area, distano pochi chilometri mentre a 34 km sorge la magnifica, artistica Firenze.  

Anche in questo caso assistiamo all’ormai consueto osceno ritornello: una delle cause di queste morti, e spesso la principale, va ricercata nelle misure di sicurezza non adeguate o addirittura mancanti, alle quali vanno aggiunte la mancanza di formazione necessaria per lo svolgimento delle diverse operazioni di lavoro, lo stress determinato dai tempi sempre più stretti da destinare a ogni singola operazione, la mancanza di pause e di riposo, la tensione nervosa determinata dai lunghi e faticosi tragitti per raggiungere il posto di lavoro e per tornare a casa, le molteplici preoccupazioni di una vita quotidiana sempre appesa a un filo sia per il posto di lavoro, sia per il salario che non basta mai, sia per la famiglia che non ha mai quel che serve per vivere serenamente. 

Di fronte a queste morti, di fronte alle centinaia di migliaia di infortuni sul lavoro e a causa del lavoro, i capitalisti e i loro servi politici sono sempre pronti a esprimere cordoglio e «umana solidarietà» e a promettere che faranno tutto ciò che serve perché questi fatti non succedano più. A oggi, 11 dicembre, secondo l’Osservatorio di Bologna morti sul lavoro di Carlo Soricelli (1), i morti sul lavoro e a causa del lavoro sono 1401 (non 890 come registra ufficialmente l’INAIL lasciando fuori i morti in itinere), quasi 4 morti al giorno!

Ma contro le stragi sul lavoro e da lavoro che cosa fanno le istituzioni? Le aziende? I sindacati? I partiti? Dopo aver stilato le statistiche sugli infortuni e sulle morti da lavoro, che cosa fanno?

Contro le migliaia di infortuni sul lavoro che, da decenni, ogni anno, sono tra i 500 e i 600 mila, e le morti da lavoro sono mediamente, ogni anno, dai 3 ai 4 morti ogni giorno, che misure sono state prese per abbattere questi infortuni e queste morti fino allo zero? I legislatori hanno riempito i codici civile e penale di leggi e articoli su questo argomento, ma il risultato reale qual è? Che gli infortuni e i morti sono sempre a livello di strage. Dunque le leggi a che servono?

La classe borghese dominante, interessata a controllare le masse proletarie affinché non reagiscano con violenza alla violenza continua con cui vengono colpite sul lavoro e per il lavoro, ad ogni incidente mette in movimento una massa di avvocati, tecnici, esperti, forze di polizia, carabinieri, vigili del fuoco, guardie di ogni tipo, ambulanze, pronto soccorso, medici perché rivelino le cause degli incidenti, disponendo ogni volta le inchieste per stabilire le responsabilità personali e oggettive degli incidenti. Il fatto che questi incidenti comportino feriti, malattie croniche, disabilità e morti è dato per scontato: nel lavoro succede che qualcosa vada storto, succede che vi siano degli incidenti, che vi siano delle disattenzioni, e la fatalità è una delle concause. Ecco, la fatalità dell’incidente è richiamata continuamente, soprattutto quando non c’è stata la volontà di crearlo; la legge borghese ha inventato una definizione per tutti questi casi: infortunio o omicidio colposo, di fronte al quale la responsabilità non viene affibbiata a nessuno o, meglio, viene addossata a chi è morto perché «non avrebbe dovuto essere lì in quel momento», perché «non è stato abbastanza attento», perché «non si è fermato in tempo», perché «non ha seguito puntualmente le indicazioni ricevute», perché «si è precipitato a soccorrere i compagni di lavoro vittime dell’incidente a sprezzo del pericolo» ecc. ecc. Così la classe borghese, in quanto classe dominante che emana tutte le leggi e amministra la «giustizia», di fronte agli infortuni e alle morti a causa del lavoro se la cava sempre, perché gli infortuni e le morti sul lavoro, o a causa del lavoro, vengono circoscritte ai casi specifici, alle responsabilità individuali o alla fatalità.  

 

Né i sindacalisti, né i politici, né il governo, né tantomeno i capitalisti mettono in discussione la struttura economica e sociale capitalistica, che è la vera responsabile di tutte le stragi, di tutti i disastri, di ogni catastrofe. E mentre si va in cerca di incolpare qualcuno, il capitalismo ne esce indenne; al massimo si alza qualche voce che vorrebbe un capitalismo dal «volto umano», un capitalismo che sfrutta e schiaccia sotto le sue leggi economiche le masse proletarie, ma che lo si vuole, nello stesso tempo, pietoso e pronto a difenderle dai pericoli di perdere la vita... La pace sociale che i capitalisti rincorrono continuamente viene naturalmente scossa ogni volta che si verificano stragi e disastri che colpiscono città e campagne come le alluvioni, i terremoti, le frane, gli incendi. Ma la pace sociale serve ai capitalisti e al loro potere politico per piegare i proletari, soprattutto quando sono mossi da ragioni concrete, perché colpiti da licenziamenti, disoccupazione e stragi sul lavoro, per reagire con forza contro il sistema economico e sociale che nella realtà quotidiana li schiaccia, li sfrutta fino all’ultima goccia di sudore e di sangue. Ma questa pace sociale serve esclusivamente ai capitalisti perché il loro interesse prioritario è quello di riprendere a far girare velocemente gli affari, di rimettere in funzione la produzione e la distribuzione di merci, in una parola: fare profitti. I morti e gli infortuni sul lavoro diventano così danni collaterali; danni che, vista la loro sistematica continuità nel tempo, sono del tutto prevedibili. I capitalisti, quindi, nel calcolare tutte le componenti dei loro affari, prevedono che la macchina produttiva possa essere interrotta non solo da guasti tecnici ma anche da incidenti in cui dei lavoratori perdono la vita. Ma i capitalisti, come già detto, considerano il lavoratore prima di tutto come un mezzo utile a produrre profitto e lo pagano per questo motivo; poi, solo in seconda istanza, lo considerano un essere umano che ha un valore alla condizione di essere e rimanere un mezzo utile a produrre profitto.

Sta quindi ai lavoratori salariati, agli operai, al proletariato nel suo insieme, porsi nei confronti dei capitalisti prima di tutto come esseri umani che hanno esigenze di vita che vanno al di là e al di sopra delle macchine e delle operazioni di lavoro a cui sono stati legati in cambio un salario senza il quale, in questa società, morirebbero di fame. Ma queste esigenze di vita non sono solo interessi individuali di ogni singolo proletario, sono anche la base di interessi generali di tutti i proletari, degli interessi che noi chiamiamo di classe perché sono inseriti nell’unica prospettiva storica che prevede la fine del capitalismo come società e come modo di produzione, che prevede quindi la fine della classe borghese come classe dominante e l’elevazione della classe proletaria, la classe dei produttori di ogni ricchezza, al livello della rivoluzione politica e sociale per diventare essa stessa classe dominante per tutto il lungo periodo storico che ci vorrà per salire dal capitalismo al socialismo e dal socialismo al comunismo integrale, cioè alla società senza classi, alla società di specie.

Oggi, qualsiasi proletario, anche il più sprovveduto politicamente, è consapevole del fatto che la sua vita dipende dai capitalisti e che i capitalisti, sebbene sappiano difendersi autonomamente sulla base delle proprie esperienze e con le proprie guardie di sicurezza, si fanno difendere dallo Stato che si dimostra ormai, agli occhi di tutti, come l’organismo al servizio degli interessi dei capitalisti.

 

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Il caso dell’esplosione avvenuta all’impianto Eni di Calenzano è a sua volta emblematico di quel che avviene frequentemente nei siti industriali di questa rilevanza. Questo impianto non è una raffineria, ma un deposito di carburante (gasolio e benzina), con 24 grandi serbatoi cilindrici, che occupa un’area di 170.300 metri quadrati, nel quale arrivano, attraverso due oleodotti, i carburanti dal porto di Livorno. L’impianto Eni è operativo dal 1956 ed è considerato cruciale per la rete dei carburanti Eni che in questo sito stocca ben 162mila tonnellate di carburante, tra gasolio, benzina e petrolio; dista 800 metri dall’Autostrada del Sole, 1 chilometro e mezzo dalla Firenze-Mare e qualche chilometro dall’aeroporto di Firenze-Peretola e dal tratto ferroviario Firenze-Bologna e, come detto, 34 km da Firenze. L’area, adibita al carico dei carburanti nelle autobotti, è attrezzata con 10 pensiline di carico fornite di sale pompe, impianto antincendio, impianto di recupero vapori e di trattamento delle acque. Tutto ciò, secondo le dichiarazioni di Eni, accompagnato dalle necessarie misure di sicurezza e di eventuale emergenza previste dalle varie «direttive Seveso», rende l’impianto sicuro. Ma sono le stesse istituzioni a definire «a rischio di incidente rilevante» questo, come altri 970 siti industriali in Italia, , il 50% dei quali si concentra in quattro regioni: Lombardia, , Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna, con Ravenna come città più esposta con 26 stabilimenti che utilizzano o detengono sostanze pericolose anche per l’ambiente, seguita da Venezia e da Genova, mentre nel Centro-Sud sono, in scala, Sicilia, Lazio, Campania, Toscana, Puglia e Sardegna le regioni in cui si trova la maggior parte di questi siti. Gli stessi autotrasportatori che da anni frequentano il sito Eni di Calenzano per il rifornimento dei carburanti hanno segnalato con insistenza anomalie nelle pensiline di carico delle autobotti. Vincenzo Martinelli, una delle vittime di questa esplosione, aveva anche inviato lo scorso 3 ottobre 2024 una lettera (pubblicata da Repubblica) alla ditta di trasporti per la quale lavorava in cui denunciava queste continue anomalie; cosa che già nel 2020 era stata denunciata da Medicina Democratica. Le indagini hanno rilevato che il 9 dicembre, pochi secondi prima delle 10.21 del mattino, ora in cui si è verificata l’esplosione alla pensilina n. 6, un operatore aveva schiacciato il pulsante di allarme, ma l’esplosione è stata immediata facendo saltare in aria non meno di cinque autocisterne e facendo crollare parte dell’edifico del centro direzionale adiacente. Contemporaneamente alle fasi di carico delle autocisterne, alcuni operai della ditta Sergen stavano lavorando, vicino alle pensiline di carico, su una linea di benzina dismessa da anni dalla quale c’era stata una fuoriuscita di carburante e non è escluso che una scintilla abbia innescato l’esplosione. Le indagini sono appena iniziate e quindi non hanno ancora rilevato le cause certe dell’esplosione, ma non è difficile capire che le continue anomalie di cui parlava Martinelli non potevano che causare, prima o poi, la tragedia; anomalie, d’altra parte, già denunciate da Medicina Democratica nel 2020 (2).

Ed ecco la voce delle istituzioni: «Il buon senso, come è evidente a tutti, ci dice che quel luogo è inappropriato per le funzioni che lì vengono svolte. Mi faccio carico anche delle preoccupazioni del territorio. Quando fu realizzato, alla fine degli anni '50, lì era tutta aperta campagna e la localizzazione era appropriata, ma oggi no. Tutto attorno ci sono capannoni, aziende, residenze, la zona è densamente antropizzata e popolata. È evidente che per funzioni simili servano oggi luoghi più appropriati». Queste le parole di Eugenio Giani, presidente della Regione Toscana intervistato il 10 dicembre dal Corriere della Sera, che aggiunge: «Aspettiamo il lavoro dei magistrati, le indagini, quali sono state le cause, per fare le valutazioni, anche sugli strumenti, sia di prevenzione che urbanistici, da utilizzare perché ciò non accada mai più». Con tutte le tragedie che sono avvenute finora nei posti di lavoro, c’è da aspettare davvero che i magistrati facciano il loro lavoro su ogni disastro per fare le valutazioni sia di prevenzione che urbanistici per far sì che non accada più? Evidentemente gli allarmi dati in precedenza non sono serviti a nulla; avrebbero dovuto mettere in opera immediatamente, come minimo, tutti gli strumenti di prevenzione per evitare una simile sciagura, ma come al solito si attende la tragedia – tanto sono i lavoratori che muoiono! – per porsi il problema di come intervenire su quello specifico sito, su quella determinata operazione lavorativa; e una volta posto questo problema... si attende la strage successiva! E se i lavoratori non muoiono più in quel particolare stabilimento e nell’area popolata in cui quello ha sede – come a suo tempo per l’Acna di Cengio, per l’Icmesa di Seveso, per l’Eternit di Casale Monferrato, che hanno chiuso, o l’Ilva di Taranto, ancora in funzione – moriranno in altri stabilimenti, in altri siti e le cause saranno sostanzialmente le stesse: Prevenzione degli infortuni?, la più bassa possibile. Misure di sicurezza?, le minime possibili visti i costi elevati. Distanziamento più ampio possibile, di spazio, di tempo e di lavoratori addetti, tra lavorazioni pericolose?, praticamente impossibile perché non bisogna perdere tempo: il tempo è denaro!

       Queste le ultime notizie rese note: la Procura di Prato, competente per l’area di Calenzano, dopo i primi accertamenti, ha dichiarato in una nota che vi sono state, dietro  l’esplosione del deposito Eni, condotte scellerate, dato che ciò che ha causato l’esplosione sarebbe stata la fuoriuscita di carburante nella parte anteriore di una pensilina di carico «in qualche modo dovuta alla chiara inosservanza delle rigide procedure previste»; quindi l’ipotesi della Procura è che «le conseguenze di tale scellerata condotta non potevano non essere note o valutate dal personale che operava in loco. La circostanza che fosse in atto una attività di manutenzione di una linea di benzina corrobora l’ipotesi che vi siano state condotte connesse all’evento di disastro» (3).

Aldi là del linguaggio legal-giudiziario, è esattamente quello che hanno denunciato gli autotrasportatori quando parlavano di anomalie. Che ha fatto l’azienda proprietaria, l’Eni? Nulla, visto che non ha disposto un regolare e sistematico controllo delle «rigide procedure previste», e visto che in questo frangente ha acconsentito che la ditta Sergen eseguisse lavori di manutenzione all’interno del deposito nell’area destinata al carico di carburante mentre il carico veniva eseguito. Il lavoro che la Sergen doveva fare era rimuovere alcune valvole e tronchetti da 8 pollici per mettere in sicurezza una linea di benzina dismessa da anni! Delle due l’una: o si svolgono i lavori di manutenzione in assenza totale di operazioni di carico del carburante nelle autocisterne, o si svolgono le operazioni di carico del carburante nelle autocisterne – una per una, e non 5, 6 o addirittura 10, quante sono le pensiline di carico – senza che vi sia alcun altro lavoro nell’area di carico. Il presidente della Regione Toscana diceva che il buon senso avrebbe dovuto suggerire che quel deposito così pericoloso non debba stare in mezzo alla città; ma sono decenni che sta lì, mentre la città si allargava andando a inglobare l’area del deposito Eni. E chi ha consentito che fossero costruiti capannoni, edifici commerciali, abitazioni a ridosso del deposito Eni? Certamente non sono cresciuti improvvisamente di notte all’insaputa di tutti...

I lavoratori del deposito Eni hanno scioperato, e uno sciopero di solidarietà si è tenuto anche all’Eni di Livorno. Varie manifestazioni cittadine di cordoglio e di protesta si sono svolte nelle città limitrofe e a Firenze. Ovviamente non sono mancati i giorni di lutto cittadino, accompagnati da una lunga serie di dichiarazioni di «cordoglio» e di «vicinanza» alle famiglie dei morti e dei feriti da parte di tutte le istituzioni, a partire dal capo dello Stato e della presidente del Consiglio. Ma i proletari davvero possono ritenersi soddisfatti che le stesse istituzioni, locali e nazionali, che hanno permesso e che permettono da decenni che queste tragedie avvengano, esprimano la loro «vicinanza» ogni volta che la tragedia colpisce altri lavoratori?

E’ evidente che nessuna istituzione borghese risolverà mai le cause di queste tragedie; non le risolvono le aziende, se non talvolta e temporaneamente, non le risolvono nemmeno le istituzioni pubbliche (il caso vuole che l’Eni sia statale, come l’Enel della centrale elettrica di Bargi). Il perché non va cercato tanto nella dedizione o meno di un responsabile o di un incaricato della sicurezza nei luoghi di lavoro, quanto nel sistema generale contro cui anche il più retto, coraggioso e incorruttibile incaricato delle norme di sicurezza non ha alcun potere reale. Neppure il giudice più zelante nell’ordinare il fermo e la chiusura degli stabilimenti dove sono avvenute stragi di lavoratori ha la possibilità di invertire il cammino della spasmodica ricerca del profitto di ogni capitalista e di qualsiasi suo servo.

Non ha senso che i proletari deleghino ai padroni, alle istituzioni dei padroni e allo Stato interventi che questi non hanno alcun interesse a fare. E anche quando, sotto pressione di scioperi e manifestazioni di massa, determinati stabilimenti vengonochiusi, lo stesso problema si ripropone in centinaia e migliaia di altri stabilimenti. Questo dimostra che è il sistema economico e sociale il vero responsabile di tutte queste tragedie. Con questo non vogliamo ignorare la responsabilità anche individuale di questo o quel padrone          dell’azienda o di questo o quel responsabile della produzione a cui i lavoratori rispondono direttamente. La lotta che i proletari devono riprendere in mano è la lotta diretta in difesa degli interessi esclusivi della vita e delle condizioni di lavoro dei lavoratori. Questa lotta non è delegabile, nemmeno alle organizzazioni sindacali alle quali i lavoratori singolarmente si iscrivono. Soltanto se queste organizzazioni sindacali agiscono su piattaforme di lotta che prevedono esclusivamente gli interessi immediati dei lavoratori possono rappresentare un potere di segno proletario nei confronti dei borghesi e dei loro sindacati, delle loro associazioni. Naturalmente le organizzazioni operaie devono vivere del coinvolgimento reale degli operai stessi, convinti che la lotta che vogliono fare o che stanno facendo è il loro mezzo specifico di pressione sulle direzioni aziendali e sul padronato.

I sindacati ufficiali Cgil, Cisl, Uil sono nati nel secondo dopoguerra non su basi proletarie di classe, dunque su basi antagoniste con il padronato e lo Stato dei padroni, ma su basi interclassiste, su statuti e programmi che prevedono esclusivamente la collaborazione di classe coi padroni. Ed è questa esclusività interclassista che va abbattuta, cancellata e sostituita con l’esclusività di classe, che caratterizzava i sindacati di classe fino all’avvento del fascismo che, non a caso, li ha distrutti.

Dopo tanti decenni di democratica collaborazione di classe, i proletari di oggi non possono contare su una tradizione classista ereditata dalle generazioni operaie precedenti, perché quella tradizione classista non è stata distrutta solo dal fascismo, ma anche dallo stalinismo che ha  istituzionalizzato (alla maniera del fascismo) la politica della collaborazione di classe, imprigionando le masse proletarie nelle illusioni di condividere con la classe borghese un benessere sociale per il quale i capitalisti mettevano i capitali e i proletari la forza lavoro, spacciando tutto questo come interesse comune.

Sarà duro, molto duro, il futuro prossimo che attende le masse proletarie, perché sarà un futuro in cui si preparano crisi molto più profonde e acute di quelle passate e presenti. E ogni crisi economica e sociale del capitalismo che ciclicamente si presenta comporta l’aumento della precarietà del lavoro, del salario, della vita stessa di masse sempre più ampie di lavoratori. Le stragi nei posti di lavoro sono un assaggio delle stragi che la borghesia dominante sta già attuando in molti paesi nella guerra guerreggiata. L’Italia è fondata sulla strage di lavoratori nella cosiddetta pace di oggi e nella vera guerra di domani.

I proletari, se non vogliono trovarsi del tutto impreparati e disorganizzati di fronte a un’ulteriore guerra imperialista per la quale la borghesia italiana sta armandosi, devono rompere l’attuale pace sociale rappresentata dalla collaborazione interclassista, e riorganizzarsi sul terreno della difesa esclusiva degli interessi di classe immediati e più generali.

 


 

(1) Cfr. cadutisullavoro.blogspot.com, 10 dic. 2024

(2) Dati e notizie sono stati ripresi da: https://fanpage.it/attualita(a-calenzano.continue-anomalie-la-lettera-di-una-vittima-dellesplosione-e-i-dubbi-sulla-manutenzione/?ref=leggianche, 10 dic. 2024, e da: https://www.greenreport.it/editoriale/4200-nuvole-nere-in-italia--sono-971-gli-stabilimenti-industriali-a-rischio-incidente-rilevante-per-attivita-e-utilizzi-di-sostanze-pericolose-e-i-4-morti-di-calenzano-si-aggiungono-alla-nostra spoon-river-per-incidenti-industriali, 10 dic. 2024

(3) Cfr. https://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/tragedia-deposito-eni.calenzano, 11 dic. 2024

 

11 dicembre 2024

 

 

Partito Comunista Internazionale

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