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Gaza: una popolazione massacrata che vaga disperatamente tra sud e nord nel tentativo di «ricomenciare a vivere» dove né Tel Aviv, né Washington glielo permetteranno

 

 

Il 19 gennaio, 468 giorni dopo il 7 ottobre 2023, è scattato a Gaza il fatidico «cessate il fuoco», reso possibile – così dicono i reportages dei più importanti media internazionali – dall'ascesa al trono della Casa Bianca di Donald Trump.

L'incursione armata del 7 ottobre da parte delle milizie guidate da Hamas ha avuto come risultato più di 1200 morti e la presa di 250 ostaggi da usare come merce di scambio. Le «ragioni» degli attentati e delle incursioni palestinesi contro gli israeliani e dei massacri perpetrati da Israele contro i palestinesi affondano le proprie radici nella vecchia e irrisolta «questione nazionale» da parte palestinese e nell'obiettivo delle potenze imperialiste vincitrici della seconda guerra mondiale di costruire un avamposto decisamente occidentale in un Vicino e Medio Oriente troppo ricco di petrolio, troppo partigiano dell'Asse nazifascista durante la guerra, troppo resistente a piegarsi alle regole economiche e sociali di un capitalismo assetato di materie prime, di territori economici, di colonie e pronto a soffocare qualsiasi aspirazione indipendentista. Gli imperialisti britannici, francesi e americani, per domare le popolazioni arabe e musulmane, non si limitarono agli investimenti di capitali, all'occupazione militare e al reclutamento al proprio servizio – con la promessa di protezioni, capitali e relazioni politiche privilegiate – di qualsiasi tribù o popolo che fosse in contrasto con le altre tribù e gli altri popoli, ma calarono sullo scacchiere mediorientale una carta che si è dimostrata molto più fedele e utile di qualsiasi tribù o popolo locale: il sionismo.

Cosa c'era di meglio di un popolo, come quello ebraico, che poteva rivendicare origini storiche in Palestina, cementato dalla propria religione e fieramente agognante, dopo secoli di persecuzioni e pogrom, una Terra riconosciuta internazionalmente in cui finalmente risiedere? Un popolo verso il quale le potenze imperialistiche vincitrici della seconda guerra mondiale avevano tutto l'interesse a mostrare accondiscendenza e protezione postuma rispetto allo sterminio subito per mano nazifascista e mai fermato, sebbene Londra, Parigi e Washington sapessero esattamente quanto avveniva nei campi di concentramento. Nel 1948, dopo un periodo turbolento in cui le masse di ebrei migrate dai paesi europei in Palestina, in cerca di luoghi in cui insediarsi, si scontrarono con i palestinesi che da sempre abitavano in quelle terre, nacque lo Stato di Israele, riconosciuto dalla Società delle Nazioni (poi diventata ONU). E' da allora che viene sbandierata l'illusoria divisione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, ma lo Stato di Palestina non vedrà mai la luce. La nascita dello Stato di Israele non fermerà la guerra tra ebrei e palestinesi che, per alcuni decenni, verranno illusi dai paesi arabi di poter piegare Israele ad accettare l'esistenza dello Stato di Palestina. La realtà, nel corso dei decenni, vedrà Israele sempre vittorioso nelle guerre contro i paesi arabi, Egitto, Siria, Libano e lo vedrà allargare i propri confini in Cisgiordania, a Gaza, nel Golan, contando perennemente sull'appoggio politico, finanziario e militare dei paesi dell'Europa occidentale e, soprattutto, degli Stati Uniti di cui è diventato il braccio armato nel Medio Oriente musulmano.

Non è una novità che i governi israeliani aspirino, da sempre, a fare dell'intera Palestina la patria ebraica, assoggettando la popolazione araba dopo averne ridotto il numero a qualche centinaia di migliaia. La storiella dei «due popoli due Stati», propagandata dalle potenze imperialistiche, è servita e serve soltanto a tenere in vita l'illusione di una soluzione democratica, illusione a causa della quale è stato versato, da ottant'anni, il sangue di centinaia di migliaia di proletari palestinesi, e ancora se ne sta versando in nome di uno Stato che non vedrà mai la luce né per opera dell'ANP in Cisgiordania, né per opera di Hamas o del movimento che a Gaza ne prenderà il posto.

Il tempo delle rivoluzioni borghesi che vedevano popolazioni di un dato territorio, con la stessa lingua e gli stessi costumi, imporre con la propria insurrezione armata contro le potenze coloniali la costituzione di Stati indipendenti è passato. La storia del capitalismo ha raggiunto una fase, quella imperialista, che poteva essere contrastata soltanto dalla rivoluzione proletaria e comunista – come avvenne con la rivoluzione d'Ottobre 1917 –, ma che nel decennio successivo non si estese all'Europa e, tanto meno, all'America, impedendo così che la rivoluzione proletaria si estendesse a livello internazionale. Vinse la controrivoluzione che affossò l'Ottobre bolscevico, i tentativi rivoluzionari in Germania, in Ungheria e successivamente in Cina portando il mondo borghese al secondo macello imperialistico mondiale.

Il secondo dopoguerra ha visto certamente il progredire delle lotte anticoloniali che approfittarono della crisi capitalistica provocata dalla guerra stessa, ma non dappertutto queste lotte ebbero successo, e in Palestina non lo ebbero per nulla.

La stessa nascita di Israele non è dovuta a una rivoluzione borghese classica, ma a una «rivoluzione» calata dall'alto dalle potenze imperialistiche, questa volta per mezzo di una popolazione importata appositamente che aveva lo scopo non solo di incunearsi in un territorio nemico, ma di assoggettare il popolo palestinese rendendolo completamente dipendente dagli interessi nazionali israeliani, rendendolo in gran parte proletario. Proletario non solo dal punto di vista delle condizioni economiche, dunque senza riserve, padrone soltanto della propria forza lavoro, ma anche senza patria, il che, dal punto di vista ideologico borghese è un fatto negativo, ma dal punto di vista proletario e comunista è un fatto storico altamente positivo.

La guerra che Israele ha scatenato a Gaza e che, con tempistiche diverse e con violenze diverse, scatena anche in Cisgiordania, ha lo scopo non soltanto reprimere le milizie di Hamas per la strage del 7 ottobre, ma di mettere la popolazione di Gaza, oggi, e di Cisgiordania domani, nelle condizioni di essere perennemente sfollata. E qui si incrociano gli obiettivi di Israele e quelli degli Stati Uniti, obiettivi mai nascosti da Netanyahu, nascosti da Biden ma sventolati con la solita strafottenza da Trump: obbligare i palestinesi ad andarsene in Giordania o in Egitto e fare di Gaza, con le sue belle spiagge, una meta turistica per i ricchi del mondo, e della Cisgiordania una delle regioni che Israele già chiama Giudea e Samaria.

Uno dei problemi per gli ebrei di Israele è sempre stato quello demografico: il loro obiettivo era, ed è, di costituire la stragrande maggioranza a fronte di una popolazione arabo-israeliana limitata, al massimo, a un quinto della popolazione totale. La stima più recente dell’intera popolazione di Israele (2024) è di 9.880.000 abitanti, di cui 1,9 milioni di arabi israeliani, rispettando quindi quella proporzione. Per i palestinesi i dati più recenti (2023) danno a Gaza 2,2 milioni, in Cisgiordania poco meno di 4 milioni ai quali si aggiungono i 4 milioni circa di rifugiati in Giordania e che ambiscono, per la maggior parte, a tornare in Palestina, rappresentando così un problema permanente per Israele. Oltre a Israele, è Trump a disegnare il futuro dei palestinesi come una migrazione forzata nei paesi arabi confinanti.

La pace che Trump e Netanyahu si prefigurano, oltre alla pace dei morti, è quella di una popolazione allontanata – se non deportata – dalla sua terra d'origine e resa schiava degli interessi capitalistici di Israele e di qualsiasi altro paese che si prenderà la briga di gestire all’interno dei propri confini i migranti palestinesi, magari dietro l'esborso di qualche miliardo di dollari, come fece la Germania della Merkel con la Turchia per i rifugiati dal Medio Oriente.

L'attuale tregua nei bombardamenti a Gaza – ma le armi non tacciono nella Cisgiordania amministrata dall'ANP che si è messa a fianco dell'esercito israeliano nel dare la caccia ai palestinesi «terroristi», come se i soldati israeliani e i poliziotti dell'ANP non fossero terroristi di Stato – ha messo in moto centinaia di migliaia di palestinesi sfollati al sud per tornare al nord dove abitavano e dove invece della casa troveranno, per il 90 per cento, solo macerie. Ma tali sono l'attaccamento alla loro terra e l'orgoglio di non piegarsi totalmente alla cieca violenza israeliana, da far loro affermare che ricostruiranno quel che è stato distrutto dalla guerra pur di non andarsene all'estero, come se una volta usciti dai confini di Gaza non potessero mai più tornare. Certo, per la borghesia israeliana, la tenacia con cui i palestinesi lottano per rimanere nella loro terra è un ostacolo non da poco. Per la borghesia gazawi, invece, i cui interessi sono spartiti tra Hamas, ANP e altri movimenti assoldati dai paesi mediorientali in contrasto con Israele, l'attaccamento dei palestinesi alla loro terra è una leva su cui agire per accodare i proletari palestinesi agli interessi dei borghesi palestinesi, che siano venduti alle potenze imperialistiche e alla borghesia israeliana o che siao in contrasto con queste forze essendosi affittate ad altre forze, come l'Iran.

In un modo o nell'altro i proletari palestinesi non usciranno mai dalla spirale sempre più drammatica dei contrasti interborghesi e interimperialistici, che nell'area mediorientale si concentrano tendendo ad acutizzarsi sempre più. La storia dei contrasti interstatali e della lotta fra le classi li spinge oggettivamente a un bivio: abbracciare gli interessi della propria borghesia nazionale, facendo da carne da cannone oltre che della borghesia israeliana anche delle opposte frazioni borghesi palestinesi, o abbracciare la causa della propria classe, lottando per organizzarsi in modo indipendente da qualsiasi interesse borghese, interno o esterno che sia, e cercando la solidarietà non di borghesie arabe, islamiche o meno, sedicentemente amiche o temporaneamente nemiche di Israele, ma dei proletari con cui condividono lingua, costumi, condizioni di sfruttamento e interessi immediati di classe.

Oggi questa via appare lontanissima, o addirittura impossibile, e non solo ai proletari palestinesi ma anche a quelli di tutta l'area mediorientale. In verità appare una via impraticabile anche ai proletari europei, americani, russi, cinesi e di qualsiasi altro paese al mondo, tale è stato il disastroso affossamento della causa di classe del proletariato internazionale dovuto alla controrivoluzione, i cui effetti nefasti si stanno pagando da quasi cent'anni. Ma il capitalismo, mentre sviluppa al massimo grado il suo carattere oppressivo, violento, soffocante, mentre presenta con grande sicumera la sua presunta invincibilità, continua a generare fattori di crisi sempre più profonde e sempre più ampie che prima o poi faranno da base alla reazione positiva, di classe, del proletariato, non importa da quale paese l'incendio sociale inizierà.

 

 

27 gennaio 2025

 

 

Partito Comunista Internazionale

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