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Sulla manifestazione pro-Palestina di Milano

 

 

L’Associazione dei Palestinesi in Italia e i Giovani Palestinesi d’Italia hanno organizzato la manifestazione nazionale di sabato 12 aprile a Milano alla quale hanno aderito diverse comunità islamiche anche da altre parti d’Italia, alcune sezioni dell’Anpi, organizzazioni sindacali come l’Usb, lo Slai Cobas, il partito Potere al popolo, elementi dei centri sociali, anarchici ecc. provenienti anch’essi da diverse città italiane. Gli organizzatori e «il manifesto» hanno parlato di 50mila partecipanti, i grandi media hanno parlato di 10mila partecipanti. Come sempre gli uni sono portati a gonfiare il numero dei manifestanti, gli altri a diminuirne la consistenza. Sta di fatto che questa manifestazione nazionale è stata la più partecipata fra tutte le decine di manifestazioni che da molti sabati si svolgono – nel generale silenzio della stampa – a Milano e in molte città italiane contro il sistematico massacro dei palestinesi a Gaza: molti giovani e giovanissimi, «molti i ragazzi e le ragazze di seconda generazione, altrettanti gli italiani; ma anche tante famiglie, bambini, anziani», secondo il manifesto del 13/4.

La Milano, nella settimana del più importante Salone del Mobile a livello internazionale, del Fuorisalone e del Design Week, la Milano gonfia di miliardari e di supermilionari, spinta a diventare la capitale italiana del lusso, doveva far vedere la sua determinazione nel reprimere qualsiasi atto che sporcasse questa vetrina, ma, nello stesso tempo, non voleva passare per essere la città dove non si possa manifestare il pensiero anche quando questo pensiero non è quello dei governanti né di Milano, né della Regione Lombardia, né tantomeno del governo. Il corteo è stato perciò autorizzato, non con il percorso cittadino classico che attraversa il centro e termina in piazza Duomo, ma, che, partendo dal piazzale della Stazione Centrale, doveva dirigersi all’esterno della cerchia centrale e concludersi all’Arco della Pace.

Che fosse una manifestazione pacifista non c’erano dubbi; molte erano le bandiere palestinesi, si sono gridati gli slogan «Palestina libera», «No al genocidio», «Ora e sempre Resistenza»; si leggevano in alcuni striscioni «Israele pericolo per il mondo. Fermiamo genocidio e guerra», «Restiamo umani». E la polizia? Era ben presente, in tenuta antisommossa, pronta a intervenire per impedire che, sganciandosi dal corteo, qualche gruppo di manifestanti deviasse dal percorso autorizzato... E infatti è intervenuta, ma, secondo testimoni presenti, lo ha fatto a freddo, nei pressi della Stazione di Porta Garibaldi, spezzando in due il corteo; ovvia la reazione con lancio di oggetti e fumogeni da parte di manifestanti, 7 dei quali, presunti anarchici, sono stati fermati e portati via dai poliziotti.

Vetri spaccati, vetrine di filiali di alcune banche e dei negozi Starbucks e Burger King (denunciati come «complici del genocidio») imbrattate, e tra le scritte contro il riarmo è apparsa, sulla vetrina di una banca, la scritta «Spara a Giorgia». Naturalmente questa scritta ha fatto reagire soprattutto gli esponenti del partito della Meloni, Fratelli d’Italia, che denunciano come una scritta del genere segni «il punto più basso di un’escalation di odio politico e ideologico», accusando «chi scrive ‘Spara a Giorgia’ non è un attivista, è un potenziale terrorista» (E. Gardini, attuale vicecapogruppo alla Camera di FdI), e che denunciano le «scritte minacciose a Giorgia Meloni e vergognose aggressioni ai danni delle Forze di polizia durante il corteo pro Palestina a Milano», come «fatti gravissimi che continuano a ripetersi a ogni manifestazione e che sono il frutto di una pericolosa campagna di demonizzazione dell’avversario politico e delle donne e degli uomini in divisa» (Ignazio La Russa, tra i fondatori di FdI e suo esponente di rilievo, attuale presidente del Senato). Prendere spunto da una scritta che lascia il tempo che trova come quella, per alzare una campagna contro manifestazioni come quella pro Palestina, considerate come brodo di coltura per terroristi, aggressori delle forze di polizia e demonizzatori degli avversari politici, poteva essere fatto solo da chi ha tutto l’interesse politico nel giustificare il terrorismo di Stato di Israele e il massacro reale e sistematico della popolazione palestinese verso cui non spende un solo atto, una sola parola, nemmeno per salvarsi la faccia, di denuncia, rendendosi di fatto complice, fiancheggiatore di questo sterminio.

Per non smentire la propensione a usare la mano pesante nei confronti di coloro che, non importa per quali motivi reali – se di disagio sociale e di miseria reale, se di resistenza a soprusi e a condizioni di repressione, oppressione e di detenzione intollerabili, o altro si tratta –, commettono azioni che vengono classificate come reati punibili secondo il codice penale.Si consideri il fatto che il governo Meloni ha appena emanato un Decreto Sicurezza, stilato dai ministri Nordio («giustizia) e Piantedosi («interno»), nel quale sono entrati in vigore già dalla mezzanotte dello stesso 12 aprile 2025 ben 14 nuovi reati, tra cui l’occupazione abusiva di case, il danneggiamento in occasione di manifestazioni, il blocco stradale, e – aspetto che non poteva certo mancare – il tallone di ferro contro i migranti: la partecipazione ad una rivolta nei Cpr e, addirittura, anche solo gli atti di resistenza passiva! Se questo non è terrorismo di Stato, che cos’è? Questi decreti hanno la caratteristica di entrare in vigore subito, perché dettati dall’emergenza. Ma quale sarebbe l’emergenza?

La sola reale e drammatica emergenza esistente, e non da oggi, è quella sociale, è la precarietà della vita, sono i salari più bassi tra i paesi d’Europa, le pensioni con le quali non si riesce a mangiare due volte al giorno, gli affitti spropositati, il supersfruttamento da accettare se vuoi mantenere il posto di lavoro, la sanità pubblica disastrata, l’istruzione pubblica emarginata rispetto alle scuole private, la violenza economica che si trasforma in violenza fisica e di genere; l’emergenza reale per milioni e milioni di giovani e giovanissimi è data da un futuro inesistente, dal dover vivere giorno per giorno, dall’essere prede della criminalità e di ogni genere di truffe, dall’essere spinti a consumare e spacciare droga per sopravvivere un giorno dopo l’altro. La sola reale e drammatica emergenza consiste nelle conseguenze immediate e prossime di una politica che salva i colletti bianchi, i politici e gli affaristi, i loro parenti e i loro amici, e che difende con qualsiasi mezzo le forze di conservazione sociale e protegge le forze di polizia, qualsiasi cosa facciano. Basta ricordare come si sono comportati il governo e le forze dell’ordine a Genova, nel 2001 durante il G8, a piazza Alimonda, con l’uccisione di Carlo Giuliani, la mattanza alla scuola Diaz e le torture alla caserma Bolzaneto, e le sistematiche coperture e i sistematici depistaggi al fine di proteggere non solo gli agenti responsabili fisicamente dei fatti repressivi, ma anche e soprattutto i vertici politici e militari a capo di quelle forze dell’ordine.

E’ contro realtà di questo genere, contro la realtà di una violenza che non finisce mai, come quella degli infortuni e delle morti sul lavoro, quella contro le donne e contro tutti coloro che si ribellano a questo stato di cose; è contro una situazione in cui, in modo sempre più aperto e dichiarato, si presentano le caratteristiche di una società che si prepara alla guerra permanente, alla guerra mondiale – e che prepara milioni di giovani e meno giovani a diventare carne da macello –, che nel sottofondo sociale stanno turbinando confusamente reazioni individuali e di aggregazione più o meno temporanea che vanno in qualsiasi direzione, che si alimentano a vicenda nel modo più incoerente alla ricerca di uno sfogo, come succede al vapore prodotto in una caldaia nella quale si cerca in tutti i modi di trattenerlo e di controllarlo perché non esploda mandandola in frantumi.

Manifestare in difesa del popolo palestinese perché non venga più massacrato, perché si fermi l’esportazione di armi in Israele, perché i governi democratici, come quello italiano, facciano pressione sul governo israeliano perché interrompa il massacro dei palestinesi, fa parte dei buoni propositi e dell’indignazione spontanea con cui si reagisce a fatti del genere. Ma in un periodo in cui la situazione economica, come quella italiana, in cui una parte consistente di proletariato è precipitato nella povertà, e in cui una parte della piccola borghesia commerciale e artigiana che finora ha vissuto grazie a un andamento positivo dell’economia che le dava di che sopravvivere dignitosamente, sta precipitando nelle condizioni di insicurezza proletarie e di povertà, si comprende che reagire a questa situazione acquista una specie di nobiltà della protesta, se questa protesta la si lega a rivendicazioni umanitarie di alto profilo, come appunto quelle che riguardano la fine dei bombardamenti a Gaza e il disarmo. Manifestazioni di questo genere, come si è visto nei tanti decenni passati, non hanno mai fermato le guerre, non hanno mai fermato le repressioni, non hanno mai piegato i governi a disarmarsi; Le manifestazioni possono prendere la strada delle denunce pacifiche, sommesse, che chiedono di essere ascoltate e normalmente non vengono mai ascoltate funzionando solo come valvole di sfogo, oppure prendere la strada della reazione brutale e violenta, reazione prodotta da situazioni diventate del tutto intollerabili e per le quali i poteri politici, i governanti, i decisori economici risultano essere i veri responsabili e contro i quali si riversano la rabbia e l’insoddisfazione popolare. Dopo un po’ di tempo la rabbia si esaurisce ed entra in campo la delusione perché non si è ottenuto nulla, si finisce così per allontanarsi dall’impegno sociale, dall’impegno di carattere politico per ripiegarsi sui problemi personali in attesa che la situazione generale faccia riemergere contraddizioni che generano nuovamente malcontento e lo spontaneo riaggregarsi per tornare a protestare.

Ma le manifestazioni possono prendere anche una strada completamente diversa da quella delle illusioni pacifiste o da quella dello sfogo violento immediato, ma del tutto inefficace: quella della lotta classista di segno proletario.

Perché di segno proletario? Perché il proletariato, la classe dei lavoratori salariati, è la classe produttrice per eccellenza, è la classe che produce tutta la ricchezza, ma che non ne possiede nemmeno una briciola. E’ la classe che rappresenta una forza sociale positiva per se stessa e per l’umanità intera, una forza che in tanti decenni le è stata sottratta con l’inganno da parte della borghesia capitalistica e delle forze dell’opportunismo, un inganno che prende il nome di democrazia, di collaborazione di classe, di interessi “comuni” tra sfruttatori e sfruttati, di interessi “nazionali” che si riassumono nella patria da difendere e da fare “grande” rispetto a tutte le altre “patrie”. La borghesia capitalistica non può fare a meno del lavoro salariato, del proletariato, perché è dal suo sfruttamento che trae i suoi profitti; più lo sfrutta, più riesce a intascare profitti, ma per continuare a sfruttarlo deve schiacciarlo in condizioni di dipendenza economica assoluta e per ottenerla ha bisogno di reprimerlo socialmente, politicamente e militarmente. Ecco a che cosa serve lo Stato borghese: a controllare e reprimere il proletariato tutte le volte che tenta di ribellarsi alle condizioni intollerabili in cui è costretto a vivere; è così che lo Stato borghese dimostra di non essere al di sopra delle classi, di non essere “al servizio della società” ma di essere soltanto al servizio del capitale, e dei capitalisti naturalmente.

Ebbene, perché il proletariato riconquisti la sua forza sociale di classe, grazie alla quale è in grado anche di fermare i giri di vite sempre più pesanti sulle sue condizioni di esistenza e di lavoro, esso deve rompere con la collaborazione di classe, con quella falsa pace sociale che serve soltanto alla classe borghese dominante per continuare a dominare. Deve rompere con gli interessi “comuni” tra sfruttatori e sfruttati e, quindi, con il superinganno che si chiama democrazia, per riconoscere non solo la borghesia come una forza sociale che tratta i proletari come nemici del suo potere, ma riconoscere anche la propria forza di classe in quanto proletariato, in quanto nemico diretto e assolutamente antagonista della classe borghese nel suo complesso. Soltanto riacquistando questa forza di classe sarà possibile, per i proletari dei paesi capitalisti più avanzati, dei paesi imperialisti che sostengono i poteri borghesi che massacrano i palestinesi a Gaza, i birmani in Myanmar, i sudanesi in Sudan, i saharawi nel Sahara occidentale, i curdi in Turchia e i cento altri popoli oppressi nel mondo, sarà possibile contribuire a rafforzare la resistenza di quei popoli, di quei proletariati, facendo della lotta di classe un’unica lotta a livello internazionale.

I comunisti rivoluzionari lavorano e combattono perché il futuro della lotta di classe diventi una realtà, sapendo che solo su questa via sarà possibile per il proletariato capovolgere le sorti del mondo cancellando in ogni paese ogni genere di oppressione.

 

13 aprile 2025

 

 

Partito Comunista Internazionale

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