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Manifestazioni della Generazione Z:
non è “la gioventù” che rovescerà il capitalismo, ma il proletariato unificato dietro il suo partito di classe
INTRODUZIONE: LE RIVOLTE DELLA GENERAZIONE Z
Dall’autunno 2025, il discorso mediatico ricorrente sulla cosiddetta “rivoluzione della Generazione Z” ha guadagnato sempre più slancio, alimentato dalle molteplici insurrezioni che, dal Nepal al Marocco, dal Madagascar all’Indonesia, dal Perù al Kenya, fanno tremare i pilastri marci delle società borghesi “periferiche”, società ancora giovani nel loro percorso storico e perciò lontane dall’eguagliare la forza mistificatrice delle loro sorelle maggiori nei centri capitalistici, sul piano del controllo democratico formale.
È al punto che, in Nepal e in Madagascar, così come in Bangladesh nell’estate del 2024, queste rivolte sono riuscite a rovesciare i governi in carica — non senza l’appoggio decisivo dell’esercito, che rimane il vero padrone della scena politica.
La ripetizione e il carattere radicale di queste rivolte — compresi gli scontri con la polizia e l’incendio di edifici simbolo del potere odiato — hanno spinto alcuni gruppi cosiddetti “d’estrema sinistra” (1), mai lontani dall’opportunismo borghese, ad affermare che esse rappresentano l’ultima manifestazione della rivoluzione socialista mondiale.
Pur fingendo di evocare la rivoluzione, fanno in realtà tutto il possibile per frapporre ostacoli al lungo cammino che permetterà al proletariato, guidato dal suo partito di classe, di riallacciare i fili della sua lotta storica, il cui fine ultimo è la conquista violenta del potere politico e la distruzione dello Stato e della società borghese attraverso misure dittatoriali rivoluzionarie.
Per quanto illusorie siano le speranze immediate di queste insurrezioni — che al massimo possono portare a un ricambio di facce al potere — la loro “contagiosità” e la facilità con cui metodi di lotta, slogan e simboli si diffondono su scala planetaria, impongono ai marxisti di non restare indifferenti, ma di sottoporle al vaglio della critica rivoluzionaria.
SRI LANKA, BANGLADESH, INDONESIA, NEPAL, MADAGASCAR, MAROCCO, PERÙ: PANORAMICA DELLE RIVOLTE GIOVANILI
Secondo Le Monde, la serie delle cosiddette “rivolte della Generazione Z” è iniziata nel 2022, per poi intensificarsi sensibilmente nell’autunno 2025 (2).
Il primo “successo” si ebbe nello Sri Lanka, dove, di fronte alla cattiva gestione dell’economia e alla corruzione del governo Rajapaksa, aggravate da una crisi economica acuta, dall’inflazione, dai blackout quotidiani e dalla mancanza di beni essenziali, decine di migliaia di manifestanti riuscirono, dopo mesi di proteste, a costringere il presidente Rajapaksa, dopo aver occupato il palazzo presidenziale, alla fuga in esilio.
Queste manifestazioni furono interclassiste e videro nei giovani una componente essenziale: iniziarono con richieste generali riguardanti le condizioni di vita e di lavoro, ma si trasformarono progressivamente in slogan democratici, inaugurando un modello classico che si sarebbe ripetuto quasi identico in molti altri paesi.
Nell’estate del 2024, in Bangladesh, decine di migliaia di studenti scesero in piazza dopo la decisione della prima ministra Sheikh Hasina di aumentare le quote di assunzione nel pubblico impiego riservate alle famiglie dei partecipanti alla guerra d’indipendenza guidata dalla Lega Awami (3), alle minoranze religiose o etniche, alle regioni marginalizzate e alle persone con disabilità.
Gli studenti denunciarono questa misura come incarnazione del clientelismo e della corruzione feroce che caratterizzano il sistema bengalese; l’indignazione fu tanto più forte in quanto tale decisione rappresentava un ostacolo all’accesso al pubblico impiego, unica via di uscita per i figli della piccola borghesia in molti paesi poveri dove lo Stato non riesce a creare posti di lavoro adeguati.
Come nello Sri Lanka, le mobilitazioni degenerarono in disordini, costringendo l’esercito a intervenire per evitare il peggioramento nel caos — il pericolo tradizionale che terrorizza ogni regime borghese basato più sul bastone che sulla carota.
L’esercito non esitò a sacrificare la premier Hasina, simbolo di una classe politica rifiutata dai giovani, e riportò in primo piano una figura della piccola borghesia di fama mondiale, l’economista e premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, per calmare i manifestanti.
Dalla fine dell’estate 2025, questa dinamica accelerò su scala globale.
In Indonesia, l’aumento delle tasse sulla proprietà immobiliare, combinato all’incremento delle indennità abitative per i parlamentari, scatenò un’ondata di proteste che riunì circa centomila persone. La violenta repressione — che provocò una decina di morti, fra cui un tassista motociclista — radicalizzò il movimento al punto che diverse case di deputati e un consiglio regionale furono dati alle fiamme, costringendo il governo a fare marcia indietro.
Dopo poche settimane, un movimento simile esplose in Nepal, in seguito alla decisione del governo “comunista” di vietare i social network in un paese dove vivono due milioni di immigrati su trenta milioni di abitanti, interrompendo così la comunicazione tra i lavoratori migranti e le loro famiglie.
Come nei casi precedenti, l’escalation della repressione irrigidì le proteste, che si trasformarono in disordini culminati nell’incendio del Parlamento.
Ancora una volta, l’esercito intervenne direttamente, attuando un colpo di Stato “bianco” e incaricando l’ex presidente della Corte Suprema, Sushila Karki, di formare un governo transitorio.
A fine settembre, fu la volta del Madagascar: la cosiddetta “Generazione Z” scese in piazza con rivendicazioni sociali, economiche e politiche — contro i tagli all’acqua e alla luce, per la fine del degrado dei servizi pubblici, contro la corruzione e l’arbitrio del potere.
La decisione del governo, guidato da Andry Rajoelina, di usare la violenza abituale per reprimere il movimento, nonostante venti morti e centinaia di feriti, non servì a nulla.
Mentre cercava di contare sull’esercito, unica forza capace di garantire la stabilità, Rajoelina nominò un militare, Rovin Zafisambo, primo ministro; ma dovette fuggire con l’aiuto dell’imperialismo francese, dopo la rivolta dell’unità d’élite dell’esercito (CAPSAT) guidata da Mikaël Randrianarina, che si proclamò presidente provvisorio prima di essere confermato dalla Corte Costituzionale.
Ancora una volta, l’esperienza del Madagascar dimostrò che le chiavi della situazione restano nelle mani dell’esercito, cioè nelle mani dello stesso sistema borghese (4).
Attualmente, queste mobilitazioni continuano in Marocco, dove i giovani — per la maggior parte appartenenti alla classe operaia — protestano contro condizioni economiche e sociali disastrose e affrontano una dura repressione da parte del governo e della monarchia, che ricorrono agli arresti arbitrari (5).
La stessa cosa accade in Perù, dove i giovani si mobilitano contro la corruzione dilagante nella classe politica e contro l’insicurezza crescente, soprattutto nei quartieri popolari della capitale Lima.
Per contenere la collera, la borghesia peruviana ha preferito sacrificare la marionetta del potere di allora, Dina Boluarte, eletta sulla lista “di sinistra” con il presidente destituito Pedro Castillo prima di tradirlo, facendola cadere per calmare la piazza senza toccare le radici della crisi.
Da questa rapida panoramica — che potrebbe includere anche le proteste nel Kenya (maggio–giugno 2024 contro la legge di bilancio), nell’Ecuador (settembre–ottobre 2025 dopo la revoca dei sussidi ai carburanti) e nelle Filippine (settembre 2025 contro la corruzione nei progetti anti-alluvioni) — i rivoluzionari possono trarre i tratti comuni di queste insurrezioni, evitando così la trappola dell’“analisi immediata” che caratterizza la falsa sinistra.
ANALISI MARXISTA E CONCETTO DI “GIOVENTÙ”
Mentre i media e il pensiero borghesi vedono individui o folle indifferenziate — come la cosiddetta “Generazione Z”, cioè i nati tra il 1997 e il 2012, abituati fin dalla nascita alle tecnologie della comunicazione e dell’informazione — i marxisti vedono invece forze sociali con interessi contraddittori: le classi.
La “gioventù” non è una classe sociale; è divisa dalle stesse frontiere di classe che separano gli “adulti”.
È vero che i giovani si distinguono dal resto della popolazione per una maggiore propensione alla mobilitazione e per una tendenza apparente alla radicalità. Questo spiega perché le organizzazioni giovanili dei partiti socialisti o comunisti abbiano storicamente contenuto elementi particolarmente avanzati — come Karl Liebknecht in Germania, Amadeo Bordiga in Italia e molti dirigenti della Terza Internazionale.
Ciò è ancor più vero per gli studenti, spesso i primi a scendere in campo nei periodi di crisi e instabilità, tanto da credersi talvolta la vera avanguardia.
Lo aveva già osservato Lev Trotsky durante la caduta della monarchia spagnola, alla vigilia della Seconda Repubblica:
«Quando la borghesia, consapevolmente e deliberatamente, rifiuta di risolvere i problemi che nascono dalla crisi della società borghese, e il proletariato non è ancora pronto ad assumersi questo compito, gli studenti passano in prima linea. Durante la prima rivoluzione russa, abbiamo osservato questo fenomeno più volte. Ed esso ha sempre avuto per noi un grande significato: un tale attivismo rivoluzionario o semi-rivoluzionario indica che la società borghese vive una crisi profonda. La gioventù piccoloborghese, percependo l’accumulo di energia esplosiva nelle masse, cerca a suo modo una via d’uscita dalla situazione, accelerando il processo politico» (6).
L’assenza del proletariato come classe — che si manifesta prima di tutto nell’assenza del suo partito di classe — apre la strada alla gioventù piccoloborghese, che impone i propri metodi di lotta e, peggio ancora, le proprie rivendicazioni.
Nella maggior parte dei paesi che conoscono simili movimenti — tutti appartenenti alle “periferie” del sistema capitalistico mondiale — la gioventù proveniente dalla piccola o media borghesia occupa la scena. Essa si trova di fronte alla contraddizione fra le proprie aspirazioni professionali, proporzionate alle qualifiche acquisite, e l’angustia economica di società borghesi incapaci di offrire sbocchi adeguati.
Questo giovane piccoloborghese si sente minacciato dal rischio di proletarizzazione e fa di tutto per evitarlo; da qui la sua ostinazione nel denunciare il clientelismo e la corruzione praticati dalle élite politiche ed economiche, che chiudono i pochi canali di ascesa sociale rimasti.
Non sorprende quindi che tra i dirigenti o portavoce di questi movimenti vi siano numerosi figli delle classi agiate. Ciò appare chiaramente in Madagascar, dove la maggior parte dei leader del movimento appartiene alla borghesia istruita, e tra loro vi è perfino il figlio di un ministro (!) (7).
Grazie alla loro migliore conoscenza dei meccanismi politici, alla maggiore capacità organizzativa e all’uso intensivo dei social network, questi giovani dirigono naturalmente folle di manifestanti provenienti dal proletariato, marginalizzati, disoccupati o precari. Così essi incanalano le rivendicazioni sociali ed economiche delle masse proletarie o povere in un quadro democratico interclassista, che finisce per mascherare le vere cause della collera.
LE RIVENDICAZIONI ECONOMICHE E SOCIALI CHE MOBILITANO IL PROLETARIATO
Nella stragrande maggioranza dei casi — con l’eccezione del Bangladesh e, in una certa misura, del Nepal — questi movimenti nascono da una collera sociale reale.
Essi esplodono dopo crisi economiche, o a causa del deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro, o del degrado dei servizi pubblici, o ancora dell’aumento del costo della vita dovuto agli attacchi anti-operai condotti dai governi.
È la gioventù emarginata, proveniente dalla classe operaia o da strati medi minacciati di declassamento, che scende in campo.
Sebbene la scintilla iniziale sia spesso una decisione scandalosa del potere borghese, queste lotte non sono che l’espressione spontanea e violenta di un malessere sociale profondo accumulato negli anni — talvolta nei decenni.
Inoltre, queste lotte simultanee su scala mondiale possono essere comprese solo se collocate nel contesto dell’evoluzione economica del capitalismo contemporaneo.
Dalla crisi del 2008, tutti gli Stati borghesi sono stati costretti ad aumentare il loro attacco alla classe operaia per incrementare i tassi di sfruttamento e ripristinare la redditività della produzione.
Come abbiamo scritto nel nostro testo sul Marocco:
«Il ritorno a un ritmo “normale” negli affari (normale e inevitabile fino alla prossima crisi, ovviamente) è stato ottenuto facendo ricadere il peso della “ripresa” principalmente sulle spalle dei lavoratori salariati, ma anche dei piccoli agricoltori, ecc., che hanno subito gli effetti di una concorrenza internazionale contro la quale non potevano fare nulla e che li ha gettati in una situazione drammatica» (8).
Oggi assistiamo di nuovo ai segni premonitori di una crisi ancora più violenta, ritardata finora da una serie di rimedi temporanei e di corto respiro. All’orizzonte si profilano nuovi attacchi contro il proletariato mondiale.
La gioventù lavoratrice si trova dunque di fronte a un futuro che non promette altro che offensive antioperaie, catastrofi ambientali — particolarmente devastanti in paesi come il Bangladesh (9) — e la prospettiva di una terza guerra mondiale che appare ogni giorno più vicina.
Il problema principale è che queste rivendicazioni, per quanto nobili in apparenza, possono essere facilmente assorbite, in assenza del partito di classe, all’interno di slogan democratici di carattere borghese, perdendo così la loro essenza di classe e il loro contenuto rivoluzionario.
…MA CHE AFFOGANO IN SLOGAN DEMOCRATICI DI TIPO BORGHESE E INTERCLASSISTA
Non sorprende quindi che le manifestazioni in tutti questi paesi si siano progressivamente orientate verso slogan generali e interclassisti: lotta contro la corruzione, cambio di governo, o richieste di “politiche sociali più giuste” per rafforzare i servizi pubblici.
Il predominio di tali parole d’ordine democratiche si spiega con la combinazione di due fattori che si alimentano reciprocamente: da un lato, proletari che, dopo un secolo di controrivoluzione, non si riconoscono più come classe ma come semplici cittadini astratti; dall’altro, il ruolo predominante dei figli della piccola borghesia istruita, divenuti portavoce del movimento.
Per quanto “benevoli” possano sembrare nelle loro intenzioni, i dirigenti di questi movimenti portano inevitabilmente con sé le illusioni della loro classe d’origine. Intrappolati tra borghesia e proletariato, si credono al di sopra del conflitto di classe. Convinti di rappresentare “gli interessi del popolo intero” contro “l’oligarchia corrotta” da abbattere — pacificamente o con la forza, per loro è lo stesso — essi aspirano soltanto a “riformare” il sistema democratico esistente.
Karl Marx scrisse pagine immortali sul duplice ruolo, tragico e grottesco, della piccola borghesia nei movimenti popolari, nel suo celebre Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte.
E, a quasi centosettantacinque anni da quel testo, esso conserva intatto il suo valore teorico per noi, “dogmatici” marxisti. Nella sua critica ai democratici del 1848 — i “socialisti romantici” che pretendevano di rappresentare “il popolo intero”, ma furono sconfitti da Luigi Napoleone — Marx scriveva:
«Nessun partito sopravvaluta tanto le proprie forze quanto il partito democratico. Nessun partito si inganna tanto sulla realtà quanto lui. Poiché il democratico, rappresentante della piccola borghesia — cioè della classe intermedia in cui si attenua il contrasto tra le due classi principali — si illude di trovarsi al di sopra delle lotte di classe.
«Egli, riconoscendo l’esistenza di una classe particolare di fronte a sé, si considera, insieme al resto della nazione, come “il popolo”. Ciò che rappresenta sono “i diritti del popolo”, ciò che cerca è “l’interesse del popolo”. Di conseguenza, non ritiene necessario studiare, prima della lotta, le posizioni e gli interessi delle diverse classi. Non ha bisogno di valutare esattamente la propria forza. Gli basta dare il segnale, e il popolo si lancerà con tutte le sue energie illimitate contro gli oppressori.
«Ma se, in pratica, risulta che i suoi interessi sono deboli e la sua forza insufficiente, la colpa è dei “traditori” che hanno diviso il popolo, o dell’esercito “ignorante” che non ha capito che gli obiettivi della democrazia erano il suo stesso bene, o di un “errore d’esecuzione”, o di un “incidente imprevisto”.
«In ogni caso, il democratico esce dalla sconfitta così puro come vi era entrato, convinto soltanto che la vittoria verrà più tardi, non perché lui o il suo partito debbano cambiare posizione, ma perché le circostanze devono maturare» (10).
Il piccolo borghese appare dunque come un essere eternamente ingannato, che inganna sé stesso con le proprie illusioni, ma — ed è questo l’aspetto più pericoloso — trascina il proletariato con sé nell’abisso. Le sue rivendicazioni di “buon governo” non si fondano, in ultima analisi, sulla sua forza propria, ma sull’umore dell’unico attore che, in questi paesi periferici, detiene le chiavi del potere reale: l’esercito.
IL RUOLO CENTRALE DELL’ESERCITO NEI PAESI PERIFERICI
Nella maggior parte dei paesi che hanno conosciuto le “rivolte della Generazione Z”, è l’esercito che ha posto fine a questi movimenti.
In Bangladesh e in Nepal, per esempio, le forze armate, constatando la fragilità delle basi su cui poggiava il regime, sono intervenute direttamente per formare un nuovo governo, per poi ritirarsi ufficialmente in seconda linea dietro una facciata civile.
In realtà, dietro questa facciata di “governi civili” composti da tecnocrati senza legittimità reale, l’esercito rimane il detentore effettivo del potere.
Ciò appare in modo ancora più evidente in Madagascar, dove il sostegno di una parte delle forze armate al movimento — e la rivolta dell’unità d’élite nota come CAPSAT — provocarono la fuga di Rajoelina e la formazione di un governo di transizione militare.
Questo ruolo politico fondamentale dell’esercito costituisce una differenza essenziale tra i paesi periferici e quelli imperialisti ricchi, nei quali la tradizione dell’“oppio democratico” si basa su un’esperienza secolare.
Nei paesi periferici — che hanno ottenuto per lo più soltanto un’indipendenza formale dopo la Seconda guerra mondiale — l’esercito, fin dall’inizio, si è impadronito del potere con il pretesto di porre fine ai conflitti interni fra clan borghesi e di incarnare “l’interesse generale” …cioè l’interesse della borghesia stessa.
Solo l’esercito possiede la forza sufficiente per imporre disciplina alle diverse fazioni borghesi, come pure alle masse popolari proletarie e piccoloborghesi che, in certi casi, avevano condotto una lotta armata contro il colonialismo.
In questi paesi, privi di solide tradizioni democratiche e abituati ai colpi di Stato e alle elezioni truccate, non resta, per garantire la stabilità, che una sola forza organizzata: l’esercito, vero custode dell’ordine borghese.
Come scrisse Ferdinand Lassalle in uno dei suoi rari testi rivoluzionari, Che cos’è una costituzione? :
«L’esercito è una forza organizzata, riunita in ogni momento, perfettamente disciplinata e pronta a intervenire in qualsiasi istante; mentre la forza latente della nazione, per quanto infinitamente più grande, non è organizzata. La volontà della nazione, e soprattutto il grado della sua determinazione, non sono sempre chiari neppure ai suoi membri; nessuno sa esattamente quanti compagni troverà al suo fianco. Inoltre, la nazione manca degli strumenti di potere organizzato, quelle basi essenziali della costituzione di cui abbiamo parlato: i cannoni» (11).
Questa verità, lampante per ogni marxista, non sarà mai compresa dal piccolo borghese. Ed è precisamente ciò che lo condanna a una impotenza eterna — e che trascina il proletariato nella stessa impotenza, finché quest’ultimo non avrà riconquistato la propria forza storica e non si sarà dato i propri obiettivi autentici.
Prima di raggiungere la sua liberazione, il proletariato dovrà percorrere un lungo cammino per riscoprire le proprie tradizioni e le proprie forme di organizzazione, cioè il suo partito di classe internazionale, che, una volta ricostruito, potrà guidarlo verso la vittoria finale sulla borghesia.
Le lotte della cosiddetta “Generazione Z” non sono ancora che l’espressione di una collera sociale legittima, ma restano lontane dalla vera lotta rivoluzionaria.
E se annunciano una prossima ripresa del conflitto di classe proletario, non vi contribuiranno realmente se non riusciranno a spingere il proletariato, approfittando della debolezza del sistema borghese, a condurre la propria battaglia per i suoi interessi diretti.
Solo allora questo potrà rappresentare un passo importante verso la sua riorganizzazione di classe e avvicinare il momento della vera rivoluzione, quella descritta da Bordiga in un’epoca in cui gli opportunisti vedevano nel movimento studentesco “il nuovo soggetto rivoluzionario”:
«Una rivoluzione internazionale, con un solo partito e una sola classe; vale a dire, prima di tutto, senza il marciume interclassista, quello che si chiama gioventù studentesca» (12).
(1) Esempio: «L’Internazionale Comunista Rivoluzionaria» (sic)…
(2) «La Generazione Z in Asia si solleva contro le élite politiche radicate», Le Monde, 29 settembre 2025.
(3) La Lega Awami è l’organizzazione che guidò l’indipendenza del Bangladesh.
(4) Vedi la nostra presa di posizione «Esplosione sociale nel Madagascar», 7 ottobre 2025.
(5) Vedi la nostra presa di posizione «Rivolte in Marocco: sul malcontento popolare cala la repressione del regime di Mohammed VI», 2 ottobre 2025.
(6) Lev Trotsky, Compiti dei comunisti in Spagna – Lettera a Contra la Corriente, 25 maggio 1930, sito marxists.org.
(7) «In Madagascar, la Generazione Z rifiuta la confisca della propria vittoria», Le Monde, 16 ottobre 2025.
(8) «Rivolte in Marocco», cit.
(9) Nel 2022, il Bangladesh ha affrontato una serie di inondazioni devastanti.
(10) Karl Marx, Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1851, sito marxists.org.
(11) Ferdinand Lassalle, Che cos’è una Costituzione? 1862, sito marxists.org.
(12) Amadeo Bordiga, Lettera a Umberto Terracini, 4 marzo 1969, sito marxists.org.
28 ottobre 2025
Partito Comunista Internazionale
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