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Archivio del giornale «il programma comunista»

organo politico del partito dal 1952 fino al 1983

Supplementi sindacali:

Introduzione generale ai supplementi sindacali

Serie : Il tramviere rosso 1962-1963

Serie : Spartaco 1962-1965

Serie : Spartaco 1965-1968

Serie : Il sindacato rosso (spartaco) 1968-1969

Serie : Il sindacato rosso (spartaco) 1969-1971

Serie : Il sindacato rosso (Nuova serie) 1971-1973

Serie : Spartaco (Foglio di indirizzo e di battaglia del Gruppo di Fabbrica della Olivetti del partito Comunista Internazionale) 1975-1980


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Introduzione  Anni 1952-1963  Anni 1964-1973  Anni 1974-1983


Introduzione generale ai supplementi sindacali

 

Il partito di ieri, per indirizzare e centralizzare l’attività a carattere sindacale dei compagni in fabbrica e nei diversi luoghi di lavoro, per un certo periodo ha affiancato al giornale italiano, “il programma comunista”, un foglio di intervento “sindacale” che ha avuto varie versioni nel corso degli anni. Pur trattandosi di un foglio specificamente indirizzato alla lotta sindacale, mai separato dal quadro dell’attività politica complessiva del partito, esso non poteva non risentire del clima, nello stesso tempo generale e particolare, in cui la classe operaia – illusa da un “benessere” promesso da tutte le forze opportuniste politiche e sindacali sull’onda di un “boom economico” che seguì la ricostruzione postbellica, come se la fase dei sacrifici “necessari” per la ripresa economica del paese stesse finendo per lasciar spazio alla fase dei miglioramenti consistenti delle condizioni di esistenza delle masse proletarie – stava invece saggiando, all’inizio degli anni Sessanta, le prime avvisaglie della crisi economica di fronte alla quale la classe borghese non faceva che adottare la classica offensiva antioperaia fatta di licenziamenti, chiusura delle fabbriche, cassa integrazione, mentre pretendeva dal sindacato operaio – che dal 1944 si era già costituito sulla base del sindacalismo tricolore caro al precedente sindacato corporativo fascista e basato su un castello di ammortizzatori sociali che dovevano tacitare, almeno in parte, i bisogni essenziali delle masse proletarie – una più sistematica attività di controllo dei fermenti di lotta operaia ed una politica antioperaia complementare alla propria offensiva, politica indirizzata ad utilizzare gli “ammortizzatori sociali” più per dividere gli operai tra di loro che per accomunarli in una lotta di difesa più allargata. Si inaugura così una lunga stagione di lotte articolate, facilitate anche dalla concorrenza che i tre maggiori sindacati, CGIL, CISL e UIL, si facevano tra di loro, cosa che non impedì loro, di fronte al crescere della pressione delle masse proletarie, di porre ad un certo punto, come elemento di “maggior forza” nel controllo delle masse proletarie, anche la loro riunificazione in un unico sindacato.

A livello internazionale, il clima generale non era meno tormentato. Dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale, la tanto osannata pace restava una parola con cui si riempivano la bocca sia i poteri capitalistici d’Occidente che quelli d’Oriente i quali, chi nascondendosi sotto le vesti di una libertà democratica che avrebbe dovuto garantire la pace universale e chi sotto le vesti di un  “socialismo” mai attuato e mai voluto, continuavano non solo a commerciare allegramente tra di loro perforando sistematicamente ogni “cortina di ferro”, ma ad alimentare i propri interessi di potenza nelle diverse zone del mondo dove scoppiavano conflitti militari dovuti anche alla ribellione armata delle masse dei paesi alla periferia dell’imperialismo come in Corea, in Indocina, a Cuba, nel Congo, in Algeria e nel Medio Oriente. Ai proletari il partito si rivolgeva, quindi, con un compito molto più complicato di quanto non spettasse ai comunisti rivoluzionari del primo dopoguerra, poiché alla notoria politica antioperaia della borghesia di ogni paese si sommava la politica derivante dalla vittoria controrivoluzionaria dello stalinismo sul movimento comunista internazionale che, basandosi sul falso socialismo di Russia e dei suoi paesi satelliti, sbandierava, davanti alle masse operaie dei propri paesi e del mondo, categorie economiche e metodi classicamente capitalistici (produzione di merci, mercato, denaro, banche, economia per aziende, profitti capitalistici, economia nazionale) per categorie e metodi “socialisti”. La distruzione dei partiti comunisti e del movimento comunista internazionale dovuta al predominio dello stalinismo sulle correnti rivoluzionarie, lasciava un enorme spazio non solo alla rimonta delle tendenze riformiste, ma soprattutto al collaborazionismo tra le classi che il fascismo aveva istituzionalizzato e regolamentato così bene da farne un modello che verrà ripreso da tutte le borghesie e le organizzazioni operaie opportuniste del mondo; certo, questa volta vestite di democrazia. La vittoria della controrivoluzione distrusse sia i partiti comunisti rivoluzionari sia i sindacati “rossi”, i sindacati di classe, togliendo in questo modo alle masse proletarie non solo la guida politica delle loro lotte per l’emancipazione di classe dal capitalismo, ma anche le organizzazioni di difesa economica autonome, “di classe” per l’appunto, grazie alle quali il proletariato in epoche precedenti era riuscito ad allenarsi alla guerra di classe costituendo, nelle condizioni storiche favorevoli allo sviluppo della lotta di classe e rivoluzionaria, un elemento basilare per la preparazione rivoluzionaria e la rivoluzione proletaria stessa.

Il partito di classe, ricostituitosi nel secondo dopoguerra, sentiva il dovere di far proseguire l’attività di restaurazione della dottrina marxista combattendo in ogni campo la degenerazione staliniana, attività che lo aveva caratterizzato fin dalle sue origini nel secondo dopoguerra, con una attività di intervento sul terreno immediato e “sindacale”, pur basata su forze modestissime e inevitabilmente marginali rispetto all’intera classe operaia, volta ad approfittare di ogni spiraglio che si apriva nella tremenda cappa che il collaborazionismo politico e sindacale aveva costruito per imprigionare le masse operaie piegandone ogni energia alla sola conservazione borghese e in difesa del sistema di produzione schiavistico del capitalismo.

L’impostazione generale dell’attività del partito sul terreno sindacale, sulla linea di continuità delle posizioni sostenute nei primi anni dell’Internazionale Comunista e dal Partito comunista d’Italia diretto dalla Sinistra comunista, era stata ben definita fin dalle conclusioni che ebbero le discussioni sorte nel partito negli anni dal 1948 al 1951, e che trovarono nel Rapporto alla riunione di Roma del 1° aprile 1951 una coerente sintesi. Tale rapporto, dal titolo generale Teoria e azione nella dottrina marxista, è composto da due parti: una prima parte intitolata Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista, e una seconda parte ititolata Partito rivoluzionario e azione economica (v. “Partito e classe”, n. 4 de “i testi del partito comunista internazionale”, pp. 119-137).

Ma la “questione sindacale”, fondamentale nei comportamenti politici e tattici del partito di classe, è stata sempre una delle questioni che hanno fatto sorgere spesso dubbi e interpretazioni contrastanti, data la sua caratteristica di essere al centro dei rapporti che devono intercorrere tra il partito e la classe proletaria. Non è infatti un caso che fu una delle questioni di tattica su cui si scontrarono posizioni opposte non solo negli anni Venti del secolo scorso, ma anche negli anni della ricostituzione del partito rivoluzionario dopo la seconda guerra mondiale. Essa è stata, in effetti, uno degli aspetti cruciali su cui si innestò, tra il 1951 e 1952, lo scontro tra le posizioni difese da coloro che seguirono le posizioni rappresentate da Damen e quelle rappresentate da Bordiga (usiamo i nomi esclusivamente per sintetizzare posizioni condivise da molti e non per dare lustro ad uno a all’altro individuo). Vale però la pena di riassumere quali posizioni distinguevano il partito, soprattutto dopo la scissione del 1952 dal gruppo che si impossessò di  “battaglia comunista”, e per farlo basta riprendere, qui, alcuni documenti di partito dell’epoca.

In una lettera inviata a B. Maffi il 5 gennaio 1951, Bordiga, in perfetta coerenza con la valutazione della situazione del secondo dopoguerra argomentata e dimostrata in molti scritti teorico-programmatici dal 1946 su “Prometeo” e dal 1949 nei “fili del tempo” pubblicati su “battaglia comunista”, mette un punto fermo sulla “questione sindacale”. Ecco alcuni estratti:

«a) la situazione sindacale di oggi diverge da quella del 1921 non solo per la mancanza del Partito comunista forte, ma per la progressiva eliminazione del contenuto della azione sindacale col sostituirsi di funzioni burocratiche alla azione di base: assemblee elezioni frazioni di partiti nei sindacati e via; di funzionari di mestiere e capi elettivi ecc. Tale eliminazione difesa nel suo interesse dalla classe capitalistica vede sulla stessa linea storica i fattori: corporativismo fascista, economia diretta in guerra o pace, sindacalismo tipo CLN, sindacalismo tipo Di Vittorio o Pastore. Tale processo non può essere dichiarato irreversibile. Se l’offensiva capitalista è fronteggiata da un PC forte, se si strappa il proletariato alla tattica CLN di fronte a quella; se lo si strappa all’influenza dell’attuale politica russa, nel momento X e Paese X possono risorgere i sindacati classisti ex novo o dalla conquista magari a legnate degli attuali. Ciò non è storicamente da escludere. Certamente quei sindacati si formerebbero in una situazione di avanzata o di conquista del potere. (…)

«b) premesso il fatto della scarsa forza del Partito, e fino a che questa non sia molto maggiore, il che non si sa se avverrà prima o dopo il risorgere di organizzazioni di classe non politiche a larghi effettivi, il Partito non può e non deve: né proclamare il boicottaggio di sindacati organi di azienda e agitazioni operaie; né proclamare la presenza sempre e dovunque alle elezioni di fabbrica di sindacato ecc. con liste proprie; né dove sia localmente in prevalenza di forze usare in aperte agitazioni la parola del boicottaggio invitando a non votare non iscriversi al sindacato non scioperare o simili.

«In senso positivo: nella maggioranza dei casi astensione pratica e non boicottaggio.

«Nei casi speciali, di buon rapporto di forze, mai parola di boicottaggio, eventuale decisione o per il disinteressamento dal presentare liste o per la [loro] presentazione, secondo le prevedibili pratiche conseguenze, in ogni caso con lavoro di diffusione dei nostri principi a mezzo del gruppo di fabbrica di iscritti, emanante dal Partito, ad esso subordinato.

«c) (…). Principio: senza organismi operai intermedi tra Partito e classe non vi è possibilità rivoluzionaria; il Partito non abbandona tali organismi per il solo fatto di esservi in minoranza. Tanto meno sottopone i suoi principi e direttive al volere di quelle maggioranze sotto pretesto siano “operaie”. Ciò vale anche per i Soviet (vedi Lenin, Zinoviev ecc.)» (1).

 

In un’altra lettera inviata a B. Maffi e O. Damen, del 4 marzo 1951, Bordiga precisa: “Non vi sono due capitalismi: quello vecchio che rendeva possibile l’azione sindacale rivendicativa e quello attuale che la ha esclusa. Vi è uno svolgimento in senso monopolistico ossia nel preciso senso della critica marxista alla economia borghese stabilita al tempo del preteso liberismo, e vi è una egualmente preveduta fase politica antiliberale demascherata. Il nuovo rapporto tra classe dominante e sindacati è un rapporto politico di influenza e dominazione; errore enunciarlo così: i sindacati sono divenuti organi della classe borghese e parti dello Stato borghese. Sono sempre organi proletari, sotto la dittatura borghese dopo un lungo periodo e processo di corruzione dei quadri e di infeudamento; come organi sociali non erano borghesi nemmeno i sindacati fascisti. L’appetito economico è sempre il nostro punto di partenza, non un nudo sterile confessionalismo rivoluzionario”.

Quindici giorni dopo, in una successiva lettera, inviata a B. Maffi, O. Damen e O. Perrone il 19 marzo 1951, e prima della riunione di Roma citata sopra, Bordiga riprende i punti critici sintetizzati da L. Tarsia sulla questione “sindacati e Partito”, precisando: “Falso che il capitalismo di oggi sia una cosa diversa da quello di ieri e che quella fosse la sua fase ascendente, questa la discendente – Falso che sia distrutto il proletariato come classe, cessato il fatto economico della lotta sollevata dal contrasto degli interessi – Falso che non siano possibili rivendicazioni di miglioramento, ma solo di difesa del tenore di vita e delle ‘conquiste’ – Falso che sulle rivendicazioni non si possa innestare la lotta politica per i fini generali che superano luogo tempo e categoria o azienda – Falso che i sindacati si possano dire organi dello Stato borghese quando si vuole definire sia la nuova legislazione borghese sui sindacati sia la nuova situazione politica dei partiti che fanno opera sindacale e i loro metodi”.

La rimessa in evidenza di quanto contenuto in queste lettere contribuisce a comprendere come siano state prima “dimenticate” e poi “negate” le corrette posizioni del partito, da parte di quei gruppi di compagni che presero via via posizioni sempre più sbagliate fino a far leva su di esse per giustificare la loro finale separazione dal partito.

A dieci anni dalla sua effettiva e salda costituzione formale, potendo contare sull’esperienza che i compagni della vecchia guardia, appartenenti alla corrente della sinistra comunista, e maturata nel Partito comunista d’Italia dal 1921 in poi, e organizzando l’attività anche di carattere sindacale dei compagni più giovani, il partito maturava anche in questo campo l’idea di dover produrre un organo specifico che funzionasse come “organizzatore collettivo” sul piano sindacale e di fabbrica, naturalmente con compiti ben più limitati di quelli del giornale di partito e al quale in ogni caso faceva diretto riferimento. Una prima esperienza molto particolare e parziale in questo campo c’era già stata ad opera dei compagni autoferrotranvieri della sezione di Firenze che uscirono con un foglio sindacale locale intitolato “Tramviere rosso”, tra il 1962 e il 1963; ne diede notizia “il programma comunista” n. 1 del 1962 con questo trafiletto: «Ha iniziato la sua vita a Firenze il “Tramviere rosso”, il bollettino settimanale dei tramvieri comunisti internazionalisti aderenti alla CGIL che i nostri compagni tirano al ciclostile. Esso è un bell’esempio di quello che, pur nelle difficili condizioni di oggi, si può e si deve fare nelle organizzazioni sindacali e sul luogo di lavoro per reagire alla politica di spezzettamento e svirilimento delle agitazioni, per richiamare i principi fondamentali della lotta di classe, per mettere in luce la necessità della guida del partito rivoluzionario anche nelle lotte contingenti e rivendicative, e per mantenere il necessario legame fra battaglia politica e battaglia economica. Il bollettino non ha pretese che non può avere: è la voce di proletari che nelle questioni del pane quotidiano non perdono mai di vista lo scopo finale della loro classe e che non si stancano di agitarlo nei problemi minimi come in quelli massimi. E’ una voce schietta e rude, piena di entusiasmo e ancorata a un programma invariabile e sicuro: noi lo salutiamo come un’iniziativa che deve allargarsi e moltiplicarsi». E in effetti questa iniziativa si allargherà, tanto da prendere la caratteristica di un organo centrale e generale – intitolato Spartaco – dedicato ai problemi della lotta economica sul terreno immediato, tanto più in quanto, all’offensiva antioperaia del padronato, il proletariato più giovane, e soprattutto quello “immigrato” dal Sud Italia, rispose con una forte combattività come dimostrarono i “fatti di Piazza Statuto” a Torino del luglio 1962, nella lotta degli operai della FIAT e le molteplici battaglie di strada dei proletari delle grandi fabbriche anche a Milano e Genova, in Emilia Romagna e in Toscana e dei proletari agricoli in Puglia e in Campania.

Dal maggio 1962 all’ottobre 1965 uscirono, come Supplemento del giornale, 30 numeri mensili di «Spartaco»; i primi 24 numeri come «Bollettino centrale di impostazione programmatica e di battaglia dei Comunisti Internazionalisti aderenti alla CGIL», e i numeri dal 25 al 30 come «Organo mensile di impostazione programmatica e di battaglia dei militanti del Partito Comunista Internazionale iscritti alla CGIL». Dal novembre 1965 al giugno 1968 «Spartaco» uscì come pagina interna del giornale, definendosi «Pagina mensile di impostazione programmatica e di battaglia dei militanti del Partito Comunista Internazionale iscritti alla Confederazione Generale del Lavoro». Va notato che, in questo caso, non si cita l’esistente CGIL alla quale erano effettivamente iscritti i compagni di partito, ma la CGL, ossia il sindacato “rosso” che esisteva nel primo dopoguerra, che era stato distrutto dal fascismo e che è stato sostituito dal 1944 in poi dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro, sindacato che definimmo chiaramente tricolore e non “rosso”. A partire dal luglio 1968, fino all’agosto 1971, il foglio sindacale di partito cambia ancora intestazione e si intitola «Il Sindacato rosso (spartaco), organo mensile dell’Ufficio Sindacale Centrale del Partito Comunista Internazionale», uscendo come foglio a se stante, e ancora, dal settembre 1971 all’ottobre 1973 (nuova serie), «Il Sindacato rosso, Supplemento sindacale mensile de “il programma comunista” organo del partito comunista internazionale». Successivamente, dopo una lotta interna durata non meno di tre anni, grazie alla quale, infine, venne riconquistata la giusta valutazione dei sindacati tricolori nell’epoca imperialista e le corrette posizioni tattiche su cui reindirizzare l’attività a carattere sindacale dei propri militanti, il partito sospese l’uscita di un foglio sindacale centrale, impartendo le direttive sul terreno immediato attraverso circolari interne e direttamente dall’organo a stampa principale, “il programma comunista”. 

La vita un po’ tormentata dei fogli sindacali del partito è stata dovuta, da un lato, alla necessità di indirizzare e centralizzare un’attività dei compagni sul terreno della lotta operaia immediata che non si svolgeva più solo localmente ed episodicamente, ma che iniziava a prendere un peso importante all’interno dell’attività di molte sezioni e, dall’altro lato, al tentativo di orientare la lotta degli operai sul terreno di classe propagandando le rivendicazioni classiche della tradizione classista del movimento proletario. Il partito, fin dalle prime possibilità di attuare, nel secondo dopoguerra, del “lavoro sindacale” all’interno del sindacato operaio, scelse di farlo, e di continuare a farlo anche dopo la scissione del 1949, nella CGIL perché la considerava «come l’unica organizzazione in Italia che, oltre ad organizzare la maggior parte dei lavoratori – fra cui la stragrande maggioranza dei salariati industriali e agricoli -  conserva ancor oggi e malgrado la sua nefasta direzione politica una parvenza di classe» (Criteri generali per l’attività del partito nel campo delle lotte rivendicative e nelle organizzazioni sindacali operaie, “il programma comunista” n. 13 del 1966). Si parla qui di “parvenza di classe” e non di “sindacato di classe” e, infatti, subito dopo si precisa che «questo non significa che la CGIL debba essere considerata come la centrale “ideale” e che, nella dinamica del processo rivoluzionario, risponda anche domani ai presupposti necessari alla preparazione della rivoluzione, o conservi anche le attuali “apparenze”. Non si può escludere che la CGIL abbandoni anche queste caratteristiche statutarie “di classe” in omaggio ad una riunificazione sindacale che avrebbe, nelle intenzioni dei suoi promotori, la funzione di frenare la radicalizzazione dei proletari». In realtà, la CGIL, nello sviluppo delle crisi capitalistiche e di fronte alle esigenze di controllare il proletariato fin dai suoi conati di radicalizzazione sociale dovuti alle stesse crisi economiche, abbandonò via via le caratteristiche statutarie “di classe” eliminando anche quelle “parvenze di classe” che permettevano ai proletari più combattivi e critici e, soprattutto, ai comunisti rivoluzionari, di intervenire e influenzare anche minimamente dei gruppi operai (come in effetti avvenne all’Olivetti, alla Fiat, all’Anic ecc.) in senso chiaramente classista e antiopportunista.  

Il fatto è che, nello sviluppare questo tipo di attività, il partito, ad un certo punto, presuppose erroneamente che la CGIL – che organizzava la maggior parte dei proletari di fabbrica e che per illuderli meglio si rifaceva alle origini della Confederazione Generale del Lavoro dei primi del Novecento – fosse un sindacato “di classe” nel quale bisognava sbarazzarsi semplicemente della sua dirigenza opportunista e collaborazionista sostituendola con una dirigenza classista e comunista rivoluzionaria. Quest’ultima indicazione prese ancor più peso di fronte alla ventilata riunificazione in un unico sindacato tra CGIL, CISL e UIL, ossia tra i sindacati usciti dalla scissione della CGL nel 1949, riunificazione che si ritenne, ad un certo punto, responsabile di trasformare la CGIL da sindacato operaio “di classe” in sindacato corporativo, in sindacato “fascista”.  Di fatto, nel partito, in quel periodo, si perse un punto fermo che il bilancio storico e teorico-politico prodotto negli anni 1946-1952 aveva definito chiaramente, e cioè che dal corporativismo fascista si era passati ad un corporativismo democratico, ma sempre corporativismo tricolore, per l’appunto, che presupponeva una sempre più stringente collaborazione tra le classi e un’integrazione sempre più decisa delle organizzazioni economiche del proletariato nello Stato borghese, ci volesse il tempo che ci voleva dato il riordinamento istituzionale e costituzionale secondo i dettami della democrazia post-fascista. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, il partito – spinto ad accelerare ed allargare la propria attività di intervento grazie al notevole fermento che percorreva tutti gli strati proletari colpiti dalla crisi economica e stufi del disfattismo dei sindacati ufficiali, e nella prospettiva di una agognata ripresa della lotta di classe provocata proprio dagli effetti della crisi economica e, soprattutto, dalla crisi capitalistica mondiale che si stava avvicinando a passi da gigante (e che scoppiò effettivamente nel 1975, come d’altra parte il nostro partito aveva previsto fin dal 1955) – cadde nell’illusione di poter “bruciare le tappe” della riorganizzazione classista delle masse operaie aumentando gli interventi all’interno di un sindacato già esistente e che organizzava la maggioranza del proletariato italiano, la CGIL appunto, e aumentando la propaganda e gli interventi pratici nelle diverse realtà in cui gruppi di operai più combattivi tentavano di condurre lotte più dure sia all’interno stesso dei sindacati che al loro esterno. Una sorta di combinazione tra impazienza “rivoluzionaria”, attivismo, velleitarismo e ultimatismo, percorse il partito in un periodo che appariva decisivo per la rivoluzione: o nel giro di pochissimi anni i proletari sarebbero riusciti a far fuori i vertici collaborazionisti della CGIL e a consegnare la propria guida sindacale ai comunisti rivoluzionari che, nel frattempo, si erano distinti nella battaglia per il salvataggio del sindacato “di classe” salvando, quindi, il proletariato dal precipitare nel sindacalismo fascista, oppure il proletariato avrebbe perso l’occasione storica che il partito aveva previsto, quella della crisi sociale che sarebbe scaturita dalla crisi capitalistica mondiale.

Da questo grave scivolone il partito trovò, internamente, la forza di uscirne, riattivando il metodo classico del ricollegamento della valutazione della situazione, delle posizioni e delle indicazioni tattiche, ricollegamento che consisteva, e consiste, nel far discendere dalle tesi che il partito aveva prodotto grazie al bilancio storico, teorico e politico delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, le linee invarianti che lo devono orientare in ogni situazione. Come dicevamo, il raddrizzamento delle posizioni non fu un’opera indolore; inevitabilmente le tendenze che si erano formate e sviluppate all’interno del partito si scontrarono in una lotta politica che, se da un lato riportò il partito sulle corrette posizioni sempre difese dalla Sinistra comunista, produsse anche delle lacerazioni che sboccarono in una serie di scissioni, di cui la più importante fu quella del 1973, denominata “fiorentina” perché il suo centro propulsore si era incentrato nella sezione di Firenze. In una serie di riunioni interne e generali, il tema “Partito e questione sindacale”, dato il peso straordinario che l’attività sindacale aveva preso in quegli anni, tornò all’attenzione di tutti i compagni e in molte sezioni furono riprese le basi teoriche e programmatiche marxiste in questo campo, partende dalle impostazioni date da Marx ed Engels nella Prima Internazionale risalendo poi a Lenin, alla Terza Internazionale e al Partito Comunista d’Italia. Ed è grazie a questo lavoro di ricollegamento a una linea che non avrebbe mai dovuta essere interrotta, e che si avvalse anche dell’approfondimento delle posizioni del PCd’I e delle tesi di partito nel secondo dopoguerra, che il partito trovò nelle sue stesse forze interne gli anticorpi in grado di combattere contro le tendenze deviazioniste e velleitarie che si erano formate, lotta che non poteva che avere una caratteristica: quella di essere centralista. In effetti, confermando una posizione che è sempre stata della Sinistra comunista d’Italia, l’errore in cui il partito può cadere può essere corretto soltanto centralisticamente, e così fu: il controllo politico de “il sindacato rosso” fu riportato interamente a  Milano dove aveva la sede il centro del partito, e dal settembre 1971 questo supplemento uscì come “nuova serie”. Lo stesso lavoro di ripresa delle basi teoriche e programmatiche marxiste apparve poi nel giornale “Il programma comunista”, dal n. 22 del 1971 al n. 2 del 1972, per poi lasciare spazio ad un testo conclusivo intitolato «Il partito di fronte alla “questione sindacale”» (n. 3 del 1972) e alle Tesi sulla questione sindacale, presentate alla riunione generale, col titolo «Marxismo e questione sindacale», del 12-13 febbraio 1972 e pubblicate nel “programma comunista” nn. 10, 11 e 12 del 1972.

Ricordavamo che la valutazione del tutto sbagliata della CGIL come sindacato “di classe” – da salvare dai propri vertici opportunisti – innescò un’attività farraginosa e ultimatista perché la sua unificazione con gli altri due sindacati tricolori (CISL e UIL) non avvenisse, unificazione considerata come la morte del sindacato “di classe” e la nascita di un nuovo “sindacato fascista”. La crisi interna, determinata dalla lotta contro queste posizioni devianti si protrasse fino a tutto il 1973, quando si attuò la scissione dal partito di una parte di suoi membri che si organizzarono successivamente intorno ad una nuova testata con sede centrale a Firenze. I diversi gruppi di militanti di fabbrica (Ivrea, Milano, Torino, Mestre, Napoli, Torre Annunziata, Ovodda ecc.) che restarono nel partito, continuarono l’attività anche sul terreno sindacale secondo le direttive raccolte nelle tesi sindacali del 1972. Il gruppo di fabbrica dell’Olivetti di Ivrea, il più numeroso e importante del partito in Italia, avvertì comunque l’esigenza di continuare ad avere a disposizione un foglio sindacale specifico, dando alla propria attività anche all’interno delle fabbriche del comprensorio un supporto a cui gli operai potessero fare costante riferimento.

Nacque pertanto, nel dicembre del 1975, lo SPARTACO, foglio di indirizzo e di battaglia del Gruppo di Fabbrica della Olivetti del Partito Comunista Internazionale, di cui diamo i sommari nella sezione ad esso dedicata.

Scenderemo più in dettaglio, volta per volta, introducendo i vari passaggi degli organi sindacali del partito di cui qui diamo i sommari completi del loro contenuto.

 


 

(1) Questi documenti sono facilmente rintracciabili in S. Saggior, Né con Truman, né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionalista (1942-1952), Edizioni Colibrì, Milano 2010, pp. 177, 185, 186. 

 

 

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