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Il  Partito  rivoluzionario  del  proletariato di  fronte  all’attuale  crisi  finanziaria  ed  economica del  capitalismo  mondiale

 («il comunista»; N° 109; Luglio 2008)

 

Solida e monolitica la prospettiva storica della lotta rivoluzionaria del proletariato di tutti i paesi, sotto la guida del partito di classe, per la conquista del potere politico, la distruzione dello stato borghese e la trasformazione dell’economia capitalistica in economia socialista e comunista, è l’unica lotta che può farla finita con una società indirizzata esclusivamente alla produzione e riproduzione di capitale attuate attraverso l’estorsione sistematica e crescente di plusvalore ottenuta dal generale e sempre crescente sfruttamento della forza lavoro salariata in ogni paese del mondo. 

 

 

1. Come le crisi finanziarie più importanti degli ultimi decenni, anche la crisi finanziaria attuale ha colpito il mondo intero: partita dagli Stati Uniti nel luglio/agosto 2007, si è poi estesa all’Europa e all’Asia fino al duro scossone dato al sistema finanziario internazionale nell’ottobre di quest’anno. E non ha ancora finito di provocare conseguenze negative, tanto più che i primi seri problemi sull’economia produttiva hanno cominciato a crearsi dal luglio di quest’anno. Tutti gli esperti borghesi hanno cominciato infatti a registrare la temuta – per loro – recessione economica, ossia il decremento della produzione in generale e della produzione industriale in particolare.

A differenza delle precedenti crisi, l’attuale è caratterizzata da un decorso lento, ma inesorabile. Guardando soltanto gli ultimi vent’anni: il crac del 1987 ha fatto il giro del mondo in una sola giornata, e in modo accelerato si sono sviluppate crisi anche meno gravi  come quelle  dovute allo scoppio della bolla Tecnologica e Informatica del 2001, o quelle della borsa di Mosca e dei «dragoni asiatici» della fine degli anni ’90.

E’ indiscutibile l’importanza di Wall Street per la finanza internazionale, perciò non può sorprendere che una crisi che scoppia a New York si ripercuota in tutti gli altri paesi; ma non tutte le crisi di Borsa si sono diffuse a grande velocità e non tutte automaticamente in tutto il mondo: negli anni ’80-‘90 vi sono stati episodi rimasti confinati negli Stati Uniti, come nel caso della profonda crisi delle Casse di Risparmio (Savings & Loans) sotto la presidenza Reagan, crisi non superata ma riapparsa dieci anni dopo; o nel caso del crollo nel 1998 di un importante Hedge Fund , il Long Term Capital Management, che provocò un vivissimo allarme tra i banchieri americani che temettero lo smembramento del sistema finanziario americano e internazionale dati gli ingenti capitali movimentati dal LTCM a quel tempo senza precedenti (nell’ordine del Prodotto Nazionale di paesi come l’Italia o la Francia).

La lentezza con cui si è sviluppata la crisi finanziaria attuale è facilmente descritta da questa serie di fatti: la prima scossa negli Usa, luglio/agosto 2007, con la famosa bolla dei mutui subprime inesigibili, si è trasmessa ai fondi di investimento dei capitali presi in prestito (hedge funds) che avevano piazzato nelle banche di mezzo mondo i titoli legati ai subprime, cosa che ha interessato le borse di tutte le maggiori capitali mondiali, e con ciò allargando la crisi al di fuori degli Usa; la seconda grossa scossa arriva nel novembre 2007 con il fallimento della banca inglese Northern Rock (primo panico bancario in Gran Bretagna da 80 anni!), cui seguono terremoti bancari in Germania; all’inizio di quest’anno, vi è una forte caduta delle borse mondiali in contemporanea alle forti perdite della francese Société Général, mentre tra febbraio e marzo fallisce l’americana Bear Stern per arrivare poi quest’estate al fallimento della banca di investimento americana Lehman Brothers e al salvataggio sul filo di lana della Merryl Linch. In tutte le diverse «tappe» di questa crisi, sia le banche centrali che i governi hanno continuato ad intervenire in modi diversi per limitarne l’estensione e la profondità; nessuna soluzione è servita, però, a bloccarne lo sviluppo, ne ha comunque ritardato ed ammortizzato gli effetti immediatamente più catastrofici sull’economia produttiva (la famosa economia reale) per un anno intero e ancora oggi la recessione resta comunque relativamente contenuta.

Da settembre/ottobre, si assiste ad interventi statali senza precedenti per la loro importanza e per la loro ripetitività, negli Stati Uniti (che registrano in ottobre il sedicesimo fallimento di una banca, la Alfa Bank della Georgia),  in Gran Bretagna, in Irlanda, in Olanda, Belgio e Lussemburgo, in Francia e in Germania. Come è sempre successo, ai fautori dell’intervento dello Stato fanno da contralto rappresentanti del mondo finanziario internazionale, talvolta anche per bocca dei governanti, che hanno continuato ad opporsi all’entrata dello Stato nelle banche, in nome della libera imprenditorialità e del mercato; molti commentatori ed «esperti» hanno perfino gridato alla «fine del capitalismo», dell’«economia di mercato» annunciando la necessità di una «rifondazione del capitalismo»; riemerge in questo modo, da parte di tutti i protagonisti della crisi, la «domanda» di regole più ferme e decise, che evitino quella sfrenata deregulation che, a sentir loro, sarebbe stata la causa dell’attuale crisi. Ma questi rimedi non sono serviti nelle grandi crisi precedenti (e non solo nel 1929, ma anche nel 1975 e nel 1987), e non serviranno nemmeno oggi poiché la causa delle crisi capitalistiche non è da cercare nella cupidigia dei capitalisti dell’alta finanza, o di regole non rispettate o non fatte rispettare dalle istituzioni preposte: la causa delle crisi è il capitalismo stesso, l’iperfolle produzione per il mercato, la spinta storica inesorabile del capitale ad autovalorizzarsi.

Il panico che ha colpito tutti i capitalisti del mondo è provocato dal fatto che il crac di grandi istituti bancari e finanziari  ha generato una sfiducia persistente tra le stesse banche, le quali hanno a tal punto appesantito le condizioni di concessione reciproca dei  prestiti che si è innescata una profonda crisi di liquidità: di denaro ne circola molto ma molto meno di prima e gli stessi patrimoni degli istituti di credito vanno perdendo drasticamente il loro valore precedente. Se il capitale non si valorizza, muore. La profondità della crisi attuale è dimostrata, inoltre, dal fatto che le grandi banche in difficoltà sono troppo grandi perché gli Stati le lascino fallire, ma troppo grandi anche per gli Stati che le dovrebbero salvare. Molti grossi gruppi bancari hanno un giro d’affari che supera di gran lunga il Prodotto interno lordo di molti paesi, il che fa capire che gli interventi che fa lo Stato per entrare nelle banche, aumentando il proprio indebitamento, in realtà va letto a rovescio: sono le banche che entrano nello Stato, il quale, forte della massima centralizzazione delle risorse nazionali, agisce e agirà in difesa sempre più marcata ed evidente della rete di interessi espressa dai più potenti gruppi bancari e industriali.

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2. Gli effetti gravi di questa crisi, in realtà, non si sono ancora fatti evidenti del tutto, non solo perché essa non ha ancora aggredito potentemente l’economia reale (la recessione calcolata per i grandi paesi occidentali per il 2008 non supererebbe la media dello 0,3-0,5%, mentre quella prevista per il prossimo 2009 sarebbe intorno all’1-1,5%), ma anche perché le dosi massicce di capitali che ogni Stato ha usato e userà per sostenere la vitalità capitalistica di tutto il sistema finanziario internazionale si vanno a sommare su organismi già provati e logorati da trent’anni di «economia del debito» che ha dato, sì, un beneficio all’economia generale,facendo oltretutto marciare a pieno ritmo la produzione dei paesi emergenti come Cina, India, Brasile e la stessa Russia, ma ha aggravato inevitabilmente le condizioni di crescita economica dei paesi di più vecchio capitalismo come gli Stati Uniti, i paesi dell’Europa occidentale e il Giappone.

Il «panico da 1929» che assale i capitalisti ad ogni grave crisi del loro sistema di produzione e della loro organizzazione sociale capitalistica, ha motivi ben materiali. Non va mai dimenticato che le crisi capitalistiche nell’epoca dell’imperialismo, ossia nell’epoca del predominio del monopolio e del capitale finanziario sull’intera società, sono tutte crisi di sovrapproduzione; è la sovrapproduzione  che mette in crisi tutto il mercato, sia il mercato dei mezzi di produzione che il mercato dei beni di consumo che il mercato dei capitali (1). La crisi finanziaria non è la bolla speculativa in sé, è la manifestazione, sul piano del credito e della valorizzazione del capitale, di una crisi di sovrapproduzione; la sua gravità è dovuta al grado di saturazione dei mercati e alla diminuzione drastica della produzione: se non si vendono le merci prodotte queste non vengono trasformate in valore, il capitale in esse contenuto non si valorizza: tutta la circolazione del capitale negli ambiti finanziari non può generare autovalorizzazione di capitale se non basandosi sull’aumento continuo della produzione di merci, e quindi di capitali, attraverso lo sfruttamento sempre più intenso e allargato della forza lavoro salariata. Il capitalismo può svilupparsi senza entrare nella fase della sovrapproduzione? No, perché la sovrapproduzione è generata dalla spinta inesorabile alla continua e folle produzione di merci nella piena anarchia del mercato, merci che devono essere trasformate in denaro in un vortice perpetuo: ad una produzione di merci teoricamente infinita corrisponde un mercato praticamente limitato.

La crisi del 1929-1932 è stata caratterizzata da diversi fattori la cui gravità e concomitanza segnarono la profondità di una crisi giustamente considerata storica: drastica diminuzione della produzione industriale (- 44% nel periodo, -17,5% annua), enorme disoccupazione (-23,5% nel periodo, -8% annua), consistente deflazione, con i prezzi alla produzione che cedono del 12% medio annuo, abbattimento notevole dei salari con una diminuzione del 56% del salario medio settimanale nell’industria e prezzi al consumo anch’essi diminuiti, ma meno dei salari (-28%), e crollo dei profitti con un abbattimento medio annuo del 37,5%. Riassumendo: la crisi catastrofica di sovrapproduzione è definita da questa tipologia e concomitanza di fattori. Fattori che hanno portato poi alla crisi di guerra nella quale le maggiori potenze economiche del mondo si sono scontrate al fine di una diversa spartizione del mercato.

Rispetto alla crisi del 1929-32, la crisi attuale ha caratteristiche molto diverse: se dal punto di vista strettamente borsistico non v’è dubbio che l’attuale crisi finanziaria è molto più grave di quella del 1929, non è così per tutti gli altri fattori; produzione industriale in decremento molto più leggero (dati luglio/agosto 2008): dal –1,5% degli Usa al –3,2% dell’Italia per arrivare al –6,9% del Giappone); disoccupazione in aumento ma non sensibile anche se i dati ufficiali sulla disoccupazione vanno sempre presi con le pinze (6,1% negli Usa, 7,5% nella zona euro, 4,2% in Giappone; i profitti delle imprese americane si sono abbassati, ma non più del 3,8% nel secondo trimestre 2008 (a ritmo annuale); i salari medi saranno sicuramente abbassati e in modo importante, ma tale abbattimento non supererà il 10-11%.  Ciò non significa che le condizioni generali dell’economia e della vita delle masse proletarie non siano decisamente peggiorate; significa che la combinazione dei fattori decisivi di una crisi catastrofica e che tende alla guerra guerreggiata non si è ancora formata.

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3. Nell’epoca dell’imperialismo è il capitale finanziario che, in ogni paese, domina la società e che guida l’attività economica legata alla produzione e alla distribuzione. Il capitale finanziario è la massima espressione del corso di sviluppo del modo di produzione capitalistico: il capitale e la sua autovalorizzazione sono punto di partenza e punto d’arrivo, movente e fine della produzione (Marx, Il Capitale). La produzione è solo produzione per il capitale, la cui composizione organica è formata da capitale fisso, il lavoro morto (edifici, macchinari, materie prime, terra) e capitale variabile, il lavoro vivo (salari). Nel capitalismo il lavoro morto schiaccia e soffoca il lavoro vivo: il capitale e la sua valorizzazione vengono prima di ogni altra cosa. Nel corso storico del suo sviluppo e della formazione del mercato mondiale, il capitalismo genera sovrapproduzione di merci e di capitali: il mercato non riesce più ad assorbire tutte le merci prodotte e tutti i capitali disponibili, ed entra in crisi provocando distruzione di merci e di capitali; le aziende entrano in crisi, falliscono,  aumenta la disoccupazione operaia. Mentre la ricchezza si accumula e aumenta dalla parte delle classi borghesi possidenti, dalla parte delle classi lavoratrici si accumula e aumenta la miseria: la teoria marxista della miseria crescente viene confermata ad ogni crisi capitalistica. Se si guarda il mondo intero, non si può non notare che le classi dominanti dei paesi più ricchi vivono sulle spalle delle classi lavoratrici non solo dei propri paesi ricchi, ma di tutti i paesi più poveri. La crisi finanziaria, d’altra parte, colpisce l’economia produttiva, l’economia cosiddetta «reale» che dipende sempre più dal credito, il che trasforma l’attuale crisi in vera e propria crisi sociale generale che si prospetta di lunga durata. L’ampiezza e la gravità di questo processo di crisi sono determinate dal livello di sovrapproduzione capitalistica raggiunto e dal livello dei contrasti accumulati nel tempo fra i più grandi centri imperialistici del mondo. Direttamente o indirettamente, tutti i paesi del mondo ne vengono colpiti, nessuno escluso. Gli stessi economisti borghesi dichiarano che l’attuale crisi finanziaria decreta la «disfatta del mercato», l’«implosione» del sistema finanziario internazionale: e hanno ragione, ma non dal punto di vista del capitalismo, ma dal punto di vista marxista, loro malgrado. Il mercato non è mai stato realmente l’equilibratore delle contraddizioni capitalistiche; la concorrenza non è mai stata solo la molla del progresso capitalistico, ma anche il veicolo della crisi. Per quante regole le classi borghesi cerchino di mettere al mercato, alla concorrenza, alle contraddizioni congenite al modo di produzione capitalistico, nelle fasi di maggior sviluppo e quindi maggiori contrasti è lo stesso mercato che le fa saltare ingenerando una deregulation che non è altro che la più ampia libertà da parte dei grossi centri finanziari e imperialisti di forzare e condizionare il corso economico e finanziario del mondo intero al fine di accrescere in maniera esponenziale l’autovalorizzazione del capitale. Ma questo processo inevitabilmente incontra degli ostacoli che sono costituiti dallo stesso modo di produzione capitalistico e dal suo stesso sviluppo economico e finanziario: la sovrapproduzione di merci e di capitali inceppa il processo di autovalorizzazione del capitale, che entra inesorabilmente in crisi.

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4. L’intervento dello Stato, voluto dalla classe dominante borghese di ogni paese, è chiamato a riparare i danni finanziari ed economici prodotti nel tempo, ed è attuato ad esclusivo vantaggio della stessa classe dominante borghese. Le risorse statali servono prima di tutto a salvare le banche, templi del moderno credito e del moderno strozzinaggio, poi le grandi industrie e a seguire, ma con le briciole che restano, le medie e piccole imprese. All’ultimo posto, da sempre, si trova il proletariato al quale è invece riservato un costante peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Lo Stato, incamerando i debiti delle banche e degli istituti finanziari collassati, li distribuisce così su tutta la popolazione che per la stragrande maggioranza è costituita da proletari, indebitandosi esso stesso in funzione di queste operazioni di salvataggio e, nello stesso tempo,  indebitando le future generazioni di proletari all’unico scopo di far riprendere a pieno ritmo la produzione di capitale e la sua autovalorizzazione. Nell’attuale crisi finanziaria globale, lo Stato centrale degli USA è intervenuto come raramente aveva fatto nella sua storia (ad esempio nel 1929): ora una cospicua parte dei miliardi di dollari che ha stanziato per tamponare la crisi viene indirizzata verso la nazionalizzazione o la seminazionalizzazione dei maggiori gruppi bancari americani: aveva cominciato a marzo di quest’anno con la copertura dei debiti della Bear Stearns, per continuare a luglio con i due giganti del mutuo immobiliare Fannie Mae e Freddie Mac, e poi con la più grande assicurazione del mondo, la AIG. Ma l’«ottobre nero» delle Borse ha spinto gli Usa a seguire le politiche nazionalizzatrici già sperimentate più volte in Inghilterra e in Europa, cosa che è stata accolta sebbene a denti stretti da tutti i paesi europei in cerca di tutelare ognuno per sé i propri interessi nazionali. Il che dimostra, una volta di più, che la tendenza alla concentrazione e alla centralizzazione statale dell’economia e della finanza, anticipata, lo scorso secolo, negli anni Venti dal fascismo italiano e negli anni Trenta dal più perfezionista nazismo tedesco, è una tendenza storica irreversibile del capitalismo e del suo sviluppo. D’altra parte, lo stalinismo in Russia e la politica del partito comunista cinese in Cina, hanno seguito esattamente lo stesso solco al fine di accelerare i propri processi di sviluppo capitalistico nelle due grandi aree geostoriche. La nostra corrente di Sinistra comunista aveva visto giusto già negli anni Venti e, ancor meglio, alla fine del secondo conflitto mondiale, quando si previde che la democrazia post-bellica non avrebbe avuto più alcuna somiglianza con la democrazia liberale anteguerra ma sarebbe stata caratterizzata da un sempre più accentuato totalitarismo economico e finanziario coperto da una veste democratica al fine di ingannare per altri decenni il proletariato di tutto il mondo. E, purtroppo, finora, questo disegno è riuscito.

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5. La crisi capitalistica sollecita i grandi gruppi finanziari del mondo, e quindi gli Stati che li difendono, a concordare azioni atte a scongiurare il crac del sistema finanziario mondiale, e a combattere la sfiducia dilagante non solo tra gli investitori abituali che speculano nelle Borse di tutto il mondo, ma anche tra i risparmiatori comuni che sono quelli che portano nelle casse delle banche il tanto agognato «denaro fresco». Le istituzioni sopranazionali, gli incontri ai vertici tra grandi manager della finanza, tra governatori delle banche centrali, tra ministri e governanti dei maggiori paesi imperialisti, sono serviti e servono a coordinare gli interventi sul mercato finanziario affinché il denaro continui a scorrere nella rete bancaria internazionale. La crisi, anche se grave come l’attuale e e che gli stessi borghesi non sanno  quanto durerà, viene comunque considerata dai borghesi un «incidente di percorso», più grave di altri, ma un «incidente» al quale porre rimedio con robuste iniezioni di soldi statali e di fiducia presso gli investitori; ma, per quanto globale e seria, questa crisi non ha il potere di cambiare indirizzo al capitalismo che resta sempre produzione e riproduzione di capitale. La ricerca di soluzioni per superare la crisi, per quanto concordate ai massimi livelli politici, economici e finanziari tra le maggiori potenze imperialiste del mondo, non produrrà se non una tregua, più o meno breve, tra questa crisi e la crisi successiva, come d’altra parte succede sistematicamente nel capitalismo: 1929-32 (la Grande Depressione), 1939-45 (la seconda guerra imperialistica mondiale), 1973-75 (la grande crisi petrolifera ed economica mondiale), 1981, 1987-89, 1991, 2001 (le crisi delle borse e conseguenti crisi economiche), 2007-2008 (i crac finanziari attuali e una latente ma inesorabile recessione economica). Al di là dei richiami alla calma, le grida: «non fatevi prendere dal panico», la rassicurazione da parte di tutti i governanti (di «destra» e di «sinistra») nel garantire gli interventi statali per far riprendere fiducia ai mercati finanziari, gli stessi borghesi dichiarano apertamente che questa crisi sarà lunga ed avrà effetti molto gravi sulla vita della stragrande maggioranza della popolazione. Lacrime, sacrifici e sangue saranno all’ordine del giorno, per i borghesi che perderanno i loro  capitali privati a vantaggio di altri borghesi, e per la stragrande maggioranza del proletariato di ogni paese stritolato da debiti che non può più pagare, da salari che a mala pena arrivano a metà mese, da una precarietà progressiva  e da un aumento della disoccupazione!

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6. Con il cinismo tipico che caratterizza la classe  borghese, in tempo di crisi del suo sistema economico e finanziario essa pretende dal proletariato un aumento generalizzato dei sacrifici; sacrifici che intende ottenere attraverso  diversi mezzi: rialzo del costo generale della vita, abbattimento del potere d’acquisto del salario e abbattimento degli stessi salari, aumento del tempo di lavoro giornaliero per operaio, crescente intensità del lavoro, aumento della produttività in ogni singola frazione del processo lavorativo. Tutto ciò produrrà un’ulteriore allargamento  dell’insicurezza del lavoro e della vita, aumento della concorrenza tra proletari, aumento degli infortuni e delle morti sui posti di lavoro, aumento delle discriminazioni tra proletari in senso sia razzista che sessista. L’occasione della crisi e il contemporaneo annichilimento del proletariato sul fronte della capacità di reazione al continuo peggioramento delle sue condizioni di vita e di lavoro, facilitano alla borghesia l’adozione di misure antiproletarie in tutti i campi, economico e sociale (dalla scuola alla sanità  ai servizi pubblici in genere, dai rapporti con i sindacati ai metodi negoziali e alle formule contrattuali, il tutto condito con un pressante oscurantismo culturale e religioso). Il futuro del capitale toglie futuro al proletariato!

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7. Per esperienza di dominio politico e sociale la borghesia sa, però, che il proletariato non sopporta tacitamente e indefinitamente la crescente pressione sulle sue condizioni di vita e di lavoro. Essa prevede che il proletariato si mobiliterà e che può esplodere in episodi di vera violenza sociale; perciò, assieme all’aumentato dispotismo di fabbrica e al sempre più diffuso dispotismo sociale, la borghesia continuerà ad adottare, anche se in quantità e qualità molto più dimensionate rispetto ai periodi di espansione economica, una serie di ammortizzatori sociali coi quali tacitare i bisogni se non di tutta la classe operaia, almeno di una sua parte (e ciò contribuirà a dividere ancor più i proletari tra di loro), ed utilizzerà come veicoli di consenso e di pace sociale i partiti e le organizzazioni sindacali del riformismo, le organizzazioni del volontariato e le strutture religiose,  sempre pronte a deviare l’indignazione e la reazione proletaria verso attività che tendono a sedare le tensioni accumulate e ad offrire alla voracità del capitale un proletariato succube dei pregiudizi piccoloborghesi e ripiegato su se stesso. Ma la borghesia dominante è sempre pronta a «cambiare cavallo» nella misura in cui i partiti e i sindacati tradizionalmente opportunisti non saranno più in grado di piegare – come hanno fatto finora – i proletari alle diverse e oscillanti esigenze di Sua Maestà il Capitale.

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8. La profondità della crisi evidenzia una pesante caduta tendenziale del saggio di profitto, contro la quale la borghesia ha a disposizione soltanto un’arma per lei decisiva: aumentare il tasso di estorsione di plusvalore dal lavoro salariato. Ciò che il proletariato si deve aspettare, quindi, è un aumento della pressione capitalistica sulla sua vita quotidiana e sul posto di lavoro: mentre peggiorano sempre più le condizioni di lavoro e di vita, aumentano le condizioni di precarietà e di insicurezza di vita dei proletari. Lavoro nero, lavoro precario, disoccupazione, bassi salari, intimidazioni, vessazioni e soprusi sono sempre più all’ordine del giorno! Aumenterà ancor più la concorrenza fra proletari, veicolata dal ricatto del posto di lavoro e del salario, prodotta dalla prepotenza borghese verso i settori più deboli del proletariato come le donne, i fanciulli, gli immigrati, e verso i proletari disorganizzati. Aumenterà anche l’isolamento dei proletari, generato dalla criminale politica opportunista che fa dipendere qualsiasi rivendicazione operaia dalle «compatibilità» con le esigenze aziendali o nazionali del padronato. I proletari dei paesi più ricchi hanno finora goduto, anche se in parte inconsapevolmente, dello sfruttamento bestiale con il quale le proprie ricche e grasse borghesie hanno depredato interi continenti, schiacciando centinaia di milioni di proletari dei paesi capitalisticamente sottosviluppati; grazie ai giganteschi profitti accumulati da questo sfruttamento delle risorse naturali e umane del mondo, le classi borghesi dei paesi imperialisti hanno potuto foraggiare quel sistema di ammortizzatori sociali che ha costituito una solida base materiale del consenso sociale e dell’asservimento proletario al capitalismo. I proletari dei paesi più ricchi hanno il compito, prima di ogni altro proletariato, di rompere completamente con la politica conciliatoria e collaborazionista alla quale li ha abituati il riformismo e il collaborazionismo dei sindacati e dei partiti tricolore: questa è la condizione indispensabile perché i proletari riconoscano una prospettiva storica che appartiene alla loro classe, una prospettiva storica nella quale la lotta di classe ridiventi il centro di ogni attività di difesa economica immediata e di iniziativa politica indipendenti.

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9. Dopo decenni di espansione di sviluppo capitalistico post-guerra mondiale, dopo che altri grandi e popolosi paesi, come Cina, India, Brasile e la stessa Russia post-implosione del 1989-91, hanno accelerato uno sviluppo capitalistico interno sì da costituire oggi non solo mercati molto ambiti dai vecchi paesi imperialisti, ma anche loro ancore di salvataggio finanziario; dopo che le vecchie potenze del capitalismo europeo hanno costituito una sorta di stretta alleanza economico-politica nell’Unione Europea per far fronte alla concorrenza sia di quella che è ancora la  più grande potenza imperialistica del mondo – gli Stati Uniti d’America – sia delle più giovani e aggressive potenze emergenti  - una per tutte, la Cina –, le classi dominanti borghesi stanno affrontando da almeno vent’anni un periodo di crisi che non potrà terminare – se il processo di crisi capitalistica non verrà interrotto dalla crisi sociale e rivoluzionaria – che  con lo scoppio della terza guerra mondiale. I proletari dei paesi ricchi, oggi, stanno cominciando a percepire che il futuro prossimo non sarà di benessere, che non si tornerà ad un più alto tenore di vita; stanno cominciando a percepire che il loro destino assomiglia sempre più a quello delle centinaia di milioni di diseredati, contadini e proletari che fuggono dai paesi della periferia dell’imperialismo (disastrati dalle guerre, dalle carestie, dalla miseria e dalla fame perenni) per cercare nei paesi ricchi una possibilità di sopravvivenza, anche a costo di morire affogati nelle traversate dei mari, asfissiati nei camion o affamati e assetati nell’attraversamento dei deserti. I proletari dei paesi ricchi stanno perdendo sistematicamente tutta una serie di vantaggi e di cosiddette «garanzie» che le democrazie occidentali avevano assicurato loro dopo la vantata vittoria militare sul nazifascismo; quei vantaggi, quelle garanzie, sono stati il prezzo che la borghesia ha pagato per corrompere a lungo le grandi masse proletarie in Occidente, ma è stato un prezzo pagato col sangue dei proletari di tutto il mondo, nelle guerre mondiali come nelle paci imperialiste, nelle guerre locali come nella sempre più accesa lotta di concorrenza capitalistica: ai milioni di proletari morti nel secondo macello imperialistico mondiale si aggiungono i milioni e milioni di proletari morti nelle guerre locali, nelle carestie, nelle repressioni, nelle fughe dalla povertà

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10. Il futuro che il capitalismo imperialistico offre al proletariato è un sistematico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro; e non sarà un periodo breve, bensì un lungo periodo di sofferenze e di orrori, come d’altra parte lo è già stato per popoli interi in Africa, nel Vicino, Medio ed Estremo Oriente, in America Latina. Finora le classi borghesi dominanti dei paesi più forti hanno seguito un metodo pianificatore dell’economia che ha loro restituito un vantaggio enorme sul proletariato. «Il nuovo metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica – si legge nel testo di partito Forza violenza dittatura nella lotta di classe, del 1946 –costituendo, rispetto all’illimitato liberismo classico del passato ormai tramontato, una forma di autolimitazione del capitalismo, conduce a livellare intorno ad una media l’estorsione di plusvalore». Questa forma di autolimitazione del capitalismo non ha avuto per effetto un minor accumulo di profitti capitalistici e una maggiorazione dei salari operai; se da un lato ha teso a temperare le punte massime e più acute dello sfruttamento padronale sviluppando, nel contempo, le forme di materiale assistenza sociale (il famoso welfare), dall’altro lato ha consentito alla borghesia di ogni paese, e soprattutto dei paesi più ricchi, di rapinare e depredare a man bassa ogni possibile ricchezza in ogni parte del mondo, finanziando una parte di quelle forme di materiale assistenza sociale (gli ammortizzatori sociali) per i «propri» proletari con lo sfruttamento più brutale dei proletariati dei paesi della periferia del capitalismo sviluppato. L’opulenza dei paesi occidentali ha costituito sempre un illusorio traguardo anche per i proletari dei paesi periferici dell’imperialismo, che già negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso hanno incominciato a dirigersi in masse sempre più numerose verso gli Usa e l’Europa. Gli ammortizzatori sociali non venivano però estesi alle masse di proletari immigrati, i quali si accontentavano anche di un salario considerato di fame dai proletari europei o americani, ma che, se confrontato con la miseria nera da cui provenivano, appariva come un «privilegio»: la concorrenza tra proletari dei paesi ricchi e proletari dei paesi poveri, che in precedenza si attuava a distanze anche notevoli, si avvicinava sempre di più fino ad agire spalla a spalla negli stessi cantieri, nelle stesse fabbriche, nelle stesse strade, nelle stesse metropoli del capitalismo sviluppato. Più aumentava la concorrenza fra proletari, più diminuiva l’autolimitazione del capitalismo nell’estorsione media di plusvalore, a dimostrazione del fatto che la borghesia sa anche affrontare e gestire le punte più acute dello sfruttamento proletario, ma, non costituendo il proletariato nel suo comportamento quotidiano e di lungo periodo un effettivo pericolo per il potere borghese, la borghesia toglie i freni che ha messo a se stessa e si lancia senza più alcuno scrupolo verso la ricerca spasmodica del profitto facile, magari virtuale, come è successo in questi ultimi quindici anni di finanza completamente «sregolata».

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11. Dopo la guerra, e nel periodo di espansione capitalistica, il fine comune alle classi borghesi dominanti era quello di permettere che ogni borghesia nazionale, a seconda della propria forza e del proprio peso uscito dal macello e dalle distruzioni della guerra, potesse accaparrarsi una fetta della ricchezza prodotta mondialmente contribuendo così allo sviluppo generale del capitalismo. Con la spartizione in zone di influenza, passata col nome di «condominio russo-americano sul mondo», e tenendo fermi i due poli centrali della conservazione borghese internazionale: gli Stati Uniti d’America e la Russia con le rispettive zone, o «imperi», d’influenza, insieme ai paesi da essi dominati e controllati ma anche sovvenzionati nella loro ripresa economica postbellica, le classi borghesi dominanti hanno potuto riavviare le rispettive macchine produttive in un crescendo ancora più marcato che nel periodo prebellico. Germania e Giappone ne sono stati un esempio lampante, insieme all’Italia e perfino ad un nuovo Stato imposto nell’area strategica mediorientale come Israele, relativamente alla zona d’influenza diretta degli USA; Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria, insieme alla stessa Cina, sono stati altri esempi, relativamente alla zona d’influenza diretta dell’URSS. Per tutto il periodo postbellico, che andrà fino alla prima grande crisi generale postbellica del capitalismo mondiale del 1973-75, il nuovo metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica con forme di autolimitazione del capitalismo nell’estorsione di plusvalore funzionò perfettamente, di qua e di là della cosiddetta «cortina di ferro», pur con le debite differenze dovute alla effettiva capacità di produrre e riprodurre capitale. Ma quella crisi generale del capitalismo mondiale segnò uno spartiacque: il periodo di forte espansione economica era terminato, e iniziava un periodo di crisi sempre più vicine fra di loro in cui aumentava sempre più il numero dei paesi coinvolti simultaneamente. Ed è contemporaneo l’attacco delle classi borghesi dominanti ai miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro che il proletariato aveva ottenuto nel periodo precedente anche con le proprie lotte, attacco non episodico, ma sistematico che si concretizzerà con l’eliminazione, lenta ma inesorabile, di tutta una serie di vantaggi e «garanzie» che gli ammortizzatori sociali adottati in precedenza avevano assicurato per la vita quotidiana della stragrande maggioranza della forza lavoro salariata. L’opera dell’opportunismo sindacale e politico cambiò di segno, ma non di direzione: da propugnatore di rivendicazioni operaie sempre assolutamente compatibili con le esigenze del capitale, a gestore delle esigenze del capitale cui assolutamente piegare le rivendicazioni operaie. Una buona parte dei miglioramenti salariali e sociali ottenuti negli anni della curva ascendete dell’espansione economica capitalistica fu progressivamente demolita negli anni della curva discendente dell’economia capitalistica; ed è un processo ancora in corso nei paesi capitalistici sviluppati. Oggi, i paesi ricchi dell’imperialismo capitalista non si trovano ancora alla fine del precipizio, ma ci si stanno avvicinando. La crisi recessiva dell’economia dei grandi paesi capitalisti su cui si è aggiunta la tremenda crisi finanziaria che ancora non ha finito di produrre i suoi effetti devastanti, sta coinvolgendo sempre più anche le più forti economie dei paesi detti emergenti, di Cina, Russia, India, Brasile; il progressivo assalto della sovrapproduzione capitalistica che inizia a farsi strada anche in queste economie emergenti finirà per togliere ai vecchi paesi imperialisti quella specie di scorta d’ossigeno che esse rappresentano da un quindicennio per le asfittiche economie occidentali. Le guerre commerciali e finanziarie fra i colossi imperialisti del mondo punteggiano ogni giornata passata sotto il capitalismo, e presto o tardi si trasformeranno in ulteriori guerre guerreggiate: non perché il presidente americano, l’imperatore giapponese, il nuovo zar russo o il prossimo kaiser tedesco «scelgono» di attaccare la tale o tal’altra coalizione imperialista considerata nemica, ma perché il mercato mondiale, cui si rivolgono genuflettendosi con fede assoluta tutti i capitalisti del mondo, è e sarà sempre più talmente saturo di merci e di capitali che l’unica soluzione per la borghesia è la più grande distruzione di quelle merci e capitali in sovrappiù, per poter far posto a nuovi cicli di produzione e riproduzione di capitale, come in un girone infernale senza fine. La guerra imperialista, soprattutto se mondiale, – ma non è oggi ancora all’orizzonte vicino – ha  il compito di ringiovanire il capitalismo eliminando le montagne di rifiuti del mercato che sono stati accumulati nel tempo, come fosse un gigantesco inceneritore. Ma la guerra non è fatta dalle macchine, ma dagli uomini ed è il proletariato che è destinato ad essere incenerito assieme alla massa di strumenti di produzione e di merci che hanno saturato il mercato mondiale. Le classi dominanti borghesi mandano i proletari al macello nelle loro guerre per rimettere in moto la produzione di profitto capitalistico; tutte le motivazioni ideologiche, patriottiche, razziali, religiose che la borghesia ha sempre utilizzato per giustificare i macelli di guerra non sono che colossali inganni appositamente costruiti per mobilitare le grandi masse proletarie a proprio vantaggio. In questo modo i proletari vengono sconfitti due volte: prima. sul terreno dei rapporti capitalistici di produzione nei quali il proletariato, pur essendo oppresso nella schiavitù del lavoro salariato, appare come fosse un libero prestatore di forza lavoro da vendere nel mercato del lavoro; poi, sul terreno dei rapporti politici tra le classi nei quali il proletariato, pur essendo la classe storicamente antagonista per eccellenza della classe borghese, appare come la classe più interessata a difendere gli interessi nazionali e i confini della patria. Tutte le forze sociali e politiche che contribuiscono al mantenimento di questi inganni, e soprattutto se si fanno passare per socialiste o comuniste, rappresentano un serio e permanente ostacolo alla lotta per l’emancipazione del proletariato dal capitalismo. 

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12. Il proletariato mondiale sta scontando decenni di nefasta influenza opportunista da parte di tutte le organizzazioni che lottavano originariamente in nome della difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, dei suoi diritti e delle sue prospettive storiche di classe, ma che, avendo ceduto alla corruzione da parte della borghesia dominante, hanno tradito la causa proletaria sia sul piano della lotta di difesa immediata che su quello più ampio e decisivo della lotta politica per la conquista del potere. La lotta di classe proletaria che le stesse contraddizioni della società borghese sprigionano dalle sue viscere, non può fare a meno della più ampia organizzazione in associazioni economiche di difesa in cui le grandi masse proletarie si riconoscano; queste organizzazioni, se influenzate e dirette dal partito proletario di classe, rappresentano un reale pericolo per la classe borghese dominante e per la tenuta del suo potere politico, ed è per questo che le classi borghesi hanno sempre tentato di corromperle e attirarle a sé, trasformandole da «cinghia di trasmissione» della lotta rivoluzionaria condotta e guidata dal partito proletario di classe in «cinghia di trasmissione» dell’interclassismo e della collaborazione fra le classi. Il grande ostacolo immediato che il proletariato si trova sul suo cammino nella ripresa della lotta di classe è costituito proprio da queste organizzazioni a carattere sindacale e politico che agiscono nel quadro delle compatibilità con le esigenze dell’economia capitalistica e della conciliazione fra gli interessi borghesi e gli interessi proletari. I partiti politici del proletariato, che si propongono tendenzialmente una finalità ben più ampia e storica che non le lotte di difesa immediata, nel tempo hanno avuto un andamento simile: cedendo alla corruzione borghese, sul piano economico come su quello politico e ideologico, si sono trasformati nei veicoli più insidiosi e perversi della controrivoluzione, contribuendo anche con l’azione diretta di Stato, come nella controrivoluzione russa degli anni Venti del secolo scorso, a respingere il proletariato nel generale disorientamento rendendolo facile preda dei pregiudizi individualisti, nazionalisti, razzisti e religiosi caratteristici delle classi borghesi e piccolo borghesi.

Solo in alcuni particolari svolti storici, come nel 1848 proletario ed  europeo, nel 1871 della Comune di Parigi e, soprattutto, all’epoca dell’Ottobre rosso 1917, il proletariato sollevò la testa e affrontò la lotta di classe e rivoluzionaria contro la borghesia fino in fondo, fino alla vittoria o alla sconfitta. La storia ha decretato che quei particolari svolti storici dovessero segnare, alla fin fine, una sconfitta. Ma da ogni sconfitta il partito di classe del proletariato, anche se spesso ridotto a poche unità, ha saputo trarre potenti lezioni storiche che sono servite e serviranno alle lotte di oggi e di domani. Per quanto invincibile appaia la classe borghese dominante nonostante le sue crisi economiche e finanziarie e le tremende guerre guerreggiate che devastano ciclicamente l’intero pianeta, e per quanto insormontabili appaiano gli ostacoli rappresentati dai sindacati tricolore e dai partiti operai borghesi, il proletariato ritroverà la strada della ripresa della sua lotta di classe perché le contraddizioni, i fattori di crisi economica sociale e politica, le sempre più  drammatiche conseguenze della civiltà del capitale, non faranno che dimostrare l’impossibilità da parte del capitalismo, e quindi delle classi borghesi dominanti, di risolvere definitivamente le crisi sempre più acute della società presente.

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13. Il proletariato ritroverà la forza di lottare sul terreno dell’aperto antagonismo di classe con la borghesia perché accetterà il fatto che la difesa dei propri interessi immediati, e futuri, non è più possibile sul terreno della pace sociale, del consenso sociale, della conciliazione degli interessi borghesi e proletari; perché accetterà il fatto che alla borghesia capitalistica non basta sfruttare al massimo la forza lavoro salariata sotto ogni cielo, ma la deve mobilitare nelle proprie guerre di concorrenza e di spartizione del mercato mondiale; perché accetterà il fatto che le organizzazioni che si dichiarano operaie ma professano la fede nella democrazia borghese e la pratica nella collaborazione di classe, sono organizzazioni che hanno il compito di sabotare la lotta operaia, di imprigionare la spinta alla lotta e al suo allargamento ai più ampi strati proletari  nelle maglie delle leggi borghesi e costituzionali e nel rispetto dell’ordine costituito. La lotta antagonista che la borghesia conduce senza mai soluzione di continuità contro gli interessi del proletariato non si fa incanalare dalle leggi e dai mille cavilli che la stessa borghesia emana e propugna; essa si svolge nella legalità e nell’illegalità, come dimostrano gli incidenti e le morti sul lavoro, la diffusione di potenti cosche malavitose alle quali è di fatto delegato il compito di controllare una parte consistente del proletariato, la diffusione di ogni tipo di droga a partire dalle fasce d’età giovani e giovanissime, alla corruzione capillare inerente qualsiasi attività e movimento sul piano commerciale, industriale, bancario o politico. I marxisti non credono nel potere soprannaturale della sofferenza umana, nella «presa di coscienza» da parte delle grandi masse proletarie della bontà della prospettiva del comunismo grazie alla quale muovere la lotta contro il capitalismo e la classe borghese che ne rappresenta il baluardo sociale e politico. I marxisti sostengono che gli antagonismi di classe, nello sviluppo stesso delle contraddizioni della società capitalistica, sono destinati materialmente, fisicamente, a far scontrare le gigantesche forze sociali che esprimono quegli antagonismi; nello scontro fra proletariato e borghesia, dunque, alla fin fine vince la classe portatrice della effettiva emancipazione storica dall’oppressione di classe, la classe del proletariato, appunto, che nella società capitalistica non ha nulla da difendere e tutto da perdere. Il corso storico dello sviluppo delle società umane dimostra che lo sbocco di questo sviluppo materiale non è mai stato lineare, puramente e gradualmente progressivo: è un corso di sviluppo tremendamente accidentato, di avanzate e rinculi, di grandi conquiste e di dolorosissime sconfitte, ma alla fine del ciclo di sviluppo della produzione per la sopravvivenza della società umana il cambiamento radicale e profondo del modo di produzione si impone oggettivamente e dialetticamente. Il proletariato, in quanto classe produttrice della ricchezza sociale e in quanto classe portatrice della prospettiva storica della società senza classi, nella quale gli antagonismi fra le classi saranno completamente superati per far posto allo sviluppo armonico della società di specie, è la sola classe storicamente rivoluzionaria dell’età moderna, l’unica in grado di prendersi in carico la lotta di emancipazione da ogni oppressione e da ogni sfruttamento che libererà la specie umana dai vincoli della proprietà privata e dell’appropriazione privata delle ricchezze sociali. Di questo vero e proprio compito storico non ne sono coscienti i singoli individui proletari, ma il partito di classe rivoluzionario, il partito comunista che rappresenta fin dal suo Manifesto del 1848, nell’oggi capitalistico, la lotta rivoluzionaria per l’emancipazione futura del proletariato e, insieme con lui, di tutto il genere umano, da ogni oppressione classista.

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14. Il proletariato ha dimostrato nella storia passata, nel 1848, nel 1871, nel 1917, di essere l’unica classe rivoluzionaria della società moderna: l’unica classe ad esprimere, con la sua lotta contro le vecchie classi feudali e aristocratiche e la nuova classe dominante borghese, una prospettiva storica che superi ogni formazione sociale divisa in classi. Il marxismo è la teoria rivoluzionaria del movimento storico del  proletariato, ed è fondamento irrinunciabile del partito comunista intransigentemente anticapitalista, antiborghese e perciò antidemocratico. Il proletariato ha subito, sta subendo e subirà sempre gli effetti più disastrosi delle crisi capitalistiche, che avvengano nel campo della produzione, del commercio o della finanza. Finché esso sarà costretto a restare nella posizione di classe per il capitale, ossia nella posizione di classe salariata sottoposta al dominio incontrastato socialmente e politicamente della borghesia, il proletariato non avrà alcuna possibilità di lottare con successo per la propria emancipazione né sul terreno della difesa immediata né, tanto  meno, sul terreno della lotta politica e rivoluzionaria. Finché il proletariato sarà influenzato, organizzato, diretto e inquadrato dalle forze della conservazione borghese e del collaborazionismo interclassista, esso non avrà alcuna possibilità di ottenere un reale e duraturo miglioramento delle sue condizioni di vita e di lavoro, miglioramento che talvolta si è concretizzato in termini economici e sociali – nei periodi di espansione capitalistica – ma al prezzo di gettare alle ortiche ogni ambizione di emancipazione dal lavoro salariato.

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15. Le crisi dell’economia capitalistica hanno segnato sistematicamente una serie di tappe nel peggioramento delle condizioni proletarie, una crescente cancellazione da parte della borghesia delle concessioni fatte in periodi precedenti e sotto la pressione delle lotte operaie. La borghesia così ha svelato una volta ancora il suo volto più vero, il suo interesse più profondo: togliere alla classe proletaria una parte ulteriore di plusvalore, rendere il dominio sul lavoro salariato ancor più oppressivo, diffondere nella società una maggiore precarietà della vita oltre che del lavoro per aumentare la concorrenza fra i proletari. Le crisi dell’economia capitalistica hanno spinto e spingono la borghesia non solo ad acutizzare lo sfruttamento del lavoro salariato in tutti i paesi per ricavarne il maggior profitto nazionale possibile, ma anche ad allearsi più strettamente in campo internazionale per affrontare le crisi con più forza: le alleanze commerciali, industriali, finanziarie tendono a stringere rapporti politici e militari utili in situazioni di crisi perché i contrasti fra le diverse potenze imperialiste sono destinati ad accentuarsi. Le borghesie dei vari paesi sanno che le crisi economiche e finanziarie portano inevitabilmente, prima o poi, allo scontro militare tra concorrenti, alla guerra guerreggiata; e nessuna borghesia al mondo è in grado di sostenere lo sforzo di guerra senza poter mobilitare, a difesa dei suoi interessi di classe dominante, il proprio proletariato. Ecco perché, in tempo di pace, ogni borghesia nazionale non si limita a preparare se stessa e il proprio Stato alla guerra, ma svolge una lunga e capillare opera di propaganda e di influenzamento ideologico nelle file proletarie, attraverso gli arnesi dell’opportunismo, non disdegnando di abbattere sugli strati proletari più combattivi e ribelli la forza statale della repressione e, sempre più spesso, forze illegali di fiancheggiamento (dalle mafie allo squadrismo politico).

La lotta di classe che la borghesia conduce contro il proletariato è permanente, non ha un attimo di tregua e non si fa frenare da alcuno scrupolo; utilizza ogni possibile leva della conservazione sociale – meglio se «di sinistra» e vestita «da operaio» – per dividere, isolare, demoralizzare i proletari, con lo scopo di intimidire le frange più ribelli e di paralizzare le vaste masse proletarie. E’ già successo nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale, quando le borghesie europee dovettero vedersela con proletariati in piena ascesa rivoluzionaria. Le lezioni tratte dalle borghesie politicamente più avanzate dell’epoca consistettero nella triplice azione di massima repressione delle forze d’avanguardia del proletariato e in particolare delle forze rivoluzionarie (la legalità democratica unita all’illegalità squadristica), di massima centralizzazione del potere politico, ed economico, nelle mani dello Stato (il fascismo col partito unico, sindacato unico e obbligatorio), di massima dotazione di strumenti sociali per tacitare i bisogni delle classi lavoratrici e smorzarne la spinta alla lotta di classe (gli ammortizzatori sociali). Tale lezione si trasferirà, dopo la vittoria militare delle «plutocrazie democratiche» contro il «nazifascismo» nel secondo macello imperialistico mondiale, dal metodo fascista di governo al metodo democratico di governo. Gli Stati democratici adotteranno da quell’epoca la sostanza del metodo fascista di governo, la sostanza sia totalitaria e repressiva che riformistica, ma la vestiranno di parlamentarismo democratico per continuare ad ingannare le classi lavoratrici deviandone le materiali spinte alla lotta classista dal terreno dell’aperto scontro fra classi antagoniste al terreno del parlamentarismo, della conciliazione interclassista, del collaborazionismo con lo Stato borghese e le sue istituzioni. In questo processo di vera e propria integrazione nello Stato borghese delle organizzazioni un tempo proletarie, le forze dell’opportunismo socialdemocratico passarono la mano alle forze dello stalinismo che, tradendo gli obiettivi, i metodi e i mezzi del movimento comunista internazionale degli anni Venti del secolo scorso, aprirono la strada alla vittoria della più feroce controrivoluzione della storia.

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16. Gli effetti drammaticamente negativi di questa vittoria controrivoluzionaria della borghesia, il proletariato, sia dei paesi imperialisti più potenti che dei paesi della periferia dell’imperialismo, li sta pagando tutti ancor oggi. La distruzione del partito rivoluzionario del proletariato, a partire dal partito bolscevico di Lenin, passando attraverso l’annientamento del partito comunista di Germania, d’Italia e, infine, di Cina, ha dimostrato una verità storica ineccepibile: il proletariato, senza la guida ferrea e intransigente del suo partito di classe, per quanta forza possa esprimere in potenza d’urto sociale e in eroismo nel suo «assalto al cielo», è destinato alla sicura sconfitta. E tale sconfitta è tanto più profonda, quanto più il suo assalto al potere borghese è stato vicino alla vittoria definitiva. La borghesia non ha mai avuto scrupoli umanitari, non ha mai concesso «l’onore delle armi» al proletariato sconfitto: ai trentamila comunardi di Parigi nel 1871, massacrati sistematicamente nella storica settimana di sangue dalle truppe del macellaio Thiers, hanno fatto eco centinaia di migliaia di proletari massacrati in tutti i tentativi rivoluzionari nei decenni successivi, come nel 1905 e 1917 russi, nel 1918-19 tedesco, nel 1919 ungherese, nel 1927 cinese, per non parlare dei milioni di proletari mandati al macello nelle guerre per la spartizione del mercato mondiale che le borghesie dei paesi più forti si fanno sistematicamente da quasi cent’anni. Il partito rivoluzionario del proletariato è l’unica vera forza storica di classe, indipendente, in grado di collegare la futura emancipazione del proletariato dal capitalismo al glorioso passato della lotta proletaria in tutti i suoi tentativi rivoluzionari: il partito rivoluzionario del proletariato rappresenta nell’oggi il futuro della classe del proletariato, il futuro della sua rivoluzione anticapitalistica, l’unica che potrà emancipare l’intera umanità dal giogo dell’oppressione capitalistica, del suo modo di produzione, della sua violenza sistematica anche se velata dalla maschera democratica.

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17. Le crisi cicliche del capitalismo, economiche e finanziarie, sono l’anticipazione della crisi più profonda e sistemica della struttura generale del capitalismo; la reazione delle forze borghesi di ogni paese a queste crisi porta inevitabilmente ad una maggiore centralizzazione del potere politico, oltre che economico (intervento dello Stato nell’economia) e ad un maggiore dispotismo sociale aggravando le condizioni già peggiorate del proletariato di ogni paese. Il proletariato, sebbene intossicato da decenni dalle politiche e dalle pratiche del collaborazionismo sindacale e politico, resta comunque l’unica forza positiva della produzione capitalistica, l’unica forza che produce ricchezza senza poterla possedere, l’unica forza sociale dallo sfruttamento della quale la classe borghese estorce sistematicamente plusvalore.

Per quanto la borghesia possa fare per impedire al proletariato di ritrovare la sua strada di lotta sul terreno dello scontro di classe, per quanto lo devii attraverso le molteplici forze dell’opportunismo, per quanto lo reprima nell’oppressione più violenta, lo immiserisca, lo macelli nelle sue guerre di rapina, non può eliminarlo dal suo sistema produttivo, non può farne a meno perché è l’unica forza sociale che, applicata al capitale,  produce i profitti capitalistici. La borghesia, come è condannata a produrre e riprodurre capitale, valorizzandolo in quantità sempre maggiori, così è condannata ad utilizzare la forza lavoro rappresentata dal proletariato salariato senza la quale non potrebbe nemmeno esistere il sistema capitalistico di produzione e l’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta.

«La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani dei privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, viene tolto di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili.» (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista).

L’analisi storica descritta nel Manifesto del 1848 è stata continuamente confermata dalle vicende che hanno caratterizzate tutte le fasi storiche attraversate dal capitalismo nel suo sviluppo. Ed è proprio perché lo sviluppo della grande industria tende a far superare «l’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza tra di loro», che le borghesie di tutto il mondo investono grandi quantità di risorse per mantenere e aumentare la concorrenza fra i proletari, l’unica condizione materiale fondamentale per lo sfruttamento sistematico del lavoro salariato. Gli operai, dunque, nella loro lotta d’emancipazione dal capitalismo, devono mettere al centro dei propri obiettivi la lotta sistematica contro la concorrenza fra di loro. Ed è questa lotta che favorisce l’associazione rivoluzionaria dei proletaria al di sopra delle differenze di categorie, settori, sesso, età, nazionalità. E’ questa lotta che rafforza l’unificazione dei proletari sulla base della loro condizione economica e sociale comune, di lavoratori salariati, al di sopra dei confini statali e al di là del livello di progresso economico e di civiltà borghese raggiunto nei rispettivi paesi.

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18. Le lotte che i proletari hanno condotto nei decenni seguiti alla disfatta della rivoluzione comunista in Russia e nel mondo, sono state condizionate ideologicamente dalla teoria della «costruzione del socialismo in un solo paese», politicamente dal tradimento di tutti i partiti dell’Internazionale Comunista vendutisi alla conservazione sociale di ogni borghesia nazionale, economicamente dall’asservimento ancor più forte al capitale e quindi al lavoro salariato, sindacalmente dal cedimento generale alle istanze delle compatibilità e delle esigenze dell’economia e della politica borghesi. Nonostante la tremenda cappa opportunista sotto la quale il proletariato è stato tenuto in tutti questi decenni, la lotta di classe, la spinta genuina della lotta anticapitalistica, sebbene episodicamente, è comunque emersa in superficie attraverso le lotte contro il carovita degli anni Quaranta/Cinquanta, le rivolte a Berlino nel 1953 e a Budapest nel 1956, le lotte operaie contro l’aumento dello sfruttamento in fabbrica degli anni Sessanta/Settanta nell’Europa occidentale come nell’Europa orientale, i grandi movimenti negli anni Ottanta dei portuali in Polonia, dei minatori in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Russia, i primi grandi scioperi in Brasile, in India a cavallo tra gli anni Novanta e l’inizio di questo secolo.

Ai movimenti proletari dei paesi capitalistici avanzati e dei paesi cosiddetti emergenti, si accompagnarono, per tutto il periodo che dalla fine della seconda guerra imperialistica mondiale va fino a metà degli anni Settanta, i moti di liberazione nazionale da parte dei popoli coloniali. Movimenti proletari dei paesi industrializzati e movimenti anticoloniali nei paesi del mondo non ancora industrializzato, che avrebbero potuto rappresentare la ripresa della lotta di classe rivoluzionaria nel mondo se avessero potuto contare sulla guida sicura e ferma del partito comunista mondiale, cosa che la vittoria della controrivoluzione stalinista non permise, rimandando in là nel tempo l’appuntamento con la rivoluzione proletaria e comunista. Tutti i paesi del mondo, ormai, sono legati uno all’altro dalla stessa sorte, molto più di quanto già non fossero all’epoca in cui Marx ed Engels scrissero il Manifesto del partito comunista, annunciando la storicamente necessaria rivoluzione comunista col famoso grido di battaglia: Proletari di tutti i paesi, unitevi! Unitevi per la rivoluzione anticapitalistica, non per la difesa del capitalismo! La crisi finanziaria ed economica attuale, come del resto quelle che l’hanno preceduta, dimostrano ampiamente che il mondo è uno solo, in cui il capitalismo domina sotto ogni cielo e attraverso classi dominanti organizzate politicamente anche in modo molto differente le une dalle altre, ma sempre sostanzialmente borghesi, che si tratti del Pc cinese o del presidente americano, del cancelliere dello scacchiere inglese, dell’oligarchia russa o degli sceicchi arabi.

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19. Paradossalmente, più le classi borghesi dominanti nei diversi paesi hanno tentato di rafforzare i propri confini nazionali, alzando barriere e muri di ogni tipo, più lo sviluppo della grande industria e della grande finanza li hanno di fatto abbattuti; ai movimenti internazionali delle merci e dei capitali corrisponde un movimento altrettanto internazionale dei proletari di tutti i paesi. L’esportazione delle merci e dei capitali ha lo scopo di conquistare mercati combattendo la concorrenza delle merci e dei capitali già presenti in quei mercati; l’emigrazione dei proletari, soprattutto dai paesi poco industrializzati verso i paesi capitalisticamente più avanzati, ha per scopo la sopravvivenza di vita: non è un movimento di «conquista», è un movimento di «difesa» della sopravvivenza, è espressione della grande debolezza del proletariato mondiale costretto ad impiegare tutte le sue forze per cercare i mezzi per sopravvivere, combattendo gli effetti dello sviluppo del capitalismo e non la causa della loro oppressione, della loro miseria, della loro condizione di semplici strumenti di produzione di capitale. La causa di tutto questo è il capitalismo stesso, e non vi sarà mai una soluzione a queste condizioni di moderni schiavi se non si lotterà e si vincerà contro la classe borghese dominante che detiene il potere politico, economico e militare grazie al quale il modo di produzione capitalistico viene difeso e mantenuto in vita.

L’emigrazione forzata di proletari dai diversi paesi può essere trasformata da debolezza in forza alla sola condizione di associare i proletari immigrati con i proletari nativi nella stessa lotta, nella stessa difesa delle condizioni di vita e di lavoro che accomuna gli uni e gli altri: gli infortuni sul lavoro e le morti sul lavoro colpiscono indifferentemente gli uni e gli altri, immigrati e nativi. Infortuni sul lavoro e morti sul lavoro sono effetti dell’organizzazione capitalistica del lavoro salariato, contro i quali i proletari possono lottare con efficacia solo se si uniscono nella stessa lotta, nella stessa comune difesa dagli effetti dell’organizzazione capitalistica del lavoro salariato. Allo stesso modo, i proletari immigrati e nativi possono affrontare tutte le questioni riguardanti la loro condizione sociale: dal salario alla giornata lavorativa, dagli straordinari alla malattia, dal lavoro notturno ai lavori usuranti, al lavoro nero, alla pensione. Il nodo centrale, come d’altra parte ricordato nel Manifesto di Marx-Engels, è la concorrenza degli operai tra di loro: o la si combatte, e allora i proletari si uniscono per organizzare la lotta su questo terreno, o la si accetta, e allora ci si consegna mani e piedi legati allo sfruttamento capitalistico più bestiale favorendo l’isolamento di ogni proletario da tutti gli altri, che è poi la situazione migliore in assoluto per il dominio padronale e borghese non solo nelle aziende, ma nella società intera

 

Dalla  crisi  finanziaria  ed  economica  attuale, il  proletariato  deve  trarre lezioni  importanti

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20. La classe dominante borghese ha interessi completamente antagonisti agli interessi del proletariato, in ogni paese, in ogni periodo, in pace o in guerra.

La classe dominante borghese scarica sulle spalle del proletariato il massimo peso delle sue crisi, siano esse commerciali, industriali, finanziarie, politiche o militari, in termini di abbattimento dei salari, intensificazione dello sfruttamento del lavoro salariato, aumento della disoccupazione e della miseria generale delle classi lavoratrici fino al macello dei proletariati nelle guerre borghesi.

La classe dominante borghese tende costantemente a dividere il proletariato attraverso la concorrenza degli operai fra di loro, pressione questa che aumenta nella misura in cui la crisi capitalistica è più vasta e profonda.

La classe dominante borghese di ogni paese si prepara ad affrontare periodi di crisi molto più acute, crisi di guerra guerreggiata tra le maggiori potenze imperialistiche del mondo, allo scopo di partecipare alla nuova spartizione del mercato mondiale, e in questa prospettiva rafforza il processo di centralizzazione e di concentrazione che già è in atto nei paesi a capitalismo sviluppato. Lo Stato borghese diventa sempre più il perno decisivo del rafforzamento del potere borghese nei confronti delle tensioni sociali che le crisi capitalistiche provocano e, nello stesso tempo, nei confronti degli Stati borghesi concorrenti sul mercato mondiale in vista di alleanze di guerra che non necessariamente corrispondono alle esistenti alleanze commerciali, economiche o politiche in tempo di pace.

La classe dominante borghese aumenta il proprio dispotismo sociale e la propria pressione su tutti gli strati sociali della società al fine di incanalare tutte le risorse nazionali verso la difesa prioritaria del capitalismo nazionale e dei suoi profitti, anche a costo di schiacciare gli interessi di alcune frazioni borghesi o della piccola borghesia.

La classe dominante borghese tende ad adottare tutti gli strumenti di dominio che ha a disposizione, su tutti i terreni, economico, politico, sociale, militare; tende nello stesso tempo a rafforzare la propaganda atta ad irreggimentare il proletariato sul fronte della difesa nazionale, della patria, della famiglia, della chiesa, dunque aumentando gli interventi che tendono a dividere i proletari che condividono gli interessi aziendali e gli interessi nazionali dai proletari che quegli interessi vogliono combattere per difendere i propri interessi di classe. Aumenterà quindi il sostegno economico e politico a tutte le forme di  divisione tra proletari nativi e proletari stranieri, tra istruiti e non istruiti, tra uomini e donne, tra giovani e anziani, tra specializzati e generici, tra coloro che si dimostrano ligi e obbedienti alle leggi e alla volontà del comando padronale e coloro che vi si oppongono, tra violenti e pacifici, tra militari e civili e così via.

La classe dominante borghese diventerà sempre meno tollerante verso la sua stessa pratica democratica che, in realtà,  le complica burocraticamente ogni attività sul piano sociale ed economico come su quello della repressione di ogni attività di contrasto e di opposizione. Il totalitarismo tipico della società capitalistica più avanzata sarà coperto da un velo sempre più sottile di democrazia e di diritti costituzionali, come previsto fin dagli anni Venti del secolo scorso dalla Sinistra comunista italiana.

La classe dominante borghese continuerà a sostenere le forze dell’opportunismo operaio in quanto l’esperienza di dominio ha dimostrato che queste forze sono indispensabili alla conservazione sociale borghese, nei diversi periodi in cui i metodi di governo borghese possono cambiare da democratico ad apertamente dittatoriale, sia chiamando al governo direttamente le forze della vecchia socialdemocrazia, dello stalinismo o del post-stalinismo, del radicalismo di sinistra sia chiamando al governo le forze della conservazione più apertamente reazionaria o militaresca. Il ruolo dell’opportunismo operaio nella società capitalista non scompare; potrà anche essere colpito da lenta erosione, ma alla bisogna rinascerà sotto altre vesti come è già successo nei periodi che hanno preceduto la prima guerra imperialistica mondiale nelle forme della socialdemocrazia classica e del massimalismo riformista, nel periodo immediatamente successivo alla vittoria rivoluzionaria comunista in Russia nel 1917 nelle forme dello stalinismo e del centrismo burocratico, nel periodo che accompagnò e seguì la seconda guerra imperialistica mondiale nelle forme di un partigianismo demopopolare e del nazionalcomunismo fino ad oggi in cui queste forme stanno lasciando il campo a rigenerate forme di sindacalismo rivoluzionario e di radicalismo democratico di sinistra, tutte forme assolutamente antiproletarie e anticomuniste.

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21. La classe del proletariato, oggi ancora, è ripiegata su se stessa, nel falso democratismo sindacale e politico sostenuto, propagandato e praticato da forze che hanno ormai dichiaratamente e spudoratamente rinnegato le proprie lontane origini e che hanno abbracciato apertamente la causa della difesa del capitalismo in quanto tale, in quanto modo di produzione e società ad esso corrispondente.

La classe del proletariato, immersa da almeno quattro generazioni nella melma del collaborazionismo interclassista, non è oggi nelle condizioni storiche di riconoscere il terreno sul quale la propria lotta può essere efficace e può sviluppare una solidarietà di classe in grado di superare qualsiasi confine borghese. Essa profonde le sue energie, la sua forza sociale, ad esclusivo vantaggio del dominio capitalistico, rafforzando in questo modo le catene che la legano alla classe borghese dominante e che la costringono a subire ogni genere di sopruso, di vessazione, di sfruttamento.

La classe del proletariato dei paesi capitalistici più ricchi subisce ancora gli effetti ammortizzatori della lotta classista dovuti a lunghi decenni di gestione demofascista delle «garanzie» economiche e sociali che la sopra ricordata «autolimitazione capitalistica nell’estorsione del plusvalore» dal lavoro salariato ha permesso alle borghesie imperialiste più forti. Le crisi finanziarie ed economiche succedutesi dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, mentre hanno ridotto i proletariati dei paesi della periferia dell’imperialismo in condizioni miserrime e alla fame, innestando fenomeni di fortissima emigrazione da quei paesi a costo anche della vita, cominciano ora a colpire in modo più brutale una parte del proletariato dei paesi più industrializzati rendendo le loro condizioni di sopravvivenza sempre più simili alle condizioni di sopravvivenza dei proletari dei paesi più poveri.

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22. Il proletariato ha interessi di classe inconciliabili con quelli delle classi borghesi e piccolo-borghesi; inconciliabili perché la difesa degli interessi borghesi può essere attuata soltanto colpendo sempre più in profondità gli interessi del proletariato, ossia gli interessi legati alla difesa delle condizioni di vita e di lavoro della forza lavoro salariata. Difendere gli interessi immediati e futuri della classe proletaria significa perciò riconoscere l’antagonismo fra proletariato e borghesia, riconoscere che il terreno su cui proletariato e borghesia difendono i propri distinti e inconciliabili interessi è un terreno di scontro, un terreno di scontro fra le classi, di guerra di classe.

La classe del proletariato fonda la sua lotta di difesa immediata sugli stessi principi della lotta che svolge la borghesia in difesa dei suoi interessi di classe: associazione comune sulla base di una piattaforma di lotta condivisa, riconoscimento dell’uso anche della forza nelle azioni di difesa di classe, solidarietà di classe – se la sopravvivenza in quanto classe è messa in serio pericolo - fra gli appartenenti a tutte le categorie, i settori, le nazionalità anche al di là delle idee politiche o religiose che ogni singolo si porta appresso. Per i borghesi questi principi vengono declinati sia nelle organizzazioni padronali private che nello Stato centrale il quale, con le sue leggi, le sue istituzioni e le sue forze militari, funziona come Comitato di difesa degli interessi immediati e generali della classe borghese. Per i proletari questi principi vengono declinati nell’associazionismo operaio, il più vasto possibile, caratterizzato da attitudini, atteggiamenti e piani di lotta che rispondano esclusivamente agli interessi proletari. La prima difesa della lotta operaia sta proprio nel pretendere che gli obiettivi, i mezzi e i metodi della lotta rispondano esclusivamente agli interessi proletari, ad interessi che accomunano i proletari in quanto tali e si oppongono agli interessi borghesi in quanto tali.

La classe del proletariato, finché non riconquista il terreno dell’aperta lotta di classe, sarà inesorabilmente ostaggio della classe borghese e dei suoi sgherri politici e sindacali che infestano le sue file. Saranno le stesse contraddizioni economiche e sociali del capitalismo, che le crisi inevitabilmente acutizzano, a spingere oggettivamente gruppi e frazioni del proletariato a rompere i vincoli di compatibilità con le esigenze borghesi che li tengono avvinti alla sorte del capitalismo; saranno le stesse contraddizioni economiche e sociali della società borghese, e il precipitare del proletariato a condizioni di sopravvivenza intollerabili, a spingere gruppi e frazioni del proletariato ad organizzare la propria lotta al di fuori e contro gli apparati del collaborazionismo interclassista.  La riorganizzazione classista proletaria passerà attraverso dolorose spaccature all’interno stesso del proletariato, poiché la conquista del terreno della lotta di classe sarà grandemente osteggiata da tutte le forze dell’opportunismo operaio – che temono di perdere i loro privilegi, le loro prebende e il loro prestigio sociale – e dalle forze borghesi di conservazione sociale – che vedrebbero sfuggire al loro controllo la classe che sola può contrastarne il dominio sociale fino a distruggerlo.

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23. La classe del proletariato può storicamente raggiungere, in presenza di condizioni favorevoli di sviluppo della lotta classista, un livello di potente opposizione al potere borghese, ma non potrà mai porsi come classe rivoluzionaria se non attraverso la direzione del suo movimento di classe da parte del partito comunista rivoluzionario. E, data la catastrofica distruzione di ogni tradizione di classe nella lotta anche di più elementare difesa immediata da parte delle forze controrivoluzionarie dell’opportunismo operaio, la riorganizzazione classista del proletariato sullo stesso terreno immediato può avvenire e avverrà grazie all’intervento di militanti d’avanguardia della lotta di classe, e in specie da parte dei militanti del partito comunista intransigentemente marxista che si svilupperà nel corso dello stesso sviluppo della lotta di classe proletaria..

La classe del proletariato, con il pretesto della crisi finanziaria ed economica attuale, verrà ancor più sottoposta ad un fuoco di fila delle forze dell’opportunismo affinché si carichi di ulteriori sacrifici perché il capitalismo possa superare questo «grave e lungo periodo di difficoltà». Sacrifici veri, in termini di tagli salariali, di crescente precarizzazione del lavoro e disoccupazione prolungata, contro vaghe promesse di recupero di un tenore di vita che non si recupererà più se non per gli strati più alti e limitati del proletariato, quell’aristocrazia operaia che è sempre stato il  veicolo più insidioso dell’ideologia borghese nelle file del proletariato.

Ma la classe del proletariato troverà la forza di rompere la pace sociale, di spezzare i legami con i quali il collaborazionismo interclassista lo paralizza, di rompere con le molteplici forze della corruzione democratica borghese, perché saranno le stesse forze materiali dello sviluppo delle contraddizioni capitalistiche che spingeranno le masse proletarie a lottare per non morire di fatica, di fame, di repressione, di guerra. Questa straordinaria e potente forza oggi ancora nascosta nelle viscere della società, come il magma vulcanico troverà la spinta esplosiva che la farà riemergere e che inonderà il mondo intero.  Allora sarà più chiaro anche al proletariato in lotta per la vita o per la morte, che il suo movimento di classe dovrà essere guidato e diretto da un organo specifico – il partito di classe rivoluzionario – esclusivamente dedicato alla preparazione rivoluzionaria, alla rivoluzione comunista, alla conquista del potere politico, alla distruzione dello Stato borghese e alla instaurazione del nuovo potere proletario per intervenire finalmente sui rapporti di produzione e sociali abolendo i tradizionali rapporti di proprietà borghesi. Il proletariato da classe per il capitale si trasformerà così in classe per sé, da classe sottoposta si trasformerà in classe dominante.

«Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni di esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti», così nel Manifesto del 1848 di Marx ed Engels. Questa è la prospettiva storica per la quale combattono i comunisti, questo è lo sbocco storico nel quale terminerà storicamente e necessariamente la lotta fra le classi. Il partito di classe, il partito comunista, o agisce coerentemente in questa prospettiva, o non è il partito di classe del proletariato.

 


 

(1) Nei lavori di partito abbiamo più volte affrontato il tema delle crisi capitalistiche, ai quali invitiamo i lettori di rifarsi per i necessari approfondimenti, in particolare allo studio intitolato Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx, trattato in molte riunioni generali di partito tra il 1957 e il 1959 e pubblicato nel giornale di partito di allora, «il programma comunista».

Qui può essere utile richiamare una citazione che riassume con una breve conclusione i fattori di crisi del capitalismo secondo la teoria marxista: «Fenomeni salienti di una crisi nel senso classico sono indubbiamente in primo luogo la discesa della produzione e la disoccupazione dei lavoratori. Ma a tale quadro si deve aggiungere quello della discesa dei prezzi di produzione (all’ingrosso), se anche non si avrà forse in avvenire una corrispondente discesa dei prezzi al consumo. Fatti fondamentali che devono precedere la crisi sono l’anarchia delle quotazioni di Borsa (malgrado ogni contromisura statale), il calo dei profitti di capitale, ed il fallimento delle aziende prima minori e poi anche maggiori», in “Sfregio e bestemmia di principi comunisti nella rivelatrice diatriba tra i partiti dei rinnegati, «il programma comunista» n. 13/1958.

 

Partito comunista internazionale

Novembre 2008

www.pcint.org

 

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