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8 marzo: la società borghese festeggia la doppia schiavitù della donna proletaria!

 

Le donne proletarie, per liberarsi dalla doppia schiavitù che subiscono nel capitalismo, devono unirsi ai proletari e lottare insieme, come unica classe, contro la classe borghese per abbatterne il potere politico con il quale essa mantiene l’oppressione salariale sull’intero proletariato e l’oppressione domestica sulla donna!

 

 

Le condizioni sociali del proletariato, nella società capitalistica, sono destinate a peggiorare sempre più e non soltanto a causa delle crisi economiche: l’impianto stesso della società capitalistica si regge sull’oppressione sistematica della classe salariata da parte della classe borghese. Senza sfruttamento del lavoro salariato, il capitale non avrebbe alcuna forza sociale e, quindi, la classe borghese che detiene monopolisticamente il capitale non dominerebbe sull’intera società.

La vita dei proletari dipende dal salario; il salario viene erogato dai capitalisti, o dalle loro istituzioni, contro un tempo di lavoro giornaliero che i capitalisti comprano dai proletari e che pagano il meno possibile perché è da questo tempo di lavoro – o meglio, dal tempo di lavoro non pagato – che i capitalisti estraggono il plusvalore e, quindi, i loro profitti.

I proletari, per vivere, sono obbligati a vendere la loro forza lavoro ai capitalisti tutti i giorni; i capitalisti, per intascare i profitti, devono sfruttare tutti i giorni una data massa di lavoratori salariati che, in questo modo, costituiscono la riserva di lavoro vivo da applicare ai mezzi di produzione al fine di produrre merci. L’oppressione salariale che la classe dei capitalisti esercita sulla classe dei proletari è necessaria, congenita, al modo di produzione capitalistico. I capitalisti, siano infidi, brutali, crudeli, violenti o democratici, pacifisti, paternalisti, non hanno scelta: devono sfruttare i proletari per estorcere il massimo di plusvalore dallo sfruttamento della loro forza lavoro perché solo a questa condizione riescono a far fruttare il proprio capitale; più sfruttano la forza lavoro, più plusvalore estorcono e più profitto accumulano.

Le continue innovazioni tecniche applicate alla produzione capitalistica tendono, da un lato, ad aumentare la produzione di merci nella stessa unità di tempo e, dall’altro lato, a ridurre il numero di salariati necessari per quella data produzione. Ma il modo di produzione capitalistico non consente a nessuna azienda di rallentare il ritmo produttivo, spingendola a ridurre al minimo possibile i costi di produzione e ad aumentare sempre più la massa di merci prodotte a prezzi concorrenziali. La concorrenza tra capitalisti è l’anima del commercio, la produzione di merci a costi più bassi dei concorrenti è il motore dello sviluppo capitalistico. Ma tutto questo non si regge se i capitalisti non riescono a ricavare dallo sfruttamento della forza lavoro il massimo possibile di pluslavoro, ossia del tempo di lavoro giornaliero non pagato.

Il salario tendenzialmente copre i costi di esistenza quotidiana del proletario: mezzi di sussistenza, vestiario ecc.; per coprire questi costi il proletario deve lavorare per il capitalista un certo numero di ore al giorno che corrispondono al tempo di lavoro medio necessario per produrre i mezzi di sussistenza, il vestiario, la casa ecc., tempo di lavoro necessario che, grazie allo sviluppo tecnico della produzione, tende però a diminuire sempre più. E questa è una ragione per la quale i capitalisti tendono ad abbassare i salari. Non solo; mantenendo lo stesso orario di lavoro giornaliero degli anni precedenti, il capitalista ci guadagna comunque perché il tempo di lavoro giornaliero non pagato in proporzione aumenta. Inoltre, aumentando l’orario di lavoro giornaliero, aumentando i turni di lavoro, diminuendo le pause, intensificando il ritmo lavorativo nella stessa unità di tempo, il capitalista ottiene un surplus di tempo di lavoro non pagato. Così lo sfruttamento giornaliero della forza lavoro aumenta a dismisura, mentre contemporaneamente una parte sempre consistente, soprattutto in tempo di crisi economica, degli operai impiegati nella produzione viene gettata sul lastrico.

Nella quota di tempo di lavoro giornaliero non pagato entra in realtà un altro elemento: il lavoro domestico. La famiglia proletaria, anche se costituita solo da due persone senza figli, è un nucleo che vive di salario e, nella stragrande maggioranza dei casi, di un solo salario. Il lavoro domestico, tanto più se in presenza di figli da allevare, pesa normalmente sulle spalle della donna proletaria. Essa, di fatto, nel lavoro domestico, rappresenta una forza lavoro non pagata. Subisce, nella realtà quotidiana, un’oppressione caratteristica di tutte le società divise in classi nei confronti della donna: i piccoli lavori domestici che si svolgono in casa sono faticosi, umilianti, soffocanti, monotoni, snervanti e, in più, non pagati; per la società non hanno “valore” o hanno un valore del tutto inferiore a quello dell’uomo che porta in casa un salario. Ma nella società capitalistica, nella società del progresso civile e dell’eguaglianza, la donna proletaria e i figli adolescenti, una volta strappati dalle campagne e dai lavori sulla terra, sono stati risucchiati nella produzione capitalistica, gettati nelle sue spire a costi notevolmente più bassi dei lavoratori uomini, andando così ad integrare in parte il salario maschile che, soprattutto in tempo di crisi economica, non basta mai alla sopravvivenza del nucleo familiare. La doppia oppressione della donna proletaria consiste proprio in questo: all’oppressione domestica si aggiunge l’oppressione salariale.

Lo sviluppo dell’economia capitalistica, che nei paesi avanzati ha portato la democrazia, il suffragio universale, l’istruzione anche per le donne, il voto alle donne, una certa “libertà” nei costumi ma del tutto esteriore, non ha in realtà scalfito il meccanismo sociale legato all’oppressione della donna in generale, mentre per la donna proletaria il cosiddetto progresso non ha rappresentato se non un surplus di lavoro e di fatica: oltre al lavoro in fabbrica, il lavoro in casa e la cura dei figli!

Le basi materiali della società capitalistica sono costituite dal modo di produzione che ha per finalità l’accumulazione e la valorizzazione del capitale al quale vengono piegate la vita sociale e le risorse naturali. Dunque, la tanto decantata persona, il tanto celebrato individuo, la tanto declamata libertà ed eguaglianza di tutti gli individui, non valgono nulla di fronte a Sua Maestà il Capitale: vali qualcosa, sei degno di considerazione e di rispetto se hai soldi, se hai possibilità di spendere, di comprare, sennò non servi a niente e a nessuno. Si capisce, allora, come la mentalità borghese, infiltratasi nei cervelli degli operai attraverso la fisica e potente pressione economica del capitalismo, possa far pensare al proletario che perde il lavoro di non valere nulla, di non essere più utile a nessuno e in particolare alla propria famiglia, spingendolo nella più cupa depressione fino a togliersi la vita o proiettandolo nella più lacerante frustrazione alla quale reagire con violenza soprattutto verso i componenti di quel nucleo familiare che avrebbe dovuto essere – secondo l’ideologia borghese e il credo religioso – l’unità economica fondamentale e nello stesso tempo il rifugio più sicuro dai mali sociali. E, secondo questa stessa mentalità borghese, con cui l’ideologia dominante  trasmette a tutti gli strati sociali la virtù e la potenza del denaro e della prevaricazione che la conquista del denaro rende “inevitabile” – in una società in cui tutti i meccanismi di vita sociale derivano dall’oppressione della classe dominante sulle classi dominate e, per sovrappiù,  dall’oppressione della donna in quanto tale e della donna proletaria in modo particolare – le azioni di violenza sulle donne tradurrebbero una specie di “diritto naturale” a rovesciare su di esse ogni frustrazione, ogni delusione, ogni sconfitta personale alle quali nessun rimedio appare possibile. La rivolta che dovrebbe spingere i proletari contro il sistema che li obbliga a sopravvivere con fatica e con la costante insicurezza del salario, attraverso la pressione economica e ideologica della borghesia, e con l’aiuto delle forze opportuniste di conservazione sociale che ingannano il proletariato sui suoi interessi reali, è una rivolta che spesso i proletari rivolgono contro se stessi o contro le proprie donne o i propri figli, cosa che potrà cambiare e trasformarsi in forza sociale positiva alla condizione di rompere l’involucro individualista in cui la propaganda borghese tenta di imprigionare ogni proletario e accedere alla collettività di classe nella quale i proletari, uomini o donne che siano, si riconoscano come compagni di lotta e non individui in costante competizione tra di loro.

Per quante leggi la società borghese possa inventarsi e inserire nei propri codici civili e penali, non sparisce l’umiliazione della donna rispetto agli uomini soprattutto per quel che concerne l’aborto e i figli; l’oppressione della donna non terminerà se non quando la società borghese sarà finalmente distrutta e superata. Questa società calpesta inesorabilmente ogni “diritto” che scrive nelle proprie costituzioni, ogni tutela che scrive nei suoi statuti, ogni misura preventiva che inserisce nei suoi regolamenti. Da questo non si deve dedurre che sono inutili le rivendicazioni di determinati “diritti”, ad esempio il diritto al divorzio, il diritto all’aborto, l’eliminazione delle ineguaglianze in materia matrimoniale o rispetto ai figli ecc.; ogni marxista sa, però, che la democrazia non distrugge l’oppressione di classe, e quindi l’oppressione della donna (Lenin), ma la rende più aperta, più evidente, ma sa anche che la democrazia borghese ottunde la mente dei proletari, confondendoli e deviandone l’orientamento di classe, perciò va combattuta senza tregua.

La società che ha reso il valore d’uso di ogni prodotto utile alla vita sociale un valore di scambio, che ha fatto sistematico commercio dei suoi stessi principi rivoluzionari – liberté, égalité, fraternité – che ha reso schiava del lavoro salariato la stragrande maggioranza degli esseri umani che abitano il pianeta e che ha perpetuato, aggravandola, la schiavitù domestica della donna; la società che per salvare il profitto capitalistico non ha alcuno scrupolo nel distruggere sistematicamente l’ambiente in cui viviamo e nel massacrare nelle continue guerre di rapina e nei posti di lavoro, a centinaia di milioni, esseri umani di ogni razza e di ogni continente, è una società irriformabile che deve lasciare il posto ad una società superiore che metterà al centro i bisogni della specie dopo aver cancellato del tutto il sistema capitalistco che mette al centro i bisogni del mercato contro la specie.

  L’emancipazione della specie umana dall’ultima schiavitù di classe passa attraverso l’emancipazione del proletariato dal lavoro salariato e, quindi, dal capitalismo. Tale emancipazione non potrà avvenire che con la più tremenda e profonda rivoluzione di classe e internazionale, unico mezzo storico per abbattere il potere politico della classe dominante borghese e per avviare la trasformazione economica della società utilizzando al meglio i risultati delle innovazioni tecniche applicate alla produzione ed eliminando l’enorme mole di produzione nociva e inutile che il capitalismo, solo per ragioni di profitto, ha eretto sulle spalle del proletariato mondiale; eliminando di converso anche ogni tipo di oppressione esistente nella società capitalistica. In questa lotta, per l’emancipazione proletaria e, quindi, per il futuro della specie, la donna proletaria ha un posto di primissima importanza perché assicura la continuità della specie e perchè il suo contributo alla lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato è decisivo, come lo è stato in tutte le rivoluzioni avvenute finora: la guerra di classe, tra proletariato e borghesia, supera di gran lunga la “guerra dei sessi” elevando la prospettiva storica dal terreno infido e putrescente della società mercificatrice al terreno della società di specie armoniosamente e razionalmente organizzata per la soddisfazione dei bisogni umani e per lo sviluppo della conoscenza senza discriminazioni di sesso, di nazionalità o di razza.

Lottare per l’emancipazione della donna dalla sua condizione di schiavitù domestica e salariale non vuol dire rimettersi alla coscienza delle donne, o dei legislatori, o del personale politico che riempie il parlamento, né vuol dire avvicinarsi a piccoli passi ad una supposta “eguaglianza” di trattamento nei codici civili o penali. La lotta per l’emancipazione della donna è imprescindibile dalla lotta di classe del proletariato: nessun’altra classe può realmente lottare per l’emancipazione dalla doppia oppressione cui è sottoposta la donna nel capitalismo che non sia il proletariato perché è l’unica classe che non ha nulla da difendere in questa società, ma ha tutto un mondo da guadagnare dall’abbattimento del capitalismo per una società senza classi e, quindi, senza oppressione di alcun tipo. Questo è un obiettivo lontano e, oggi, può sembrare un’utopia, come può sembrarlo la rivoluzione proletaria. Ma per la storia non è decisivo quel che pensa una società di se stessa, bensì quel che nel sottosuolo economico sta maturando pur tra le mille contraddizioni che ogni società divisa in classi ha avuto ed ha. E le contraddizioni economiche e sociali del capitalismo, più la classe borghese riesce a protrarre nel tempo la sua morte, invece di diminuire o attenuarsi si concentrano ed accumulano forza dirompente. E’ questo lungo e contraddittorio processo di maturazione delle contraddizioni del capitalismo che genera inevitabilmente lo scontro di classe tra borghesia e proletariato, e in questo scontro la classe proletaria – come già nella Comune di Parigi e nella Rivoluzione d’Ottobre – si alzerà in tutta la sua potenza, esprimendo la più grande e universale forza rivoluzionaria che la storia delle società umane abbia mai conosciuto: tremino le classi dominanti borghesi di fronte alla forza della rivoluzione comunista, perché “con lo sviluppo della grande industria vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848).

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

8 marzo 2012

www.pcint.org

 

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