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La strage di lavoratori salariati non si ferma mai!

La sicurezza sul lavoro? La sicurezza nei trasporti ferroviari?

Per i capitalisti le misure di sicurezza sono “costi” da abbattere il più possibile, mentre i lavoratori rischiano costantemente la vita... e muoiono!

 

 

La strage di lavoratori salariati non si ferma mai!

Negli ultimi dieci anni, dal 2008, sono morti sul lavoro 6.209 lavoratori (escluso il dato relativo ai morti in itinere), ma il totale è più del doppio considerando i lavoratori che hanno perso la vita sulle strade o sui treni nel tragitto da casa al posto di lavoro e ritorno (in itinere, appunto). I dati cui ci riferiamo sono ricavati dall’Osservatorio Indipendente morti sul lavoro (1) che si è costituito a Bologna il 1° gennaio 2008, poco dopo la strage di operai alla ThyssenKrupp di Torino (2), dati molto più affidabili di quelli ufficiali diffusi dall’Inail perché quest’ultimo rileva soltanto gli assicurati Inail e tiene conto soltanto delle denunce ufficiali, non considerando tutti i lavoratori in nero, i precari, la gran parte di lavoratori immigrati, le partite iva individuali, i lavoratori saltuari ecc.

Per l’Inail, nel 2017, le denunce di morti sul lavoro sono state 1029 in tutto, compresi i lavoratori morti sui mezzi di trasporto – 3 morti al giorno – mentre per l’Osservatorio Indipendente i morti sono stati invece 1350. L’Inail, come dicevamo, nelle statistiche ufficiali, considera soltanto i propri assicurati che, in genere, rappresentano circa il 70% delle denunce.

Noi non abbiamo bisogno di dati assolutamente precisi per sapere che il sistema economico capitalistico produce ricchezza per i capitalisti e miseria per i lavoratori salariati e che la ricchezza che i capitalisti accumulano grazie allo sfruttamento sempre più bestiale del lavoro salariato passa attraverso milioni di infortuni, di malattie professionali, di disabilità permanenti e di morti sul lavoro. Ma i dati che si ricavano dalle indagini che determinati istituti o determinate associazioni svolgono in questo campo, come nel campo della disoccupazione, per quanto imprecisi, evidenziano una tendenza, una costante che può essere letta facilmente da tutti. Il funzionamento del sistema economico capitalistico, come non può fare a meno di sfruttare il lavoro vivo per valorizzare il lavoro morto, come non può fare a meno di produrre disoccupati da utilizzare come arma di pressione sugli occupati per limintarne le rivendicazioni, così non può fare a meno di produrre infortuni e morti sul lavoro che sono a loro volta prodotti dalla ricerca spasmodica di aumentare la produttività di ogni singolo lavoratore in modo da avere più chances nella concorrenza sul mercato. Ma questa produttività aumenta non solo grazie alle innovazioni tecniche e tecnologiche apportate ai cicli di produzione e di distribuzione, non solo grazie ad una più efficace ed efficiente organizzazione del lavoro, cose che contribuiscono alla riduzione dei costi di produzione, ma anche grazie ad uno sfruttamento più intenso della forza lavoro applicata ai cicli di produzione e di distribuzione. E questo sfruttamento non si legge soltanto nella diminuzione reale del potere d’acquisto dei salari, ma soprattutto nell’aumento del tempo di lavoro giornaliero non pagato a ciascun lavoratore da cui il capitalista ricava in anticipo il suo profitto, quindi nell’intensità del lavoro, nell’aumento delle ore giornaliere lavorate, nella velocità del tempo di esecuzione di ogni atto lavorativo e nei risparmi su tutto ciò che può essere compreso nella voce “misure di sicurezza” riguardo sia gli edifici e gli ambienti di lavoro (leggi: struttura degli edifici e nocività), sia la prevenzione e i controlli degli impianti, dei macchinari e di tutta l’attrezzatura utilizzata per la produzione e la sua distribuzione e commercializzazione.

La tendenza dal 2008 al 2017 segna un aumento dei morti sul lavoro; prendendo in esame solo i decessi sui luoghi di lavoro, nel 2008 erano 637, nel 2017 sono stati 720 (secondo alcune indagini più di 800). E’ l’agricoltura a presentare, in genere, la percentuale più alta di morti: più del 30% del totale (a causa, per la maggior parte, del rovesciamento dei trattori) seguita dall’edilizia con più del 20% del totale (cadute dai tetti e dalle impalcature), dall’autotrasporto con più del 9% e dall’industria (esclusa l’edilizia) con più dell’8%. Altro dato che spiega ancor meglio la voracità del capitalismo è quello che riguarda l’età dei morti sul lavoro: più del 25% ha superato i 60 anni di età. Lo sfruttamento dei lavoratori non guarda in faccia l’età e, quindi, l’usura dei corpi sottoposti a 40 anni e passa di fatica lavorativa con la inevitabile diminuzione dei riflessi e dell’elasticità fisica e nervosa. Col jobs act, anche quella misura debole e parziale di difesa dei lavoratori che era rappresentata dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è sparita, mettendo ogni lavoratore nelle condizioni di subire ancor più apertamente il ricatto del licenziamento nel caso si opponga a lavorare in condizioni normalmente considerate insicure e pericolose per la sua salute e la sua vita! Il timore di perdere il lavoro, e quindi il salario che serve per sopravvivere, senza un’organizzazione efficace e di classe in difesa non solo del salario ma anche delle condizioni di lavoro, assume così un peso eccezionale e fa accettare ad ogni lavoratore situazioni di insicurezza e di pericolo con una malriposta spavalderia e con quel livello di assoluta incoscienza che pone il singolo ad affidarsi al fato e alla speranza “che non succeda nulla di grave”.

Certo, i lavoratori salariati, più sono in concorrenza tra di loro e più vengono isolati per settore, per azienda, per reparto, e più subiscono i ricatti padronali e sempre più si offrono a condizioni di lavoro e di vita peggiori. Gli infortuni sul lavoro e soprattutto i morti sul lavoro sono raramente figli della fatalità: ogni operaio sa benissimo che gli infortuni sono normalmente figli dello sfruttamento capitalistico sempre più intenso e dell’opera servile e complice delle organizzazioni sindacali tricolori e opportuniste, vero braccio “operaio” al servizio dei capitalisti in mezzo al proletariato. Quel che manca non è la consapevolezza dei pericoli che ogni lavoratore incontra nella sua giornata di lavoro; quel che manca è l’organizzazione di classe in difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie, quell’organizzazione che unisce i lavoratori salariati in quanto tali, in quanto sfruttati dal capitale e non per le loro idee, per il colore della loro pelle o per le loro convinzioni religiose. L’unità che i sindacati tricolori sostengono e propongono è l’insidia più velenosa che esista perché rafforza la collaborazione tra borghesi e proletari, tra classi sociali che in realtà sono congenitamente antagoniste; la lotta per la sicurezza sui posti di lavoro e per la prevenzione che i sindacati tricolori sostengono e propongono è in realtà un mezzo per sfogare, subito dopo la tragica morte di operai durante il lavoro, la rabbia e la reazione spontanea che sorgono tra i compagni di lavoro e tra i familiari delle vittime; rabbia e reazione che vegono immediatamente incanalate nei soliti e impotenti “tavoli” tra “tutte le parti coinvolte” per “discutere” delle “misure di sicurezza da prendere” in futuro! Sono decenni che i lavoratori muoiono e si infortunano nei posti lavoro, e non è cambiato nulla! Si continua ad infortunarsi, si continua a morire, mentre i sindacalisti collaborazionisti chiedono... un tavolo dove sedersi e i capitalisti continuano ad accumulare ricchezze! Le loro mani e il loro sistema economico e sociale grondano di sangue proletario!

 

Il 2018 è iniziato esattamente come gli anni precedenti: nei primi 30 giorni di gennaio di quest’anno i morti sui luoghi di lavoro in Italia sono 55 e almeno altrettanti sono morti in itinere; gli incidenti mortali riguardano tutti i settori, come sempre, dall’agricoltura all’edilizia, dai trasporti  all’industria. Alcune di queste tragedie hanno avuto risonanza nazionale, perché i morti sono più d’uno e perché avvengono nelle grandi città, come i 4 morti alla Lamina di Milano, il 16 gennaio, in seguito alla quale i sindacati confederali hanno proclamato ben... 1 ora di sciopero (!) nelle sole industrie metalmeccaniche di Milano e provincia, chiedendo il solito “tavolo” in Prefettura per discutere delle misure di sicurezza e separando per l’ennesima volta gli operai di un settore da tutti gli altri, come se queste tragedie riguardassero soltanto un settore o un’azienda piuttosto che un’altra e solo una provincia... Soltanto 10 giorni dopo, il 25 gennaio, il treno dei pendolari che collega Cremona a Milano, alle 6.57 del mattino deraglia a Pioltello, alle porte di Milano, alcune carrozze si accartocciano e il risultato finale è, al momento, di tre morti, 47 feriti seriamente ed altri feriti leggeri. Nel frattempo, a Brescia, un giovane diciannovenne viene risucchiato dal tornio presso il quale stava lavorando, un operaio di 58 anni precipita da una parete rocciosa a Cernobbio all'interno del parco del Grand Hotel Villa d'Este, uno degli alberghi più prestigiosi e conosciuti al mondo, e sulla quale stava lavorando per la posa di una rete paramassi; e così in decine e decine di altri casi. E’ una strage che non finisce mai!

 

ALLA LAMINA DI MILANO, SONO MORTI IN 4

 

16 gennaio 2018. Alla Lamina – una fabbrica per il trattamento dei metalli di Milano – due operai scendono nella vasca sotterranea che si trova sotto un forno (una specie di “campana”), utilizzato per scaldare l’acciaio (ma anche il titanio), prima di poterlo lavorare, per sistemare un guasto elettrico, ma perdono immediatamente conoscenza e cadono a terra morendo in pochi istanti; altri due lavoratori, nel tentativo di soccorrerli, scendono anch’essi, ma uno dei due sviene e muore istantaneamente mentre l’altro rimane ancora in vita ma per poco, morendo due giorni dopo essere stato ricoverato in ospedale. La causa della morte? In un primo momento sembra siano state le esalazioni di azoto, ma poi l’autopsia ha rilevato che il gas che li ha uccisi era l’argon, un gas molto più pericoloso dell’azoto, che aveva saturato completamente la fossa provocando un’assenza totale di ossigeno. L’argon viene utilizzato per evitare l’ossidazione quando si scalda il titanio, ma nel momento in cui gli operai sono scesi nella vasca il riscaldamento del metallo non era in funzione, perciò la sua presenza era dovuta ad un guasto che ha causato la sua fuoriuscita. La fossa è dotata di un allarme (che scatta quando la presenza di ossigeno si abbassa oltre una percentuale del 20%), ma quel pomeriggio sembra che nemmeno questo abbia funzionato.

E’ evidente, in ogni caso, che le cause di queste morti non sono dovute ad una fatalità, ma alla mancanza di una adeguata prevenzione e di adeguate misure di sicurezza. E questo è il motivo costante, da sempre, di tutti gli infortuni e di tutte le morti sul lavoro!

Si vanno così ad aggiungere all’interminabile lista dei morti sul lavoro che ogni mese e ogni anno segna un tragico appuntamento che non viene mai cancellato. La Lombardia è la regione più industrializzata d’Italia e non è un caso che le province di Milano, Bergamo e Brescia siano le più colpite dagli infortuni sul lavoro e che abbiano il numero di morti più alto. In Lombardia la classe proletaria produce una ricchezza che pone questa regione, secondo alcune statistiche, tra le prime in Europa; una ricchezza che non passa soltanto attraverso la produzione industriale e agricola, l’innovazione tecnologica, le banche, ma che i lavoratori salariati pagano con gli infortuni e con la morte. Nel 2016, secondo “il Giorno” del 30 gennaio che riporta i dati dell’Inail (e tutti sanno che le denunce che arrivano all’Inail non corrispondono mai alla realtà vera), gli infortuni in questa regione sono stati 116.049, praticamente come nel 2015, mentre i casi mortali sono stati 86, come nel 2014, ma meno che nel 2015, che ne contò 124. Questo calo dei casi mortali non significa, in realtà, che la tendeza sia finalmente invertita: nei primi sette mesi del 2017, sempre secondo l’Inail, i morti sul lavoro in Lombardia sono stati 94, e l’anno non era ancora finito!

Ogni volta che succedono tragedie di questo genere, tutte le istituzioni e tutti i media ricominciano a parlare della “sicurezza sul lavoro”, organizzano “tavoli tecnici operativi” per i quali si mobilitano prefetti, amministratori locali, dirigenti delle diverse Ats (Aziende territoriali sanitarie), rappresentanti degli imprenditori e delle varie organizzazioni sindacali.  E tutti puntano il dito sui “mancati controlli” presso le aziende, lamentando i pochi fondi disponibili, e sulla necessità di una “formazione di una cultura della sicurezza” per imprenditori e lavoratori. Il 22 gennaio, presso la prefettura di Milano, c’è stato uno di questi “tavoli” (Corriere della sera, 23/1/18) e alla fine dell’incontro il segretario della Cisl dichiarava: “Siamo soddisfatti perché tutti i partecipanti hanno condiviso la necessità di dare risposte molto concrete” [che cosa hanno fatto allora in tutti questi anni, di fronte alle innumerevoli tragedie di questo tipo? non sono arrivati nemmeno a condividere la “necessità” di dare risposte concrete?]; il leader della Cgil sottolinea, a sua volta, la “necessità di investire sui giovani a partire dall’alternanza scuola-lavoro” (3) perché gli studenti vanno a lavorare nelle imprese senza “cultura della prevenzione”: ci siamo, ecco la parola magica: cultura della prevenzione! In una società che trasuda da tutti i pori la cultura del lavoro precario, del ricatto occupazionale, dello sfruttamento, dell’insicurezza della vita, del vivere alla giornata, e che dimostra da sempre di considerare la vita dei lavoratori salariati come un accessorio dei meccanismi economici volti al maggior profitto; in una società che trasuda da tutti i pori la cultura dello spreco, del “mors tua vita mea” e che parla di futuro solo in termini di sfruttamento ancor più bestiale mostrando ai giovani dei paesi ricchi – attraverso i campi rom, le baraccopoli, gli sbarchi di moltitudini di esseri umani che cercano di non morire di fame o di guerra – la fine che possono fare se non si sottomettono alle esigenze delle aziende; in una società del genere, in cui il capitale si nutre, da quando esiste, di fiumi di sangue proletario, è possibile attendersi che i suoi difensori affrontino e risolvano i problemi legati alla maggior sicurezza sul lavoro e per il lavoro? No di certo, e non lo diciamo noi, lo dicono le statistiche che gli stessi borghesi tirano fuori ogni anno versando le loro bastarde lacrime di coccodrillo! I borghesi dimostrano sistematicamente la veridicità del loro detto: piangono i morti per fregare i vivi!

I lavoratori diventano sempre più un mezzo che i capitalisti utilizzano per ottenere una produttività maggiore sugli impianti, sui macchinari e su tutto ciò che serve per la trasformazione di materie prime e di semi-lavorati, e per la loro lavorazione, in modo da competere sul mercato con  prodotti di concorrenza. Il prodotto finale da piazzare nel mercato è la cosa più importante per il capitalista; il lavoro umano, la forza-lavoro necessaria per ottenere il prodotto finale, diventa quindi l’accessorio, con la particolarità di essere più flessibile e su cui si possono ridurre i suoi “costi di produzione”. Nei costi di produzione rientrano ovviamente le misure di sicurezza sugli impianti e sui macchinari e le misure di sicurezza per i lavoratori salariati. Il capitalista usa normalmente impianti e macchinari per il tempo più lungo possibile sfruttandone le funzionalità al di là di ogni limite di usura e logoramento; quanto ai lavoratori addetti a quegli impianti e a quei macchinari, il capitalista ragiona esattamente nella stessa maniera sfruttandone al di là di ogni limite la forza di lavoro, ma se perdono agilità e riflessi, se si infortunano o muoiono, il capitalista sa che può pescare a piacimento da una massa abbondante di esseri umani disoccupati che per mangiare è disposta ad accettare condizioni di lavoro anche peggiori: l’azienda prima di tutto!, il “lavoro”, prima di tutto!, dunque il profitto prima di tutto!

Il lavoro, per il capitalista e per il lavoratore salariato non ha lo stesso significato. Per il capitalista, nell’industria, nell’agricoltura, nel commercio o nei servizi, è un modo per valorizzare il suo capitale, e si traduce nello sfruttamento della forza-lavoro salariata da cui estorcere il plusvalore (che il capitalista chiama profitto) organizzandola nella sua azienda. Per il proletario, per il lavoratore salariato, rappresenta la sola condizione di sopravvivenza per sé e per la sua famiglia e, quindi, è nei fatti schiavo di questa condizione: la sua forza-lavoro, in questa società, può essere impiegata soltanto nelle aziende capitalistiche e le condizioni del suo impiego, ossia del suo sfruttamento, sono dettate dai capitalisti che sono proprietari dei mezzi di produzione, dei mezzi di distribuzione e, soprattutto, dei prodotti. Solo con la lotta di resistenza alla pressione dei capitalisti, sul posto di lavoro e nella vita sociale, i proletari possono difendere i propri interessi di salariati e, soprattutto, la propria vita. All’unione di classe dei capitalisti, i proletari devono rispondere con la loro unione di classe sottraendosi al ricatto del “posto di lavoro” e lottando contro la concorrenza tra proletari che i capitalisti hanno tutto l’interesse ad alimentare e potenziare. E uno degli aspetti più insidiosi della sudditanza imposta dai capitalisti agli operai è proprio quello che riguarda non solo la sicurezza del posto di lavoro ma soprattutto la sicurezza sul posto di lavoro.

I risparmi che il capitalista riesce a fare, sia sui salari che sulle misure di sicurezza, gli consentono di intascare anticipatamente un guadagno ulteriore, oltre al plusvalore che estorce quotidianamente sul tempo di lavoro non pagato ad ogni operaio. E’ questo il motivo più profondo per il quale il sistema capitalistico di produzione genera continuamente, insieme alle macchine tecnicamente più moderne e innovative, le condizioni di una sempre maggiore insicurezza nel loro utilizzo; se la maggiore velocità di produzione nella stessa unità di tempo consente all’azienda capitalistica di ottenere una quantità di prodotti sempre più alta e tendenzialmente a costi di produzione inferiori che in precedenza, quella stessa velocità di produzione aumenta tendenzialmente anche la quantità di infortuni e di morti sul lavoro. E le statistiche borghesi, tanto o poco manipolate che siano, lo dimostrano chiaramente.

Finché i proletari si faranno ricattare dal datore di lavoro e per un salario da fame, si troveranno sempre soli contro il padrone dell’azienda, un padrone che però non è mai da solo perché conta su un sistema economico e politico costruito a difesa esclusiva degli interessi capitalistici, ed ogni singolo capitalista può contare sulle leggi, sulle forze dell’ordine e su tutte le istituzioni centrali e locali del potere politico borghese, a partire dallo Stato centrale. L’onnipotenza con cui lo Stato e il potere politico-economico dei capitalisti appaiono agli occhi dei proletari è tanto più spaventosa quanto più i proletari si fanno ridurre a semplici ingranaggi del sistema economico vigente, quanto più i proletari si fanno trasformare in attivi collaboratori con la competitività dell’azienda presso la quale lavorano, quanto più i proletari si fanno stringere nel proprio individuale bisogno di sopravvivenza.

 

SULLA TRATTA BERGAMO-MILANO, IL TRENO DEI PENDOLARI DERAGLIA: 3 MORTI, 47 FERITI

 

Sono le 6.57 del mattino di giovedì 25 gennaio, quando il treno dei pendolari n. 10452, partito da Cremona e inseritosi nella tratta Bergamo-Milano, raggiunge e sorpassa di un paio di chilometri la stazione di Pioltello (alle porte di Milano), per deragliare tragicamente; un paio di carrozze, staccatesi dal convoglio, nel tratto in cui iniziano gli scambi dopo la stazione di Pioltello, si accortocciano sui pali che sostengono la linea elettrica. Tre donne perdono la vita e i feriti ammontano a 47 di cui sembra nessuno in pericolo di vita, almeno al momento in cui scriviamo.

E’ il più grave disastro ferroviario degli ultimi dieci anni in Lombardia, in una regione che primeggia in Italia per pil economico, modernità, sicurezza, sviluppo, ricerca ecc. ecc. La Lombardia, con le province orientali del Piemonte, le province occidentali del Veneto e il Trentino Alto Adige risulta il territorio tra i più frequentati dal pendolarismo ferroviario; un pendolarismo che si aggiunge, ovviamente, a quello stradale. Ma questo disastro era annunciato da tempo. Il 23 luglio dello scorso anno, sulla stessa linea Milano-Bergamo, era già deragliato un treno regionale, fortunatamente senza provocare né feriti né morti. Questa tratta, a detta di Trenord, che è la società proprietaria dei treni locali, e di Rfi, che è la responsabile della rete ferroviaria, è una delle tratte più monitorate in assoluto proprio perché vi transitano ogni giorno più di 500 convogli (tra paseggeri e merci; vi sono in parallelo 4 linee di binari, e a detta di tutti i dirigenti di Rfi l’ultima verifica proprio su quella tratta era stata fatta lo scorso 11 gennaio. Bella verifica davvero!

Che i treni utilizzati per il servizio di pendolarismo siano vecchi è cosa risaputa (dai 20 ai 40 anni di anzianità), e questo già comporta la necessità di una manutenzione molto assidua, cosa che peraltro non avviene visto che i disservizi di ogni genere (come i guasti all’apertura delle porte, i guasti al condizionamento d’aria e al riscaldamento), i ritadi per non ben chiariti “guasti tecnici”, le mancate coincidenze, i treni soppressi di cui si viene a sapere all’ultimo momento, carrozze sempre affollatissime perché sono poche rispetto alla massa di persone che viaggia regolarmente su quei treni, sono all’ordine del giorno da anni. A questi disservizi si aggiunga che il materiale rotabile è molto spesso inadeguato per vecchiaia e per una manutenzione approssimativa. Questo insieme di cose, che colpiscono indifferentemente tutti i pendolari, ha spinto, nel 2014, ad esempio, un gruppo di pendolari della linea Cremona-Milano a costituirsi in “Comitato dei pendolari cremaschi” nel tentativo di farsi ascoltare da Trenord e dalla Regione perché risolvano la situazione e diano sicurezza ai viaggiatori delle ferrovie. Le intenzioni di questo Comitato sono senza dubbio ottime, ma credere di ottenere dei risultati grazie ai comunicati e agli incontri con gli amministratori comunali, provinciali o regionali, è certamente una grossa illusione. Il disastro di Pioltello, purtroppo lo dimostra.

Qui non si è trattato di un “guasto tecnico” improvviso, di un segnale rosso non visto in tempo o di una involontaria distrazione del macchinista: qui si è trattato di una combinazione micidiale di mancata manutenzione sia delle rotaie sia del materiale rotabile.

Da subito si è visto che circa 400metri prima della stazione di Pioltello – dove quel treno regionale non doveva fermarsi ed è transitato a circa 140 km all’ora – una rotaia, all’altezza di una giuntura, mancava di un pezzo di 23 cm sul “fungo” (che è la parte superiore della rotaia su cui scorrono le ruote dei treni), che alla stessa giuntura mancava un bullone, che quella giuntura non poggiava saldamente sulla traversina di cemento e che sotto di essa qualcuno aveva inserito – e non si sa da quanto tempo – un pezzo di legno come sostegno “provvisorio”. A detta di ferrovieri esperti intervistati da Radio Popolare di Milano, passando a tutta velocità sopra quella rotaia, pur mancante di un pezzo di 23 cm, il treno non dovrebbe subire nessun contraccolpo. Quindi, è probabile, che il cedimento di uno dei carrelli della carrozza n. 3 (quella che poi è effettivamente deragliata, spezzando il treno) sia dovuto non tanto alla rottura di quel pezzo di rotaia, quanto ad un suo logoramento strutturale che, combinato con la rotaia rotta, ha aggravato la situazione. In effetti, passando a tutta velocità nella stazione di Pioltello, il carrello era già fuori sede ed infatti causava scintille e sollevava pietre e sassi lanciandole sui marciapiedi della stazione come si nota in modo evidente dalle riprese video. Il fatto poi che il treno abbia continuato la sua corsa, pur con il carrello staccato dal suo alloggiamento cosa che ha fatto inclinare la carrozza, e nulla sia stato notato dal macchinista, sembra sia dovuto a due fattori: uno riguarda i sensori collocati nella motrice – ma non in ogni carrozza - attraverso i quali il macchinista si accorge se qualcosa non va (alla motrice) e quindi può azionare immediatamente il sistema frenante, ma non si accorge se qualcosa succede alle carrozze; l’altro riguarda gli scambi, ossia fino a che la linea è continua e non è “interrotta” da uno scambio il treno può procedere anche per qualche chilometro – come in effetti è successo, visto che come minimo dalla rotaia rotta al punto di deragliamento del treno ci sono circa 2 km e mezzo – ma quando il treno lanciato in velocità non corre più su un’unica via ferrata ma incontra uno scambio, quindi la continuità della rotaia si interrompe, allora il deragliamento è certo. E infatti è là che il treno è deragliato, sebbene avvicindandosi allo scambio la velocità del treno viene diminuita fino a 70 km orari.

E, a questo proposito, Dante De Angelis, macchinista dell’associazione “In Marcia”, non ha problemi ad affermare: “Se sulle carrozze del treno ci fosse stato il rilevatore di svio si sarebbero potute evitare le gravissime conseguenze dell’incidente di Pioltello. Il convoglio si sarebbe fermato dopo 300-500 metri invece di continare la corsa per 2 chilometri” (4). Dotare ogni carrozza di quel rilevatore ha un costo che la legge del profitto capitalistico non tollera, e infatti sui treni pendolari e sui treni merci non viene nemmeno ipotizzata la sua installazione. E pensare che un aggeggio simile, che può salvare vite umane perché serve a bloccare il treno in automatico appena una ruota esce dal binario... costa 800 euro circa!!! Quanti morti ci vogliono prima che una misura di sicurezza di questo tipo venga finalmente presa in considerazione?

E torna in mente il disastro ferroviario di Viareggio, era il 29 giugno 2009, quando un treno merci carico di sostanze pericolose come il gpl (gas non soltanto infiammabile, ma esplodente) deraglia, si incendia ed esplode causando alla fine 32 morti e diversi ustionati gravi (5). Anche allora furono i carrelli a staccarsi dai vagoni facendo deragliare il treno. Ma basta andare un po’ indietro negli anni e di incidenti ferroviari gravi ce ne sono stati un bel po’. Prima del disastro del 2009 a Viareggio, nel gennaio 2005 a Crevalcore un treno regionale si scontra nel binario unico sulla tratta Bologna-Verona causando 17 morti: anche in questo caso, se quella linea fosse stata attrezzata con i sistemi di sicurezza come l’Scmt, i semafori non visti dal macchinista (che comunque è morto nell’incidente) non avrebbero permesso al treno di proseguire la corsa; nel 2010 un incidente ferroviario nel meranese in Alto Adige, provoca 9 morti e una trentina di feriti. Tra Gimigliano e San Pietro Apostolo, in provincia di Catanzaro, nel marzo 2014, un treno di pendolari si scontra con un locomotore diretto a Catanzaro, e 4 persone restano gravemente ferite. Nel luglio 2016, siamo nelle campagne tra le stazioni di Corato e di Andria, sulla linea ferroviaria Bari-Barletta: due treni si scontrano sul binario unico esistente, i morti sono 23 e i feriti più di 50.

L’Italia passa per uno dei paesi più ricchi del mondo, più avanzati e moderni, ma i morti negli incidenti ferroviari, negli incidenti di lavoro, negli incidenti in mare e su strada o in aereo, nella stragrande maggioranza dei casi sono dovuti a incuria, mancanza di misure di sicurezza adeguate, risparmi sulla prevenzione e sulla formazione, ossia a tutto ciò che può essere riunito nel campo di tutte quelle attività considerate marginali rispetto all’ottenimento del maggior profitto dal minor investimento possibile.

Al lavoro come in guerra! E’ ormai un grido che lanciamo da sempre ma che sembra non bastare più. La vita stessa in questa società è una vita sottoposta alle condizioni di una guerra che non appartiene ai proletari, una guerra per il profitto, una guerra di spartizione di bottini e di fette di mercato, una guerra di capitali finanziari e di poteri, una guerra che appartiene a tutti i borghesi e a tutti gli strati sociali di piccolissma, piccola e media borghesia che dallo sfruttamento del lavoro salariato traggono i loro profitti, i loro guadagni e che sulla sottomissione del proletariato alle ferree leggi del capitale traggono i loro privilegi, i loro benefici, i loro meschini interessi.

I proletari hanno in mano una forza straordinaria che non sanno di possedere: la forza della storia che orienta il corso storico della società capitalistica verso crisi economiche e sociali sempre più vaste e acute nelle quali il proletariato – la forza lavoro così indispensabile ai capitalisti per la loro vita da capitalisti – trarrà l’energia per sollevarsi contro tutto il complicatissimo apparato economico-finanziario-politico-burocratico-sociale-militare che le classi borghesi hanno costruito per difendere i loro interessi, e annientarlo. Ma da oggi a quel giorno ci distanzia tutto un periodo in cui i proletari devono ritrovare il loro terreno di lotta classista, l’unico terreno in cui possono unirsi e lottare con efficacia prima di tutto in difesa della propria vita e di condizioni di lavoro più sicure, e poi per porsi un obiettivo ben più risolutore: quello della lotta politica rivoluzionaria contro il potere borghese, il suo Stato, le sue mille ramificazioni tra le quali non vanno dimenticati gli organismi dell’opportunismo politico e sindacale che si atteggiano a rappresentanti dei lavoratori ma in realtà non sono che luogotenenti della borghesia nelle file proletarie.

 


 

(1) Si tratta dell’Osservatorio Indipendente morti sul lavoro (cadutisullavoro.blogspot.it), si è costituito il 1° gennaio 2008 su iniziativa del metalmeccanico in pensione Carlo Soricelli per ricordare i sette lavoratori della ThyssenKrupp di Torino morti bruciati vivi poche settimane prima.

(2) Vedi la nostra presa di posizione “Operai assassinati alla ThyssenKrupp di Torino. Basta con le morti sul lavoro! Basta con gli assassinii legalizzati!”, “il comunista” n. 107, dicembre 2007.

(3) A proposito di prevenzione anche per i giovani impegnati nell’alternanza scuola-lavoro, tirocinio inserito dalla riforma detta “Buona scuola” del governo Renzi-Gentiloni: il 23 dicembre 2017, a Faenza, mentre uno studente diciottenne, insieme ad un elettricista esperto, stavano spostandosi su un cestello di una gru a 10 metri d’altezza per raggiungere la linea elettrica dove intervenire, il braccio della gru si piega e fa precipitare i due al suolo; l’elettricista 45enne muore sul colpo, lo studente rimane ferito grave (www.ilsussidiario,net, 24 dicembre 2017).

(4) Cfr. “la Repubblica”, 27 gennaio 2018.

(5 Vedi “il comunista”: “Esplode un treno merci a Viareggio. L’ennesimo disastro annunciato: il profitto continua a mietere vittime”, nel n. 113, luglio 2009.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

30 gennaio 2018

www.pcint.org

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