Back

Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                


 

Migranti in fuga da guerre e miserie: dopo le violenze, le torture, gli stupri, le gambe e le braccia spezzate e le uccisioni nei campi di internamento in Libia o in qualsiasi altro paese di transito, la fuga dei migranti africani e mediorientali continua a rischiare di finire nel cimitero chiamato Mediterraneo

 

 

Le borghesie d’Europa sono mosse dalla difesa dei propri profitti, non dalla “protezione umanitaria”! Questo fatto è talmente assodato che non ci sarebbe nemmeno bisogno di sottolinearlo. Ma ai disastri di guerra, alle repressioni più brutali, alle violenze di ogni tipo che colpiscono una parte importante delle popolazioni dei paesi del Vicino e Medio Oriente e dei paesi del Nord Africa  e sub-sahariani, si accompagnano ormai da anni violenze non meno brutali nelle traversate del deserto e nei campi di concentramento, soprattutto della Libia, in cui finisce la stragrande maggioranza dei migranti.

La rotta dei Balcani, che per diversi anni è stata la via attraverso la quale i migranti tentavano di raggiungere i paesi d’Europa, e nella quale andavano incontro a non minori violenze e umiliazioni, si è in gran parte chiusa perché le ricche e opulente borghesie d’Europa hanno pagato fior di milioni di euro affinché l’amico-nemico turco Erdogan fermasse quel gigantesco flusso di migranti e non permettesse loro di superare i confini della Turchia per proseguire verso destinazioni più “sicure”, come apparivano la Germania e i paesi nordici. E’ arcinoto che la quasi totalità dei migranti che riuscivano a raggiungere la Turchia, la Grecia, Cipro, l’Ungheria, l’Austria, la Serbia, la Slovenia, la Croazia, e oggi, attraverso il Mediterraneo, soprattutto l’Italia, la Spagna, in tutto il tortuoso percorso che hanno seguito prima di raggiungere questi paesi hanno dato fondo ad ogni risorsa di famiglia per mettersi nelle mani della catena di trafficanti che li vedono solo come propria fonte di arricchimento immediato: come buoi condannati al macello, rappresentano un “valore” finché hanno risorse in denaro o in oggetti preziosi che portano con sé e che si fanno inviare dalle famiglie; l’altro “valore” è rappresentato dalla loro forza-lavoro e, quindi, dalla vita che sono costretti a mettere nelle mani degli aguzzini del momento. I loro corpi possono diventare forza lavoro da brutalizzare a costi pari a zero, oppure oggetti di piacere, soprattutto se si tratta di donne giovani e giovanissime, o contenitori di organi da asportare, o semplicemente corpi da caricare su gommoni e barche che difficilmente tengono il mare, da spedire verso Malta, verso la Sicilia, o verso la Spagna. Ci penserà il Mediterraneo ad ingoiare coloro che non ce la faranno per le ustioni provocate dal carburante disperso sui fondi delle barche, per organismi debilitati dalla fame e dalla sete, per le malattie contratte nei campi di concentramento, per le percosse che li hanno colpiti sistematicamente; e anche quando il salvataggio in mare appare prossimo grazie alla presenza di navi delle ONG o della guardia costiera italiana, o maltese, o dei pattugliatori di Frontex, non è detto che il salvataggio sia assicurato: se le loro imbarcazioni sulle quali sono ammassati oltre misura si spezzano e naufragano, molti finiscono in mare e, non sapendo nuotare, vanno incontro a un maledetto destino segnato.

La questione dei migranti è diventata, o è stata fatta diventare, una questione centrale per molti governi, a partire dai governi dei paesi dell’Europa dell’Est, che per primi hanno alzato muri, chiuso le frontiere con reticolati e guardie armate. In Italia, dato che per la posizione geografica è inevitabilmente al centro delle possibili rotte delle imbarcazioni dei migranti, la questione dei migranti è diventata da anni il nervo scoperto di ogni governo, di destra o di sinistra, di centro-destra o di centro-sinistra che fosse. Da destra, per lungo tempo si è agitato lo spauracchio di una vera e propria invasione da parte di milioni di migranti dal sud del mondo, rivendicando la chiusura delle frontiere ai clandestini e, dato che la quasi totalità dei migranti che toccavano il suolo italiano erano di fatto clandestini, la rivendicazione si trasformava in: aiutiamoli a casa loro!, sovvenzioniamo i centri di identificazione e di esplusione nei paesi litoranei, come la Libia o la Tunisia e accogliamo solo ed esclusivamente le persone che rispondono ai criteri di selezione per la richiesta d’asilo; da sinistra si rispondeva che, con le leggi appropriate e con il coinvolgimento di tutti i paesi dell’Unione Europea, il fenomeno dei forti flussi migratori poteva essere controllato e ordinato con criteri di legalità, dunque no ai clandestini, sì agli aventi diritto d’asilo, ossia no al 99,9% dei migranti e sì allo 0,1%! Naturalmente, data la massa notevole di migranti che mettevano in pericolo la propria vita in mare, i controlli potevano e dovevano necessariamente essere fatti nel primo paese di sbarco (sulla base degli accordi europei e del Patto di Dublino), il quale doveva controllare tutti, provvedere a “rimpatriare” i clandestini e decidere come accogliere, e in quale paese, gli “aventi diritto d’asilo” per ragioni politiche o per ragioni umanitarie. La legge prima di tutto..., le ragioni umanitarie in secondo luogo... e poi salvare vite...se proprio si è costretti.

Ma come succede sempre, la società borghese non è in grado di prevedere le conseguenze delle sue crisi, siano queste di tipo economico, politico e di guerra; ed ogni volta che le classi dominanti borghesi si trovano a dover affrontare e superare le crisi della loro società non fanno che utilizzare dei mezzi – distruzione coatta di una massa di forze produttive, conquista di nuovi mercati e sfruttamento più intenso dei vecchi (vedi il Manifesto del partito comunista di Marx-Engels) – che in realtà costituiscono dei fattori di crisi più generali e più violente e, di conseguenza, diminuiscono i mezzi per prevenire le crisi stesse. I grandi flussi migratori degli ultimi vent’anni, o meglio l’emigrazione forzata di milioni di persone da un paese all’altro, hanno cause e ragioni che vanno ben oltre i pochi decenni in cui le statistiche hanno iniziato a fornire a questo fenomeno argomenti di demagogia politica, elettorale o governativa che sia.

Negli Stati antichi, in Grecia e a Roma, come scrive Marx nel 1853, “l’emigrazione forzata assumeva la forma di stanziamenti periodici di colonie” e costituiva “un anello regolare della struttura sociale” (1). Allora la stabilità di quel sistema “si fondava su determinati limiti numerici della popolazione, che non potevano essere superati senza compromettere la stessa situazione della civiltà antica”. Perché? “Perché gli antichi ignoravano del tutto l’applicazione della scienza alla produzione materiale”, cosa che invece il capitalismo ha sviluppato in modo impressionante. “Per restare civili erano costretti a rimanere poco numerosi. Altrimenti avrebbero dovuto sottoporsi all’ingrato lavoro fisico, che trasformava il libero in schiavo. Il bisogno di forza produttiva rendeva la cittadinanza dipendente da un determinato equilibrio numerico, che non doveva essere alterato. Unico rimedio l’emigrazione forzata”. Fu la pressione della popolazione sulle forze produttive che spinse i barbari dagli altopiani dell’Asia a invadere il vecchio mondo, continua Marx; “la causa era la stessa, anche se in forma diversa. Per restar barbari erano costretti a rimanere poco numerosi. Erano tribù dedite alla pastorizia, alla caccia, alla guerra, i cui modi di produzione richiedevano gradi spazi per ciascun individuo, non diversamente da quello che accade oggi presso le tribù indiane dell’America del Nord. Via via che aumentavano numericamente, essi si limitavano reciprocamente il terreno di produzione. Cosicché la popolazione eccedente era costretta a intraprendere quei grandi e avventurosi movimenti migratori, che gettarono le basi dei popoli dell’Europa antica e moderna”. Dunque, l’antico modo di produzione non riusciva a soddisfare le esigenze di vita di una popolazione che continuava ad aumentare e che aveva a disposizione tendenzialemente uno spazio sempre più ristretto, premendo sempre più sulle forze produttive a tal punto da spingerle a soluzioni tecniche innovative, ma, nello stesso tempo, a spingere la parte di popolazione eccedente ad emigrare. Continua Marx: “L’emigrazione forzata dei nostri giorni [attenzione, siamo nel 1853, ed i “nostri giorni” si riferiscono ai giorni dello sviluppo capitalistico, NdR] ha cause del tutto opposte. Non è il bisogno di forza di produzione che crea un’eccedenza di popolazione; è l’aumento della forza di produzione, che esige una diminuzione della popolazione ed espelle l’eccedenza con la fame e con l’emigrazione. Non è la popolazione che preme sulle forze di produzione; è la forza di produzione che preme sulla popolazione”. Le forze di produzione capitalistiche, che rispondono alle esigenze del sistema di produzione capitalistico (rivoluzione tecnica continua, sfruttamento intensivo della forza lavoro, crisi di sovraproduzione di merci e di forza lavoro, miseria crescente per il proletariato), premono a tal punto su una popolazione che aumenta sempre più ma che ha a disposizione sempre meno spazio, e meno risorse, da trasmettere direttamente sulla popolazione stessa tutti gli effetti negativi delle crisi inevitabili che accompagnano lo sviluppo capitalistico – crisi che determinano inesorabilmente una sempre rinnovata distruzione di forze produttive, che non sono solo capitali e mezzi di produzione, ma anche forza lavoro. “Nella società – continua Marx – si va operando una rivoluzione silenziosa, alla quale dobbiamo piegarci, che si preoccupa delle vite umane che spezza non più di quanto un terremoto si accorge delle case che demolisce”.  

La spietata colonizzazione capitalistica che le potenze europee, a partire dall’Inghilterra, hanno messo in atto da oltre duecento anni, non ha portato progresso, civiltà, benessere generale alle popolazioni dei paesi colonizzati, ma distruzione dei vecchi modi di produzione e degli antichi sistemi economici di sopravvivenza di quelle popolazioni – stappandole violentemente, quindi, dal profondo isolamento in cui vivevano – proiettandole inesorabilmente nel vulcano della produzione capitalistica e nella contemporanea palude del mercato. Nell’Ottocento in Cina, in India, in Russia, la penetrazione dell’economia capitalistica attraverso lo scambio, le ferrovie e la creazione del mercato interno, mentre distruggeva le fondamenta della piccola agricoltura e dell’industria domestica patriarcale, gettava nello stesso tempo masse di contadini e di piccoli artigiani nell’indigenza più completa, trasformandole in proletari senza riserve e costringendone una parte considerevole all’emigrazione di massa. Engels sottolinea come la colonizzazione inglese della Cina, attraverso la costruzione delle ferrovie, se da un lato tendeva a rispondere all’esigenza di ripresa della prosperità del capitale inglese, dall’altro distruggeva la base economica tradizionale del paese; mancando però in Cina la grande industria indigena, il contraccolpo sarebbe stato una forzata e spaventosa ondata migratoria verso l’America, l’Europa e altri paesi dell’Asia da parte dei cinesi (2). Come effetto della penetrazione capitalistica si ha, oltre all’emigrazione forzata dei cinesi in massa, “una loro concorrenza con la manodopera americana, australiana ed europea – precisa Engels – sulla base del concetto cinese di un livello di vita tollerabile, che è notoriamente il più basso di tutto il  mondo”, cosa che serve al capitalismo in funzione dell’abbattimento dei salari nei paesi capitalistici sviluppati. Al posto delle masse cinesi del secolo XIX mettiamoci le masse mediorientali e africane, o latinoamericane, del XXI secolo ed avremo lo stesso tragico quadro generale, ma con una caratteristica in più: l’eccedenza di popolazione creata dal sistema capitalistico, non solo nei paesi sviluppati ma soprattutto nei paesi della periferia dell’imperialismo, non va soltanto ad aumentare, in termini di concorrenza con la manodopera dei paesi capitalistici avanzati, la pressione sui livelli salariali raggiunti dai proletari dei paesi ricchi, ma destina una gran parte dei migranti ai marigini della società trasformandoli in masse di “rifiuti” alla stessa stregua delle merci invendute e lasciate a marcire in discariche improvvisate.

La produzione capitalistica è talmente densa di contraddizioni che gli stessi governanti e media borghesi non riescono a nasconderne gli effetti drammatici. Parlano di “invasione” di migranti ed alzano muri, emanano leggi sempre più restrittive non solo sulla migrazione “clandestina” ma anche sul tanto glorificato “diritto d’asilo”, sgomberano con la forza sistematicamente edifici disabitati da tempo ma occupati dai migranti, alimentano campagne di odio razziale verso tutti coloro di pelle non bianca e verso i migranti in generale trattati da delinquenti, criminali, assassini, violentatori.

Le classi dominanti borghesi non possono fare a meno dello sfruttamento delle masse proletarie, perché è da questo sfruttamento che ricavano i profitti; e non possono non alimentare con ogni mezzo, dai più ipocriti e viscidi ai più violenti, la concorrenza tra proletari, intensificando il loro sfruttamento, mettendo bianchi contro neri, olivastri o gialli, giovani contro vecchi, donne contro uomini, minori contro adulti, cristiani contro musulmani, benestanti contro poveri, cittadini contro campagnoli; e non possono non calpestare le loro stessi leggi tutte le volte che gli interessi privati si scontrano con l’interesse pubblico, mettendo quelli privati contro quelli pubblici, e tutte le volte che gli interessi privati più forti espandono la loro pressione sugli interessi privati più deboli. In un mondo in cui le leggi non scritte, ma applicate sistematicamente, del sopruso, della vessazione, dello sfruttamento che spezzano vite umane, quando le contraddizioni economiche e sociali raggiungono livelli di tensione molto alti, tutti i borghesi si lanciano ad individuare il “nemico” della loro prosperità, della loro stabilità, dei loro interessi, della loro “civiltà”. E cosa c’è di più immediato, facile e a portata di mano se non incolpare gli stranieri, i clandestini, gli invasori, i disperati di un mondo che si rivolta oggettivamente contro il dominio del capitale sulla vita di miliardi di esseri umani?

Le classi dominanti borghesi, ora più apertamente – alla maniera di Trump, di Orban, di Le Pen, di Salvini o di Erdogan – ora più celatamente, alla manisecondo lo stileera dei democratici, dei liberali e dei benpensanti – alla maniera di Merkel, di May, di Macron o di Pedro Sánchez – sanno che le contraddizioni del sistema economico capitalistico possono provocare sconvolgimenti sociali di notevole portata. Perciò rafforzano la difesa dei loro interessi in termini sia economici che legislativi, sia politici che militari. Non è un caso, infatti, che, tendenzialmente, ogni grande potenza imperialista, rafforzi sia tecnicamente che tecnologicamente i propri armamenti, in funzione del controllo interno e in funzione del possibile scontro militare con i concorrenti stranieri. Il controllo interno si identifica sempre più con il controllo dei confini, mettendo in secondo piano le velleità della libera circolazione delle persone che, in Europa, fa riferimento al trattato di Schengen grazie al quale 26 paesi europei avevano accettato di eliminare i controlli di polizia alle reciproche frontiere. La pressione migratoria, soprattutto negli ultimi anni, ha però indotto diversi paesi europei non solo a ripristinare i controlli di polizia alle proprie frontiere, ma addirittura ad alzare recinzioni (del tipo di quelle erette tra Stati Uniti e Messico) vigilate da guardie armate, come ai confini dell’Ungheria con la Serbia e la Romania.

In un clima sociale in cui le classi borghesi dei paesi ricchi, in tutti i loro strati, si leccano le ferite dell’ultima crisi economica generale che, in realtà, si è sommata alle crisi passate che non potevano certo restare confinate nei singoli paesi – data la sempre più frenetica e inesorabile globalizzazione dell’economia capitalistica – e in cui la spinta a difendere con sempre maggior forza e violenza gli interessi privati (corrispondano essi a trust, multinazionali o aziende singole ha importanza relativa) acquista sempre maggior peso, la guerra condotta genericamente contro le masse migranti anticipa, in realtà, una guerra che potrebbe scatenarsi dagli antagonismi di classe tra proletariato e borghesia e assumere le caratteristiche di una vera e propria guerra di classe. E’ a questa guerra di classe che la classe dominante borghese pensa tutte volte che le crisi della sua società e della sua economia provocano sconvolgimenti sociali importanti. E allora, oltre al rafforzamento delle difese economiche e politiche del suo dominio sociale, la classe borghese deve rafforzare anche i sistemi di attrazione nel suo campo di almeno una parte della classe proletaria. E su questo piano giocano un ruolo vitale per la conservazione borghese le forze del collaborazionismo politico e sindacale. Alla borghesia imperialista di oggi non basta più portare dalla sua parte gli strati di aristocrazia operaia come ha fatto per più di un secolo e mezzo. Questi strati – che non spariscono con le crisi, ma in un certo senso si allargano attraverso la rovina degli strati di piccola e media borghesia che, a causa delle crisi, finiscono per “proletarizzarsi” – grazie alle loro caratteristiche di specializzazione professionale e di istruzione mantengono il ruolo di influenza diretta sui più ampi strati del proletariato; perciò saranno sempre strati sociali protetti dalla grande borghesia. Ma gli scontri a livello di concorrenza economica e finanziaria, e domani a livello militare, con gli imperialismi concorrenti, spingono ogni borghesia nazionale ad allargare la fascia di influenza diretta nelle file proletarie e questo obiettivo ogni borghesia nazionale tenta di raggiungerlo prima dello scontro ai massimi livelli, prima di una guerra mondiale. L’esperienza delle due guerre mondiali precedenti e delle guerre locali che hanno punteggiato costantemente i cent’anni che ci dividono dal 1914, ha insegnato alla borghesia che non basta alimentare la concorrenza tra proletari per facilitare la propria influenza e irreggimentare le masse proletarie nella difesa dei suoi interessi, ma che oltre alla concorrenza economica ci vuole anche una potente dose di odio razziale che vada a soffocare e a sostituire il naturale odio di classe che ogni proletario sarebbe spinto ad avere nei confronti del proprio sfruttatore capitalista. Ecco che, come un tempo, in Europa, l’odio per lo “straniero” (per qualsiasi straniero) era la leva principale usata per ottundere le menti delle masse proletarie e farle combattere a favore delle classi dominanti, oggi più di ieri questo odio razziale deve essere più mirato, portando quel che ieri era l’odio per l’ebreo (o, in America, l’odio per il negro) alla massima individualizzazione: odio per qualsiasi essere umano diverso da me, per quasiasi essere umano che accenni minimamente a mettere in pericolo la mia proprietà privata, il mio standard di vita, le mie abitudini, la mia mentalità. Con criteri di questo genere, che non sono altro che una degenerazione della vita sociale prodotta dallo sviluppo del capitalismo e dal persistere del dominio borghese sulla società, la dimostrazione di una disumanizzazione sempre più cinica, è facile spiegarsi come mai il continuo e persistente massacro di vite umane sui luoghi di lavoro, nelle strade, all’interno delle mura domestiche, nelle carceri, nei centri di raccolta dei migranti e nelle loro traversate dei deserti e del mare, non sollevi la ribellione delle masse proletarie che sono, in realtà, il principale bersaglio dell’odio di classe col quale la classe borghese domina la società.

Oggi ancora, di fronte a tutta una serie interminabile di azioni dei governi e delle forze politiche che li sostengono o che fingono di opporvisi, azioni che chiaramente vanno contro ogni anche pur tiepido sentimento di umanità – come chiudere i porti alle navi che soccorrono i naufraghi in mare, negare l’asilo e l’assistenza alle masse che fuggono da repressioni, torture, guerre e fame pur documentate, spesso dettagliatamente, dagli stessi mezzi di comunicazione borghesi, respingere i migranti semplicemente perché migranti, aiutare invece i loro aguzzini in Libia, in Egitto, in Turchia e negli stessi paesi europei, sovvenzionando i loro governi con capitali, armi, naviglio – il proletariato dei paesi ricchi, inteso non come somma di individui, ma come classe sociale, è inesistente. La classe dei produttori principali della ricchezza di ogni paese sviluppato, che nella sua tradizione storica ha la solidarietà umana come caratteristica di classe e legata all’antagonismo di classe che la vede storicamente avversa alla classe borghese in una lotta che non è altro che la condizione vitale per sopravvivere in questa società, difendendosi dalla pressione economica e dalla repressione borghese, oggi ancora, è muta, assente, invisibile, impotente, schiacciata economicamente, asservita socialmente e politicamente ai poteri borghesi, dai più alti fino al singolo padroncino, ridotta ad inneggiare al “grande manager Marchionne” perché ha “salvato la Fiat”, e quindi un certo numero di posti di lavoro, scordandosi che per la legge capitalistica stessa ha gettato sul lastrico, negli anni, decine di migliaia di operai al fine di continuare a produrre profitti – come d’altra parte fanno tutti i capitalisti, nessuno escluso.

I migranti, che per la stragrande maggioranza sono dei senza riserve, dei senza patria, dunque dei proletari nel senso marxista del termine, stanno facendo vedere ai proletari autoctoni, ai proletari dei paesi ricchi, quale potrà essere la loro stessa condizione domani, quando una crisi ancor peggiore di quelle già attraversate, ne getterà una parte non piccola nella massa dei “rifiuti” della società, li precipiterà nella fame e nella miseria quando non li irreggimenterà negli eserciti a difesa di una patria e di una economia di cui godono esclusivamente i grandi borghesi. I proletari, proprio perché è la loro forza lavoro applicata ai mezzi di produzione capitalistici a produrre i profitti dei capitalisti, a valorizzare quella forza impersonale ed extra-umana che si chiama capitale, posseggono, ignari, l’unica potente leva che può cambiare completamente il mondo e passare da una società di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, da una società del tutto disumana e antiumana ad una società umana, ad una società in cui al centro della vita sociale vi siano le esigenze vitali degli esseri umani organizzati razionalmente in solidarietà spontanea e naturale, in piena armonia sociale e con la natura. Ma questa potente leva non si mette in moto da sola, per virtù propria, o per virtù suprannaturale. Saranno, come già lo sono state nel passato, le contraddizioni della società capitalistica che – come oggi spingono masse di disperati sui confini e sulle coste dei paesi del Mediterraneo – spingeranno anche i proletari autoctoni dei paesi sviluppati a scendere in lotta non solo per “migliorare” le proprie condizioni di lavoro e di vita, ma per la propria esistenza stessa.

La lotta sarà durissima, per la vita o per la morte, come i migranti in questi anni hanno continuato a mostrare: nonostante tutti i pericoli possibili per la propria vita individuale, i migranti, adulti, donne, bambini e non necessariamente famiglie intere, spinti dalla forza di sopravvivenza, hanno affrontato qualsiasi difficoltà, qualsiasi pericolo, hanno messo la propria vita in pericolo pur di raggiungere un luogo in cui ritornare a vivere: fame, sete, sfruttamento, percosse, internamento, torture, ammassamento in barconi destinati a naufragare, nulla li ha fermati, nulla li ferma. Ma la lotta per elevare la vita dallo stadio forzatamente animalesco, da branco, con la quale sono costretti ancora oggi a fare i conti i migranti, allo stadio umano, deve diventare lotta di classe, se non si vuole che sia messa nelle mani della sorte, della fortuna, sperando solo che il mare non sia in tempesta, che la traversata del deserto non sia mortale, che i campi siano di concentramento e non di sterminio, che i trafficanti di esseri umani si accontentino di depredarli di tutti i loro averi, che i soccorsi in mare siano efficienti, e di non essere rimandati indietro dopo essere riusciti a sbarcare in un porto dichiarato “sicuro”. Deve diventare lotta di classe perché, in quanto proletari, ci si organizza sulle basi di una materiale comunanza di interessi che non sono soltanto puramente immediati ed economici, ma sono di solidarietà classista nella consapevolezza che l’organizzazione di classe deve durare nel tempo e deve allargarsi nello spazio, poiché la vera forza con cui combattere il vero nemico di classe – che è la classe borghese capitalistica –, e i suoi sostenitori – che sono non solo i piccoloborghesi ma anche e soprattutto i partiti e le organizzazioni del collaborazionismo interclassista, non importa se laici o confessionali – sta proprio nell’organizzazione proletaria di classe che usa mezzi e metodi della lotta di classe e ha come obiettivi solo gli interessi di classe, ossia gli interessi che unificano i proletari di qualsiasi nazionalità, età, sesso, credo politico o religioso. Per raggiungere questo stadio di lotta di classe non ci sono ricette particolari, espedienti miracolosi: fanno da base i fattori materiali che oppongono obiettivamente e storicamente gli interessi dei proletari agli interessi dei borghesi, gli interessi degli sfruttati agli interessi degli sfruttatori, fattori prodotti dagli stessi rapporti di produzione capitalistici e che si vanno ad incrociare con le conseguenze dei contrasti e delle contraddizioni sociali che sono congenite con il capitalismo. Fattori materiali che spingono alla lotta, e all’organizzazione della lotta, qualsiasi essere vivente, ma che da soli non bastano. Gli obiettivi immediati sono importanti e vitali per l’organizzazione della lotta di classe, come lo sono i mezzi e i metodi di lotta che si adottano; ma nella storia delle società umane, sui fattori materiali che qui abbiamo appena accennato, agiscono organizzazioni di classe specifiche, che condensano gli interessi generali delle classi che rappresentano il progresso storico sia sul piano dei modi di produzione sia sul piano delle organizzazioni sociali che su quei modi di produzione si ergono.

E’ dimostrato ormai da quasi duecento anni che il modo di produzione capitalistico e la società borghese eretta su di esso sono storicamente transitori: hanno avuto un inizio (rivoluzionario), uno sviluppo nel tempo (stabilizzatore, riformistico) che ha interessato il mondo intero, per passare alla fase finale, reazionaria, pronta, storicamente, ad essere superata da un modo di produzione e da una società superiore. Solo che nel corso storico delle società umane, che hanno segnato in fasi storiche diverse e successive sempre un progresso notevole, contrassegnato sempre dalla divisione in classi della società, si è giunti alla società capitalistica che ha semplificato enormemente la divisione in classi, riducendo l’antagonismo di classe fondamentale a due classi, proletariato e borghesia, dove la borghesia possiede tutto, e quindi domina, e il proletariato non possiede nulla, e quindi è dominato. Ma la caratteristica peculiare del proletariato è che è sicuramente lo schiavo moderno; ma l’unica cosa che possiede – la forza lavoro – è dialetticamente la forza sociale che ne ha fatto lo schiavo moderno, come schiavo salariato, ma è anche la forza che lo può emancipare dalla schiavitù salariale, alla condizione di distruggere i rapporti di produzione, e sociali, del capitalismo che lo mantengono schiavo salariato, e di utilizzare le basi materiali dell’eccezionale progresso nella produzione industriale e agricola dovuto alla continua rivoluzione tecnica del capitalismo, per superare completamente la divisione in classi della società e mettere a disposizione della società di specie il lavoro umano, razionalmente organizzato su tutto il pianeta eliminando ogni vincolo mercantile e capitalistico. L’emancipazione del proletariato, storicamente, non sta nel battere la borghesia e prendere il potere al suo posto; sta nel distruggere i rapporti di produzione e sociali capitalistici e, quindi, superare la divisione del lavoro e la divisione della società in classi antagoniste; dunque, l’emancipazione del proletariato, che non può essere avviata se non vincendo la rivoluzione anticapitalistica e antiborghese, distruggendo lo Stato borghese e instaurando la propria dittatura di classe, sta nel distruggere anche se stesso come classe, ed è perciò che l’emancipazione del proletariato è nello stesso tempo l’emancipazione di tutta l’umanità. E tutto ciò non potrà avvenire se non sotto la guida del partito comunista rivoluzionario, perché è l’unica forza che nell’oggi capitalistico rappresenta l’intero percorso storico di emancipazione del proletariato e, quindi, dell’umanità intera.

Su questa via storica, nella più totale inconsapevolezza, ci sono le masse migranti forzatamente costrette a scappare da un paese per dirigersi verso altri paesi. E ci sono i proletari di ogni paese, sia esso ricco e imperialista o povero e asservito a qualche potenza regionale o internazionale, anche se oggi appaiono lontanissimi dall’avere anche solo la percezione di un cambiamento epocale, anche se fino ad oggi sono stati abituati a credere che la rivoluzione sia semplicemente un cambiamento di governo.

Ma la vecchia talpa, nel sottosuolo economico e sociale di questa putrida società del capitale, lavora e, per quanti sforzi facciano le borghesie imperialiste per allontanare il periodo in cui la rivoluzione proletaria, la rivoluzione degli ignoranti e dei derelitti batterà alle porte, nessuna forza borghese potrà cancellarla dalla storia.     


 

(1) K. Marx, Emigrazione forzata – Kossuth e Mazzini – La questione dei rifugiati – Corruzione elettorale in Inghilterra – Il signor Cobden, “New-York Daily Tribune”, 22 marzo 1853, in Marx-Engels, Opere complete, vol. XI, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 550-551.

(2) F. Engels, Condizioni sociali in Russia – Sei lettere di Engels a Daniel’son sull’evoluzione della società russa nell’ultimo decennio del secolo, Lettera IV, 22 settembre 1892, in K. Marx e F. Engels, “India Cina Russia”, Il Saggiatore, Milano 1960.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

26 luglio 2018

www.pcint.org

Top

Ritorno indice

Ritorno archivi