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Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                


 

Un governo tira l’altro. La borghesia italiana sa che pesci prendere… finché il proletariato non riconquisterà il suo terreno di classe per la sua lotta antiborghese e anticapitalistica

 

 

14 mesi circa è la durata del governo che i media hanno battezzato giallo-verde, riferendosi ai colori che distinguerebbero le due formazioni politiche che, dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018, risultarono intenzionate ad allearsi per formare il nuovo governo: Movimento 5 Stelle (il giallo) e Lega (il verde). Queste due formazioni politiche – una identificatasi come antisistema per eccellenza e l’altra come partito di destra, con caratteristiche che abbinano l’autonomismo padano a forme di statalismo, il razzismo ad un’economia da media e piccola impresa, il machismo alla professione di fede religiosa – sorprendendo tutto l’arco parlamentare, giunsero a sottoscrivere un contratto di governo per assicurare al paese un governo che i risultati elettorali rendevano molto problematico. Infatti, sebbene il M5S ebbe la percentuale più alta di voti (il 37% circa), non risultava abbastanza forte per imporre un suo governo con qualche alleato di rincalzo. Il Partito Democratico, battuto sonoramente alle elezioni, usciva con un misero 18% circa; la Lega, ex di Bossi, ex di Maroni, ora di Salvini, usciva con un risultato molto positivo (17% circa) rispetto alle elezioni precedenti, ma non così forte da poter prendere l’iniziativa per imbastire un’alleanza di governo che non fosse di centrodestra, e che sarebbe stata condizionata fortemente dalla berlusconiana Forza Italia. Come tutti sanno, il M5S, essendo risultato primo alle ultime elezioni politiche, aveva il compito di trovare uno o più alleati per formare il nuovo governo; si è fatto avanti il Partito Democratico, con cui i 5 Stelle condividevano alcuni temi, ma non se ne fece nulla, visto che lo scontro elettorale tra i due era stato molto acido e il M5S dettava condizioni che il PD non accettava; dati i trascorsi estremamente critici e polemici col partito di Berlusconi, un’alleanza con Forza Italia era esclusa fin dall’inizio; c’era poi una eventuale soluzione con la Lega, con la quale i 5 Stelle condividevano la rappresentanza della piccola e media impresa, loro al Sud, mentre la Lega la rappresentava al Nord. Ed è tra di loro che, dopo una serie di trattative, il contratto di governo fu sottoscritto. Si sono divisi i ministeri e le funzioni principali, inizialmente d’amore e d’accordo, e il governo giallo-verde ha preso il via. Due forze che, pur con diversi punti in comune, come il tema della sicurezza e dell’ordine pubblico o l’immigrazione, potevano però entrare in collisione da un momento all’altro, anche soltanto sul piano della prevalenza politica ed elettoralistica ricercata da entrambi sui temi che, in particolare, distinguevano l’una dall’altra.

 

L’ACCELERAZIONE DELLA LEGA, AMICA E NEMICA NELLO STESSO TEMPO, E IL “TAPPABUCHI” PD

 

Come tutti i contratti sottoscritti da forze borghesi, anche questo poteva essere stracciato da uno o dall’altro alleato avanzando i motivi più diversi, ma sempre incolpando l’altro di non aver rispettato qualche aspetto degli accordi presi. Ed è quel che è successo in agosto di quest’anno, quando Salvini, forte dei risultati delle ultime elezioni europee e dei sondaggi che davano la Lega in forte crescita e il M5S in forte diminuzione (ribaltando le percentuali delle ultime elezioni politiche), ha deciso di gettare all’aria l’esperienza di governo – ma non prima di aver “portato a casa” il decreto sicurezza bis col quale stringeva ancor di più il giro di vite contro i flussi migratori e l’attività delle Ong – e di forzare la mano al Quirinale perché si andasse velocemente alle nuove elezioni, dalle quali si aspettava il risultato straordinario che i sondaggi prospettavano. Salvini, con le nuove elezioni, tendeva ad ottenere i pieni poteri, per poter dare una svolta decisa alle politiche governative in merito ai temi più cari alla Lega, le accentuate autonomie regionali, la flat tax, gli investimenti per le grandi opere a partire dalla Torino-Lione, la presa di distanza da Bruxelles e dall’Unione Europea, dando al motto “prima gli italiani” una caratteristica non solo anti-immigrazione, ma anche anti-europeista, magari rinnovando prima o poi il suo vecchio slogan: basta euro!

Ovviamente, il M5S, in parte preso in contropiede dalla mossa di Salvini, ha dovuto fare i conti non solo con i sondaggi che lo davano in caduta libera se si fosse andati velocemente alle elezioni, ma anche con un’esperienza di governo dalla quale – mentre la Lega aveva ottenuto risultati concreti immediati (basti ricordare “i porti chiusi” a tutti gli sbarchi dalle navi Ong), e la salvezza del suo “capitano” dal processo per sequestro di persona (nel caso della nave della marina militare italiana Diciotti) grazie alla sua difesa non come azione di un singolo ministro, ma come “azione di governo” sostenuta dal presidente del consiglio Conte e da tutti i ministri pentastellati – il M5S, pur avendo ottenuto il varo del Dl sul Reddito di cittadinanza, i cui eventuali risultati positivi però si potranno vedere molto in là nel tempo, non ha “portato a casa” nulla di significativo e di immediato da poter spendere subito in un vicino torneo elettorale. Nel frattempo, tra giugno e luglio, stava montando il caso “Savoini-petrodollari russi”, ossia il tentativo che fedelissimi della Lega – Savoini, leghista della prima ora, è presidente dell’associazione Lombardia-Russia – cercavano di portare a termine coinvolgendo faccendieri russi coi quali, su un’ipotetica fornitura di gas russo, manovravano in modo da ricavarne una maxi-tangente, sia per i russi che per i leghisti, che avrebbe portato nelle casse della Lega 65 milioni di dollari. Dopo le vicende che avevano coinvolto un esponente del governo giallo-verde, il sottosegretario leghista Siri, (mutui personali rilasciati a Siri da istituti bancari “amici” senza le solite garanzie patrimoniali), il caso delle tangenti russe aveva messo Salvini in grosse difficoltà, sia perché era dimostrato che Savoini e gli altri personaggi facevano parte dell’entourage salviniano, nonostante Salvini continuasse a negarlo, sia perché Sua Eccellenza il Ministro di Polizia Matteo Salvini avrebbe dovuto rispondere all’interpellanza parlamentare chiarendo la sua posizione in merito al Russiagate, ma se ne fregò altamente lasciando al Presidente del Consiglio Conte il compito di “spiegare” la vicenda di cui non conosceva i dettagli. Dopo il caso dei 49 milioni di rimborsi elettorali che la Lega incassò senza averne diritto, e che fece allegramente sparire, cosicché la magistratura che ne aveva disposto il sequestro non trovò che 3 milioni e per gli altri 46 milioni concordò con Salvini e i suoi avvocati un rimborso rateizzato in 80 anni (!!!), applicando un tasso di interesse praticamente inesistente, e giustificato col fatto che non si poteva distruggere un partito politico presente in parlamento e prossimo a governare il paese, la Lega del “capitano Salvini” si è venuta a trovare in difficoltà crescenti sia nei rapporti con l’alleato di governo 5Stelle, sia con il presidente del Consiglio Conte che, pur non essendo iscritto al M5S, è pur sempre un uomo indicato dai grillini. Altre iniziative salviniane, come la famosa politica dei “porti chiusi”, per impedire ai migranti provenienti via mare dalla Libia o dalla Tunisia di sbarcare in Italia, e la guerra a tutte le Ong che con le loro imbarcazioni continuavano a salvare nel Canale di Sicilia, a centinaia, i migranti naufraghi cercando di farli sbarcare in un porto sicuro più vicino, che per il 99% dei casi non poteva che essere in Italia, erano iniziative con le quali la Lega ha voluto tracciare un suo tratto distintivo, anche se condiviso non solo dai grillini, che lasciavano fare tutto quel che voleva il Viminale, ma da tutto l’arco parlamentare, “sinistri” compresi. In realtà, l’obiettivo di non far sbarcare più nessun migrante sul territorio nazionale si riduceva ad una guerra alle Ong, visto che, sfuggendo al controllo della guardia costiera, gli sbarchi, con piccole imbarcazioni, continuavano ad avvenire. La cattiveria con cui le Ong venivano perseguite – accusate di accordi con i trafficanti di uomini, di immigrazione clandestina, di essere al servizio di potenze straniere che volevano mettere in difficoltà l’Italia – facilitava il compito della guardia costiera libica di riportare i migranti naufraghi nelle prigioni libiche da cui scappavano a causa delle botte, delle torture, delle violenze a cui erano sottoposti, lasciando che molti dei naufraghi, non soccorsi in tempo da nessuno, morissero in mare. E’ a causa di questa situazione, portata ad una repressione preventiva di ogni tentativo di salvare i migranti dal naufragio, e ad una politica che contrastava frontalmente il famoso diritto del mare – qualsiasi naufrago ha diritto di essere salvato non importa di quale nazionalità sia, da dove provenga e dove voglia andare – che si produsse la situazione di cui fu protagonista la Sea Wacht 3 comandata da Carola Rakete e di cui abbiamo trattato in altri articoli. La forzatura del divieto di entrare nelle acque territoriali italiane, del divieto di entrare in un porto italiano e di sbarcare il carico di naufraghi salvati dalla morte in mare, è stato uno smacco bello e buono nei confronti del Ministro di Polizia Matteo Salvini. I suoi ukase, le sue minacce, le sue dichiarazioni di “guerra” contro i “criminali” delle Ong, venivano così sgonfiati, a tal punto che la stessa magistratura italiana, dopo aver arrestato la capitana Carola Rakete, decise di sollevarla da qualsiasi accusa e lasciarla libera “per non aver commesso nessun crimine”.

Tutto farebbe pensare che la Lega di Salvini, per togliersi d’impaccio e per avere le mani ancor più libere per accelerare l’attuazione dei suoi propositi politici e amministrativi, forte dei sondaggi che la davano vincente alle elezioni se queste si fossero tenute nel giro di qualche mese, invece di cercare un ulteriore punto di compromesso con i 5Stelle, come aveva fatto fino ad allora, ha buttato all’aria il tavolo pensando che i grillini non avessero forze e tempo per rimarginare la ferita e contrattaccare. Ma l’attaccamento agli scranni del governo da parte dei 5Stelle li ha spinti a ricercare, nel breve tempo che avevano a disposizione, un possibile alleato alternativo alla Lega, per continuare l’esperienza di governo e raggiungere qualche risultato importante da poter spendere in future elezioni; per loro era un obiettivo prioritario, sia per non darla vinta alla Lega, sia per dimostrare ai propri iscritti e agli elettori di domani che, persa una battaglia, se ne può vincere un’altra...

Guarda caso, proprio il PD, che l’anno scorso fu sbrigativamente ridicolizzato dai pentastellati nell’incontro per un’eventuale alleanza di governo, è tornato ad essere un prezioso alleato utile alla bisogna, dimostrando per l’ennesima volta che i “nemici” di ieri possono diventare “amici” di oggi, e viceversa, ma non una sola volta, ma anche più di una volta. La dimostrazione l’ha data la stessa Lega di Salvini che, dopo aver sfiduciato il Presidente del Consiglio Conte e, perciò, la sua squadra di governo, quindici giorni dopo, resasi conto che le cose non andavano come si aspettava, si è rifatta avanti proponendosi al M5S nuovamente come alleato di governo alla condizione di “cambiare squadra”, in modo che i cosiddetti “forse” e i cosiddetti “no” alle proposte della Lega (riforma della giustizia in termini di prescrizione, grandi opere a cominciare dalla Tav, flat tax ecc.) diventassero tutti “sì”. Che questa proposta non dispiacesse a diversi esponenti del M5S (a partire a Di Battista) è noto, ma per non perdere completamente la faccia, il M5S, dopo aver dichiarato di… non avere paura di andare alle elezioni, si è rivolto al PD (che, in fondo, è sempre il secondo partito in termini di percentuali di voti ottenuti alle elezioni del 2018, e quindi con un numero di parlamentari utile ad un nuovo governo), tentando di ricucire gli attriti del passato e contando sulla possibilità di attirare nel proprio gioco altre forze parlamentari “di sinistra” (tipo i socialisti di Nencini, +Europa della Bonino e LEU di Grasso e Speranza) per dare all’eventuale nuovo governo qualche numero in più al parlamento. Andare nuovamente alle elezioni, e di questo erano convinti tutti i partiti e i cosiddetti esperti dei media più importanti, significava con ogni probabilità facilitare la vittoria di Salvini e della Lega; d’altra parte, da quando i leghisti si sono seduti negli scranni del governo, non hanno fatto altro che propaganda elettorale, strumentalizzando di volta in volta sia i risultati “leghisti” sul piano governativo, sia i tentennamenti dei 5Stelle e dello stesso Conte rispetto alle problematiche che alla Lega sono sempre state molto a cuore.

 

DALL’«ECONOMIA DA CORTILE» ALLE «LITI DA CORTILE»

 

In Italia, i partiti ci hanno abituato a considerarli molto più organizzazioni elettoralistiche che non partiti di governo. E, da un certo punto di vista, essi non fanno che rappresentare una realtà, che il marxismo ha individuato molto tempo fa: il vero governo della classe dominante borghese non è il governo parlamentare, ma il governo delle grandi lobby capitalistiche, lontano dalle cronache e dalla propaganda televisiva. Queste ultime dettano le esigenze dei gruppi capitalistici che dominano il mercato, sia a livello nazionale che internazionale, e le condizioni per le quali le politiche varate dai diversi governi devono facilitare la soddisfazione di quelle esigenze. Le delocalizzazioni, le chiusure delle fabbriche, la diminuzione della manodopera impiegata per una produzione più cospicua, il passaggio di aziende nazionali in mani del capitale finanziario straniero, l’andamento della Borsa che influenza costantemente la disponibilità di investimenti in determinati settori piuttosto che altri, l’andamento dello spread da cui dipende il rialzo o la diminuzione del debito pubblico, l’andamento delle economie dei paesi nei quali si dirige il grosso dell’export nazionale, non sono che alcune delle voci economico-finanziarie che determinano la buona o la cattiva salute dell’economia “nazionale”; di una economia nazionale che è sempre più integrata in un’economia internazionale e che chiede ai governanti – non importa con che colore politico si vestono – di piegare le esigenze “nazionali” alle esigenze dei mercati internazionali. Per l’ennesima volta, l’economia da cortile, che piace molto ai partiti piccoloborghesi come la Lega e il M5Stelle, nei quali il piccolo industriale, il piccolo commerciante, il piccolo maneggione della burocrazia vedono il loro mondo e si sentono “padroni in casa propria”, deve fare i conti con l’economia dei grandi gruppi capitalistici, delle grandi multinazionali, dei grandi centri finanziari internazionali. E’ scritto nel corso storico del capitalismo che l’economia da cortile sparisca, e lo si è constatato da decenni; ma elettoralmente, e politicantescamente, rende ancora riferirsi a quello strato sociale: porta voti e alimenta i privilegi degli strati medi e piccoloborghesi, ma alla condizione di continuare ad ingannare non solo i proletari – cosa che la grande borghesia fa da sempre, utilizzando sistematicamente le illusioni, i pregiudizi, le abitudini, della piccola e media borghesia – ma anche una buona parte delle masse piccoloborghesi e della media borghesia che a fronte di ogni crisi economica e finanziaria viene sistematicamente rovinata e proletarizzata.

Quando i grandi partiti, che un tempo si identificavano attraverso costruzioni ideologiche complesse e, in un certo senso, coerenti con i principi dichiarati – come la Democrazia Cristiana o il Partito Comunista Italiano di togliattiana memoria – sono stati erosi, fino a implodere, sotto la reale pressione economica e sociale che il totalitarismo imperialista non poteva non attuare, ma che continuavano a decantare le virtù, le qualità e la necessità del metodo democratico e parlamentare in difesa di una civiltà che sempre più si rivela invece come la cinica e brutale ricerca spasmodica del profitto capitalistico, i partiti politici che li hanno sostituiti non hanno avuto alcuna possibilità di ereditare la “nobiltà” dei principi di giustizia sociale, dei diritti costituzionali, del vivere civile in una situazione di benessere progressivo, e perciò di distinguersi l’uno dall’altro per i metodi e i mezzi proposti per giungere a far sì che quei principi diventassero obiettivi concreti. L’inganno di una democrazia che, nei trent’anni di espansione economica dalla fine della guerra, era vestito con concessioni economiche e sociali, dava l’impressione che le “promesse” fatte allora potevano trovare concretezza grazie alla pressione democratica delle masse proletarie e al gioco parlamentare dei partiti che l’elettorato mandava in parlamento. Finito il periodo della grande espansione economica con la crisi mondiale del 1973-1975, la borghesia dominante aveva bisogno che i partiti parlamentari continuassero l’ingannevole gioco parlamentare, pur con meno risorse a disposizione da distribuire alle masse proletarie e piccoloborghesi, ma che si adeguassero all’esigenza principale del capitalismo nella nuova situazione internazionale, e cioè all’esigenza di frammentare il più possibile la massa proletaria attraverso un incrudimento della concorrenza tra proletari, sia nelle file del proletariato autoctono sia nelle file dei proletari immigrati, tanto meglio se clandestini.

Inutile dire che questo disegno della borghesia dominante, a fronte di un proletariato già rincoglionito dalle illusioni della democrazia antifascista e già schiacciato sulle esigenze prioritarie delle aziende e dell’economia nazionale, pur richiedendo del tempo per essere attuato, ha trovato terreno fertile. L’opportunismo di marca staliniana che ha fatto passare per decenni lo sviluppo del capitalismo in Russia come “costruzione del socialismo”, e che ha sostenuto con tutto il suo peso politico, militare ed economico, la collaborazione tra le classi come il non plus ultra della politica operaia, aveva già preparato il proletariato in ogni paese a farsi carico delle esigenze del capitalismo nazionale e aziendale come esigenze per le quali sacrificare i propri interessi di classe e le proprie esigenze di sopravvivenza. In un clima politico e sociale di questo genere, con una platea di partiti raffazzonati, dopo che i grandi partiti ideologizzati erano implosi, e con un proletariato che non aveva avuto ancora la forza di riorganizzarsi sul terreno di classe e di lottare esclusivamente per i propri interessi di classe, era scritto che la vita politica e parlamentare degenerasse ancor di più: l’economia da cortile fa il paio con le liti da cortile e le vicende del governo giallo-verde e, ora, del governo giallo-rosa lo dimostrano ampiamente. Le cose importanti si fanno da un’altra parte, le decisioni importanti si prendono nelle segrete stanze dei cosiddetti poteri forti.

Se già ai tempi di Lenin e di Trotsky, il parlamento non era che un mulino di parole; se già ai tempi di Marx e di Engels la classe proletaria non aveva alcun interesse di essere chiamata a votare una volta ogni tre o cinque anni per eleggere coloro che la dovevano sfruttare e schiacciare nelle condizioni di schiavitù salariale, perché mai il proletariato, oggi, dovrebbe andare ad eleggere altri sfruttatori ed altri oppressori ogni volta che viene chiamato a partecipare ad un torneo elettorale? E’ evidente che il suo reale interesse va cercato fuori dal parlamento, come d’altra parte fa la borghesia; è evidente che qualsiasi partito e capo politico vinca le elezioni e vada a posare il suo deretano sugli scranni dei deputati a Montecitorio, dei senatori a Palazzo Madama e del governo a Palazzo Chigi, non faranno mai gli interessi dei proletari, né a livello generale, né a livello immediato. Le risorse che il capitalismo mette a disposizione e che, dopo la seconda guerra imperialistica, è disposto a metterle anche limitando la propria sete di profitto, sono rivolte ad un solo risultato: mettere il proletariato nelle condizioni di non riorganizzarsi sul terreno della lotta di classe, di non lottare con mezzi e metodi di classe che lo farebbero avvicinare all’avanguardia di classe per eccellenza, che è il partito di classe, anch’esso da ricostituire come forza agente e influente in parallelo alla ripresa della lotta di classe. Ed è la situazione di generale e drammatico ripiegamento del proletariato su se stesso che lo costringe o a disinteressarsi delle questioni che riguardano i suoi interessi generali e di classe, o ad accodarsi alle forze politiche e sociali che, al momento, sembrano dare un po’ più di fiducia alle limitate  aspettative di un proletariato che ha perso vigore e forza di classe.

 

LA FASE IMPERIALISTA DEL CAPITALISMO NON CANCELLA IL RUOLO OPPORTUNISTA DEGLI STRATI PICCOLOBORGHESI E DELL’ARISTOCRAZIA OPERAIA

 

Per quanto il capitalismo, nella fase imperialista che sta attraversando, si sia rafforzato enormemente con la formazione di mostruose entità statali in grado di raggiungere rapidamente, armati fino ai denti, qualsiasi luogo sul pianeta, è un modo di produzione che non può svilupparsi del tutto automaticamente: ha bisogno di una classe borghese che controlli la classe operaia, imponendole di farsi sfruttare al fine di valorizzare i capitali investiti nella produzione, nella distribuzione e nei servizi di comunicazione per estorcerle il plusvalore e, quindi, per accumulare profitto capitalistico; ha bisogno di una classe borghese che difenda i rapporti di produzione e i rapporti sociali capitalistici esistenti, che difenda le forme della proprietà privata e dell’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta dalle quale essa stessa trae i suoi privilegi; ha bisogno che la classe borghese dominante opprima costantemente la classe proletaria che, spinta dall’antagonismo che la oppone alla borghesia, tende prima o poi a ribellarsi contro le condizioni di vita e di lavoro imposte dai capitalisti,  a scendere in lotta e a sviluppare, in una progressione dialettica e storica, la lotta di classe fino a porre il problema del potere politico. La classe borghese vive dello sfruttamento della forza lavoro salariata, ma la forza lavoro salariata, come già in tanti esempi storici precedenti, raggiunto un certo limite di sopportazione, si rivolta, si organizza e si prepara a lottare per la vita o per la morte.  Di questo corso storico del movimento di classe del proletariato, non certo lineare, la classe borghese è perfettamente cosciente; lo teme più delle sue stesse crisi economiche e finanziarie dalle quali – se controlla il proletariato e le sue spinte di classe – sa che ne può uscire, magari con una guerra, o con la guerra mondiale come è già successo due volte nel Novecento. Il problema è, per l’appunto, controllare il proletariato e le sue spinte di classe. E per questo controllo la grande borghesia non può fare a meno di servirsi della piccola e media borghesia e degli strati di aristocrazia operaia, attraverso i quali essa diffonde e approfondisce la sua influenza sulle grandi masse proletarie.

A questa bisogna hanno provveduto soprattutto le diverse ondate opportuniste, grazie alle quali il proletariato di ogni paese è stato trascinato nella prima e nella seconda guerra imperialista  mondiale. Lo sviluppo capitalistico nella fase imperialista non può evitare la guerra; può spostare il teatro di guerra, a seconda della profondità e dell’estensione dei contrasti interimperialistici, limitandolo a determinati paesi o a determinate aree, ma prima o poi maturano i fattori economici, politici, sociali e militari che fanno scoppiare una terza guerra mondiale. In questa prospettiva, che riguarda tutti i paesi capitalisti industrializzati e buona parte dei paesi di più giovane industrializzazione, la classe borghese ha la necessità di prepararsi non solo dal punto di vista dello scontro con le altre borghesie straniere, ma anche dello scontro con il proprio proletariato e la sua reazione alla guerra borghese. Ecco che ogni formula di governo che faccia riferimento alla democrazia è buona per distrarre il proletariato dai suoi interessi di classe, è buona per allenare il proletariato a lottare non per sé ma per il Capitale, è buona per rincorrere l’illusione che un cambio di partito e un cambio di governo, magari “di sinistra”, può allontanare nel tempo quella prospettiva di enorme massacro, se non fermarla se è già scoppiata o addirittura cancellarla dall’orizzonte. La fase imperialista del capitalismo, quindi la fase totalitaria della politica borghese – anche se mascherata da impotenti forme “democratiche” – non lascia alternative al proletariato: o si sottomette completamente al dominio borghese e si dispone a trasformarsi in carne da macello tutte le volte che la borghesia di un paese entra in guerra contro la borghesia degli altri paesi, oppure si rialza dall’abisso sociale e politico in cui le forze opportuniste della conservazione sociale lo hanno fatto precipitare, e torna a calpestare l’unico terreno, quello di classe, che può aprirgli la via del ritorno della lotta di classe nella prospettiva della rivoluzione proletaria.

 

IL CAMBIO DI CASACCA AL GOVERNO NON PORTERÀ NESSUN VANTAGGIO PER IL PROLETARIATO

 

Ora che il governo giallo-verde di Roma è caduto miseramente e che un nuovo governo, questa volta giallo-rosa, targato M5S-PD, con lo stesso Presidente del Consiglio del precedente, denominato Conte-bis, si è instaurato, la temuta instabilità temporanea della situazione politica in Italia sembra essere scacciata. Il giovane Movimento 5 Stelle che, nel giro di pochi anni, si è ritrovato catapultato nelle stanze dei Palazzi che contano, al primo sgambetto ricevuto è corso, così, nelle braccia del più che esperto e maneggione Partito Democratico, ormai più che consolidato partito dell’ordine e della Costituzione, garante perciò nei confronti della grande borghesia nazionale e degli alleati internazionali, europei e americani. E’ certo che non mancheranno contrasti e litigi tra questi due partiti di governo, ma sugli scogli più appuntiti della traversata governativa – immigrazione, grandi opere, sostegno alla crescita economica – si troveranno automaticamente d’accordo, come non mancheranno di battere rumorosamente i tamburi declamando a voce spiegata la necessità della lotta contro l’evasione fiscale, contro la povertà, contro le diseguaglianze… E non mancherà l’apertura da parte del nuovo governo agli incontri con i sindacati tricolori per concordare manovre e atteggiamenti verso un proletariato che, per quanto piegato e in difficoltà anche soltanto a difendere i suoi elementari interessi immediati, è sempre bene tenere d’occhio perché la politica di lacrime e sangue che necessariamente sarà varata, pur limandone qualche spigolo acuto, per sostenere la famosa crescita economica, potrebbe provocare manifestazioni ed esplosioni di rabbia e di lotta che i sindacati collaborazionisti, oltre alle forze di polizia, sono chiamati a controllare e a contenere.   

Il cosiddetto “centro-destra” alle elezioni del marzo 2018, costituito da Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, con l’andata al governo della Lega insieme al M5S, si è disgregato. La berlusconiana Forza Italia, erosa sistematicamente dall’attività politica e sociale della Lega, è l’unica rimasta a sventolare la bandiera del “centro-destra” come era formato in precedenza, in alternativa a qualsiasi alleanza delle altre forze politiche, ovviamente M5S e PD compresi; Fratelli d’Italia, che ha riunito intorno a sé pezzi dell’ex Msi, dell’ex Alleanza nazionale e di destri variamente collocati, ha cercato di saltare nel presunto carro vincente della Lega, staccandosi dall’abbraccio soffocante di Forza Italia, proponendosi come fedele alleato perché condivide gli stessi obiettivi della Lega, ma è rimasta scornata per ben due volte di seguito: prima perché la Lega se ne è andata a braccetto con il M5S, e oggi perché la Lega sta correndo per conto proprio. Di fatto, questo sgretolamento del “fronte delle destre”, che segue a distanza di anni lo sgretolamento del “fronte delle sinistre”, è un ulteriore segnale di come la borghesia dominante lasci razzolare nel proprio pollaio tanti galli, ognuno dei quali cerca di fare le scarpe all’altro in un gioco che ha un unico effetto di peso: confondere il proletariato circa le linee politiche di ognuno dei contendenti che, in realtà, rivendicano esattamente le stesse cose di fondo : la crescita economica, innanzitutto, la difesa dell’economia nazionale, la ricerca della stabilità politica, una politica degli investimenti più aggressiva, una maggiore formazione tecnologica delle aziende e della gioventù, un maggior sostegno dello Stato alle esportazioni ecc.; ma, per distinguersi, ognuno di loro sottolinea in particolare una parola o un aspetto che riflette più direttamente il proprio elettorato. Così la Lega punta molto sull’autonomia regionale e sulla lotta contro l’immigrazione “clandestina”, il M5S sullo sviluppo del Sud e sulla “lotta alla povertà”, il PD e Leu sull’ordine repubblicano e democratico, sull’istruzione, la cultura e il lavoro, il partito di Berlusconi sulle competenze politiche ed economiche governative ecc. ecc.

Quanto durerà il nuovo governo Conte-bis, non lo sanno nemmeno i protagonisti. Intenzionati a togliere la situazione dall’inceppamento dovuto all’iniziativa della Lega, recitano anch’essi, come d’altra parte facevano prima il M5S e la Lega, la parte di quelli che sono lì per cambiare la situazione. Il governo giallo-verde si era targato come il governo del cambiamento, rispetto a quelli “di sinistra” di Renzi e Gentiloni; oggi, il governo giallo-rosa si targa come il governo che vuole portare avanti il cambiamento iniziato in precedenza, ma caratterizzato da una “discontinuità” – come l’ha chiamata il PD – rispetto alle incursioni al limite della costituzione repubblicana che fecero Salvini e la Lega. Di fatto, sempre che vadano abbastanza d’accordo per stare insieme almeno quanto la Lega e il M5S, non potranno che portare avanti politiche che vadano a facilitare, se le condizioni generali lo permetteranno, la crescita economica, l’unico fatto che potrà sostenere qualche altra misura di sostegno alla tante volte promessa diminuzione delle tasse, di sostegno all’esportazione, alla salvezza di qualche migliaio di posti di lavoro nelle aziende come l’Ilva, la Wirpool, l’Alitalia e altre simili ecc. Ma crescita economica, nel capitalismo, significa sostanzialmente aumento della produttività del lavoro e aumento della produttività del lavoro significa aumento dello sfruttamento della forza lavoro: nella stessa unità di tempo produrre di più con meno operai occupati! L’aumento della produttività del lavoro si ottiene anche attraverso l’innovazione tecnologica della produzione e della distribuzione, il che significa, appunto, meno lavoratori per unità di produzione perché una parte delle operazioni e delle lavorazioni avvengono attraverso macchinari tecnologicamente avanzati e la loro parziale robotizzazione. Nell’un caso e nell’altro, significa intensità di sfruttamento dei proletari occupati e maggiore concorrenza tra proletari, non solo sul piano delle relative “specializzazioni”, ma anche sul piano del salario. In pratica, la precarietà e la disoccupazione non spariranno, ma aumenteranno, e i salari tendenzialmente si abbasseranno perché il costo della vita aumenterà, peggiorando in questo modo le condizioni di vita e di lavoro dell’intero proletariato.

Dunque, tutti i partiti di governo e di opposizione sono d’accordo perché riprenda la crescita economica; tutti d’accordo, perciò, che la forza lavoro salariata venga sfruttata più intensamente, e sia sottoposta ad una più forte concorrenza tra proletari, giustificata come necessaria formazione tecnica e tecnologica che il moderno apparato industriale, commerciale, bancario e dei servizi richiede per stare al passo con la concorrenza internazionale. Che cosa cambia sostanzialmente per i proletari, se al governo c’è un M5S, la Lega, il Pd o qualsiasi altra formazione politica che nascerà domani, come ieri nacque il partito di Berlusconi? Cambia la guardia, cambiano coloro che per compito hanno quello di difendere la struttura economica e sociale capitalistica esistente, oliandone al meglio gli ingranaggi perché la valorizzazione del capitale non abbia intoppi e perché le masse proletarie non agiscano in modo indipendente a difesa dei loro interessi di classe contro gli interessi non solo della classe dominante borghese, ma contro gli interessi di tutti gli strati sociali che vivono sulle spalle della forza lavoro salariata.

 

I TEMPI DURI, PER IL PROLETARIATO, NON SONO FINITI

 

Il futuro per il proletariato, in Italia come in qualsiasi altro paese, è segnato da politiche di lacrime e sangue che ogni governo dovrà adottare per “uscire dalla crisi” e “sostenere la crescita economica”. I proletari, finché restano prigionieri delle illusioni democratiche, della visione individualistica della vita, finché restano prigionieri della collaborazione di classe dalla quale si illudono di ottenere qualche vantaggio, o perlomeno di non peggiorare la loro attuale condizione, non avranno se non il futuro che la borghesia capitalistica ha disegnato per tutti loro: lo sfruttamento della loro forza lavoro diventerà più intenso e brutale, la divisione tra anziani e giovani, tra uomini e donne, tra autoctoni e immigrati, tra specializzati e meno specializzati, tra occupati, disoccupati e precari di ogni tipo, tra coloro che sono disposti ad accettare condizioni di lavoro e di vita peggiori pur di “lavorare” e portare a casa un “salario” e coloro che non sono disposti ad accettare quel peggioramento, diventerà una divisione sempre più dolorosa facilitando l’opera rancorosa e razzista degli strati piccoloborghesi e reazionari.

Questa è solo una descrizione molto sommaria di quel che la borghesia sta preparando per il futuro dei proletari. Ma va aggiunto un fatto: il corso di sviluppo capitalistico produce inevitabilmente fattori di crisi che, aumentando la potenza del capitale monopolistico e delle entità statali che ne proteggono gli interessi nazionali e internazionali, non potranno che essere più disastrose e devastanti di quelle che si sono conosciute finora. La forza lavoro proletaria verrà, nello stesso tempo, ancor più schiacciata nelle sue condizioni quotidiane di vita e di lavoro e ancor più lacerata nei suoi rapporti sociali e personali, illusa dalle forze opportuniste sul piano sindacale, politico, morale, religioso, che i sacrifici richiesti e imposti nell’oggi sono inevitabili e senza i quali non è possibile sperare in un miglioramento nel domani. La forza del capitale, assimilata ad una forza “naturale” se non “divina”, viene presentata come qualcosa contro cui si può lottare solo fino ad un certo punto, come qualcosa con cui non si può rompere perché il risultato sarebbe terribile per sé stessi, per la famiglia, per la società; come qualcosa, quindi, con la quale ognuno deve trovare un modus vivendi, un rapporto nel quale non si può che accettare il suo incontrastato dominio, ma nel quale si può sperare di non morire se ci si dispone individualmente a comportarsi secondo le regole che la società si è data e si dà di volta in volta, e sperare che non succeda qualcosa di molto grave come di fronte ad un terremoto, ad un’alluvione, ad un’esplosione vulcanica.

Tutte le diverse forze di conservazione borghese concorrono, ognuna con un ruolo specifico, a far sì che i proletari continuino ad essere schiavi contenti, che continuino a credere che la crisi capitalistica che li getta ancor più nella disoccupazione, nella miseria, nella fame, può essere superata grazie alle iniziative di governi competenti, di governi che sanno manovrare le complicate leve dell’economia e della finanza, di governi che ascoltino il grido di dolore delle masse e che si preoccupino di portare loro un minimo di sollievo. Tutte le diverse forze di conservazione borghese si adoperano perché il principio democratico, il metodo democratico e la democrazia in generale, in politica come in economia, prevalgano su qualsiasi altro principio, metodo e linea politica. In una fase in cui il capitalismo diventa sempre più accentratore, sempre più totalitario, sempre più dittatoriale, queste forze rappresentano, in realtà, la più feroce reazione, sebbene vestita con paludamenti popolari. La democrazia borghese dell’epoca imperialistica non è soltanto un colossale inganno nei confronti del proletariato, è la politica reazionaria della classe dominante borghese. Politicamente la destra, il centro o la sinistra finiscono per sovrapporsi senza forti distinzioni tanto da porre la domanda: che cos’è oggi di “destra”, che cosa di “sinistra? La distinzione politica si è impallidita a tal punto che ogni formazione politica cosiddetta di destra e cosiddetta di sinistra non ha problemi nell’adottare le stesse misure che si rendono necessarie per difendere al meglio il capitalismo nazionale e le esigenze della classe borghese dominante nazionale. Il “cambio di governo”, in realtà, risponde più alla concorrenza tra formazioni politiche che rappresentano diversi gruppi borghesi che si riferiscono a diversi interessi economici e finanziari, più che al contrasto tra linee politiche e programmi politici opposti. Infatti, a seconda del prevalere di un gruppo borghese o di un altro, certi partiti possono essere in un momento al governo e nel momento successivo all’opposizione, per poi tornare nuovamente al governo senza che nella società si formino fenditure e rotture profonde: fondamentalmente, gli interessi generali del capitalismo non sono mai stati messi in pericolo. Quando il proletariato darà segni evidenti di rottura con la collaborazione di classe, attraverso la ripresa della lotta classista e la sua riorganizzazione di classe sul terreno immediato, per contrastarne lo sviluppo, si formeranno certamente altri raggruppamenti politici che si faranno passare per i più genuini rappresentanti degli interessi proletari, se non addirittura “rivoluzionari”, ma con il compito di riportare i proletari nell’alveo della collaborazione interclassista e così ricostituire quelle forze dell’opportunismo di cui la classe dominante borghese avrà bisogno nel periodo in cui dovrà piegare ancor di più le masse proletarie alle esigenze di più forte concorrenza internazionale e di guerra.

I partiti non nascono mai dal nulla. I partiti si formano sempre sulla base economica-sociale-politica della società esistente e rappresentano nella lotta fra le classi gli interessi di ciascuna classe, così i partiti borghesi come i partiti operai. Quando l’aperta lotta fra le classi segna decisamente un periodo storico che la società attraversa, i partiti definiscono con più chiarezza il proprio ruolo e la propria capacità di agire. In un periodo di assenza della lotta di classe proletaria, come l’attuale, e in una situazione economica e sociale di capitalismo imperialistico avanzato, tutti i partiti politici che, in un modo o nell’altro, difendono il capitalismo, possono contare sulle risorse che i vari gruppi borghesi mettono a disposizione perché i propri interessi di parte vengano rappresentati e difesi in sede politica e nella vita sociale, partecipando ad una competizione, caratteristica del mercato, dove ognuno grida le “qualità” della propria merce, e dove, alla fine dei conti, quel che conta non è che cosa si vende, ma vendere quel che si ha in quel momento, perché è il sistema mercantile che regola i rapporti tra venditori e consumatori, come tra capitalisti e lavoratori. La merce che si vende può variare continuamente, può essere prodotta in zone vicine o in paesi lontani, ma l’importante è che sia vendibile e che il mercato in cui la si vende non sia saturo. Nella società borghese, i programmi politici, le idee, sono in realtà merci sottoposte alle stesse regole di fondo di qualsiasi altra merce, e i partiti borghesi non sono che venditori di programmi, venditori di idee, programmi e idee sottoposti a loro volta alle oscillazioni del mercato e destinati a cambiare ingredienti, forme e colori a seconda delle “richieste” di mercato.

 

PARTITI BORGHESI E PARTITO PROLETARIO RIVOLUZIONARIO

 

A differenza dei partiti borghesi – dichiaratamente borghesi o, falsamente operai, ma sostanzialmente borghesi – il partito politico proletario di classe, il partito comunista rivoluzionario, è caratterizzato da una teoria, da un programma, da principi e obiettivi storici assolutamente invarianti. Il partito rivoluzionario di classe del proletariato non nasce dalla lotta di classe del proletariato, ma si forma parallelamente ad essa; non è il rappresentante di un nuovo modo di produzione già operante nella società le cui forze produttive sono in continuo sviluppo, ma è il rappresentante di un modo di produzione avvenire, del futuro che poggia sulle basi economiche del capitalismo sviluppato, ma che, per liberare il pieno sviluppo delle forze produttive create dal capitalismo, deve guidare la classe del proletariato, a livello internazionale, alla sua rivoluzione di classe, distruggere il potere politico della borghesia e instaurare, contro la dittatura del capitale imperialistico, la sua dittatura di classe. Soltanto attraverso la rivoluzione della classe proletaria potrà attuarsi un cambiamento radicale nell’intera società; persistendo il potere politico borghese, il cambiamento della società non avverrà mai perché le basi economiche e sociali del capitalismo, se non vengono forzate radicalmente dal movimento rivoluzionario della classe proletaria, continueranno a produrre sfruttamento del lavoro salariato, oppressione sociale e guerre di rapina. 

Mentre i partiti borghesi cambiano i propri principi e i propri programmi a seconda del variare dei rapporti di forza all’interno della classe borghese nazionale e nell’ambito dei rapporti borghesi internazionali, il partito proletario di classe ha sempre gli stessi principi e gli stessi obiettivi storici, validi internazionalmente: i principi della rivoluzione proletaria, della conquista violenta del potere politico e della distruzione dello Stato borghese, dell’instaurazione della dittatura di classe esercitata unicamente dal partito proletario di classe, della trasformazione economica della società nel socialismo, come fase inferiore del comunismo che è la futura società senza classi, la società di specie. Se il partito proletario non risponde a questa teoria, a questi principi, a questo programma e a questi obiettivi storici, aldilà della sua consistenza numerica e delle sue dichiarazioni formali, non è il partito proletario di classe, non è il partito comunista rivoluzionario, è un partito votato all’opportunismo e al tradimento della causa proletaria.  

Il partito comunista rivoluzionario fa riferimento ad un’unica teoria, il marxismo, che è, nello stesso tempo, 1) spiegazione dello sviluppo storico delle società umane nelle loro diverse strutture economiche, sociali e politiche, dalle rivoluzioni che le hanno instaurate alle controrivoluzioni con cui tentavano di resistere ad uno sviluppo delle forze produttive che ne demolivano le forme produttive in cui le vecchie classi dominanti le costringevano, 2) individuazione delle classi rivoluzionarie che si formavano in ogni società divisa in classi antagoniste e che, storicamente, pur nelle contraddizioni dello sviluppo sociale, assumevano oggettivamente il compito di far avanzare il progresso della società a modi di produzione superiori, 3) previsione della fine necessaria del capitalismo, come ultima società divisa in classi, attraverso la rivoluzione dell’unica classe rivoluzionaria moderna, il proletariato, e del passaggio violento a livello internazionale dal capitalismo al socialismo e, infine, al comunismo, attraverso l’instaurazione della dittatura di classe esercitata dal partito proletario di classe, dittatura di classe destinata ad esaurire il suo compito storico nella misura in cui la trasformazione economica e sociale del socialismo si attua pienamente e a livello internazionale. Il marxismo è, quindi, oltre che teoria rivoluzionaria, anche guida rivoluzionaria di tutto il processo storico che dal capitalismo porta al socialismo e, successivamente, al comunismo. Il partito proletario di classe, perciò, è insieme partito storico (in sintesi, la teoria rivoluzionaria) e partito formale (in sintesi, la compagine fisica del partito) che  prepara e guida il proletariato alla rivoluzione di classe ed esercita la dittatura proletaria una volta conquistato il potere politico e abbattuto lo Stato borghese, in un quadro di lotta rivoluzionaria  internazionale.

Un partito di questo genere che, dal punto di vista formale, può naturalmente cedere e degenerare, come è già successo nel corso del movimento proletario internazionale, è comunque chiamato a svolgere un compito sia prima della rivoluzione proletaria – nel periodo, che può essere anche molto lungo, in cui vanno maturandosi più o meno lentamente i fattori favorevoli allo scontro di classe con la borghesia e alla lotta rivoluzionaria –, sia durante il periodo rivoluzionario – in cui la rivoluzione può iniziare e vincere in uno o più paesi, instaurando la dittatura di classe che, in attesa di espandersi a livello internazionale, ha il dovere di resistere e di sostenere la lotta rivoluzionaria negli altri paesi ancora dominati dalla borghesia – sia nella gestione dell’economia e della vita sociale operando per una, anche se lenta, ma decisa, trasformazione dell’economia in senso socialista. Un partito di questo genere è completamente diverso da tutti gli altri partiti politici che si sono formati come partiti della società divisa in classi, perché non poggia la sua azione su un nuovo modo di produzione già avviato all’interno delle vecchie forme sociali e politiche della società che va esaurendo il suo compito storico – come è sempre successo per le società precedenti e per lo stesso capitalismo –, ma la poggia direttamente sulla sola lotta di classe che il proletariato è spinto a portare al punto più estremo, alla lotta per la conquista del potere politico centrale in ogni paese al di là del pieno sviluppo capitalistico del paese in cui quella lotta si attua. L’esempio della Russia bolscevica lo ha dimostrato. Le basi economiche e materiali della rivoluzione proletaria sono date dal capitalismo, dal suo modo di produzione che, sviluppandosi attraverso le proprie contraddizioni economiche, sociali e politiche, permetterà alla società socialista futura di utilizzare lo sviluppo tecnico della grande industria esistente e di indirizzare la produzione sociale verso la soddisfazione dei bisogni della comunità umana e non dei bisogni del mercato capitalistico, economicamente e finanziariamente inteso. Questa contraddizione della società capitalistica, che condivide con lo sviluppo delle società precedenti solo il piano dello sviluppo delle forze produttive che premono sulle forme in cui la società vigente le contiene, fino a farle saltare, obbliga l’unica classe rivoluzionaria della società capitalistica, cioè il proletariato, a lottare prima sul piano politico generale per poi applicarsi alla trasformazione economica dell’intera società. Anche la borghesia rivoluzionaria ha dovuto lottare per la conquista del potere politico in modo da liberare il modo di produzione capitalistico, già operante, dai limiti e dagli stretti vincoli in cui lo costringeva il feudalesimo. Ma il modo di produzione capitalistico esisteva già e il suo prorompente e oggettivo sviluppo richiedeva l’abbattimento del feudalesimo per potersi esprimere pienamente; la borghesia, già sotto il feudalesimo, nei paesi in cui il capitalismo già si sviluppava, rappresentava un potere economico decisivo e, per poter disporre pienamente delle forze produttive necessarie allo sviluppo capitalistico, doveva poter accedere senza troppi vincoli alla terra, alle risorse naturali e alla nuova forza lavoro salariata. La conquista del potere politico da parte sua era la risposta.

Al proletariato non è dato avere già operanti le basi economiche del socialismo; le deve instaurare e sviluppare sulle macerie del capitalismo. E’ la classe dei senza riserve e dei senza patria, ma è la sola classe che rappresenta storicamente l’opposto completo della classe borghese, e che ha il compito di distruggere la società basata sulla proprietà privata e, soprattutto, sull’appropriazione privata della produzione sociale. I partiti borghesi, che siano espressione della grande borghesia, della media o della piccola borghesia, da decenni vivono nella situazione in cui il capitalismo non crolla e non crolla nemmeno il potere politico della classe borghese. Possono contrattare, fare accordi, stracciare contratti, litigare, opporsi uno all’altro, mandare in rovina il tal gruppo di interessi per privilegiarne un altro, scambiarsi i posti di comando, farsi la guerra: tanto il capitalismo è sempre in piedi e i borghesi possono sempre puntare a conquistare privilegi ulteriori, l’importante è che il proletariato si lasci sfruttare al limite delle sue forze fino allo sfinimento, che accetti la sua condizione di schiavo salariato senza ribellarsi violentemente.

I Salvini, i Renzi, i Di Maio, i Berlusconi, tanto per citare i noti di oggi, come chi li ha preceduti e chi li seguirà, fanno la loro più o meno lunga stagione di teatranti sul palcoscenico, come marionette che il capitale muove a sua discrezione; sono convinti di controllare la forza del capitalismo per dirigerla a beneficio dei loro piccoli e miseri interessi personali o di gruppo, e non si accorgono che sono piccoli e miseri apprendisti stregoni che non hanno alcun potere rispetto alla potente e impersonale forza sociale del capitale. All’immediato fanno del male a molti proletari, italiani e non italiani, mandano in rovina dei loro concorrenti, favoriscono ora tizio ora caio per interesse personale e di gruppo; insomma fanno quel che fa ogni borghese che si ritrova un potere in mano che gli dà la possibilità di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. E per questo loro “fare” sono odiati da coloro che vengono colpiti dalle loro azioni. Ma nessuno di loro è il salvatore della patria, o il salvatore dell’economia capitalistica. E’ il capitale che muove i capitalisti, e non viceversa; il loro compito è quello di opprimere e reprimere le masse proletarie per poterle sfruttare al massimo e alimentare la valorizzazione del capitale attraverso il loro sistematico sfruttamento.

Soltanto un’altrettanta potenza e impersonale forza sociale potrà misurarsi e vincere il capitale, e questa forza è rappresentata dal proletariato, la classe dei senza riserve, dei senza patria, della maggioranza degli abitanti di questo pianeta che non hanno alcun interesse a mantenere questa società in piedi, ma hanno tutto l’interesse di combatterla e distruggerla per sostituirla con una società a misura d’uomo, una società di specie. Tempo verrà, ma la storia non si piega ai voleri della classe capitalistica, come non si è piegata ai voleri della classe feudale e aristocratica o schiavistica delle epoche lontane; e come non si piegherà alla semplice volontà di un partito proletario per quanto compatto e potente sia. Il partito proletario rivoluzionario è sicuramente prodotto della storia delle lotte di classe, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, ma diventa fattore di storia nel periodo in cui le forze materiali dello sviluppo capitalistico e delle sue contraddizioni spingeranno il proletariato sul terreno della lotta per la vita o per la morte, guidandolo alla rivoluzione e alla vittoria del socialismo.

Per quanto la classe borghese faccia e farà per non scomparire dalla faccia della terra, non riuscirà nel suo intento e non perché si alzerà un giorno un Marx o un Lenin a dichiarare la sua morte, ma perché le stesse forze produttive da essa evocate, prima o poi la travolgeranno. Allora sarà il tempo in cui il proletariato, riprendendo la sua lotta di classe, dovrà incontrare il suo partito di classe, quel partito che non ha mai cambiato rotta, non ha mai cambiato principi e programmi e che avrà fatto tesoro di tutte le lezioni tratte non solo dalle poche vittorie ottenute finora, ma soprattutto dalle molte sconfitte.      

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

14 settembre 2019

www.pcint.org

 

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