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Sciopero sulle piattaforme norvegesi nel Mare del Nord.

Dopo il diktat dell'armonia nazionale contro il nemico Covid, la lotta proletaria non deve sottomettersi nuovamente al ricatto della crisi e della guerra imperialista

 

 

Il 5 luglio è scoppiato uno sciopero di parte del personale delle piattaforme di gas e petrolio nel Mare del Nord. I lavoratori in lotta sono dei quadri che svolgono funzioni di responsabilità nel controllo della produzione e un a loro interruzione del lavoro significa anche l’interruzione dell’attività sulle piattaforme interessate dalla lotta (1). Le loro richieste riguardano il recupero salariale. Come al solito per ogni sciopero imbarazzante per la borghesia, la mancanza di informazioni non permette di sviscerare l’intero corso di questa lotta. Ma, per quanto breve sia stata, un solo giorno, il 5 luglio, si è svolta in un contesto internazionale di guerra economica e militare in cui gli Stati borghesi non tollerano dai proletari se non la loro sottomissione e il loro inquadramento al servizio del capitalismo. Vi sono, quindi, delle lezioni da tirare da questo punto di vista.

Vediamo il contesto. Con la guerra imperialista sul campo di battaglia ucraino e la parallela e simultanea guerra di rappresaglie economiche tra i due blocchi belligeranti, l’energia e le materie prime sono diventate un’arma di distruzione economica e finanziaria. Rispondendo ai colpi delle sanzioni economiche provenienti dall’Occidente, la Russia ha reagito con altri missili economici per evitare il crollo del rublo in particolare e per beneficiare oggi dei prezzi altissimi di gas e petrolio.

Con queste materie energetiche, la Russia ha anche un’arma assoluta di ricatto contro i paesi europei. Pretendendo il pagamento del gas e del petrolio in rubli e non più in dollari, pena la chiusura dei rubinetti, la Russia è riuscita non solo a consolidare la propria moneta e ad aumentare il prezzo del gas, ma anche ad indebolire economicamente e socialmente l’imperialismo europeo.

L’inflazione sta colpendo con forza la classe operaia, che già dopo la crisi del Covid-19 non aveva più riserve e che oggi può potenzialmente far esplodere la pace sociale al di fuori di ogni controllo delle forze politiche, sindacali e sociali destinate a questa funzione di controllo. Il nemico economico e militare è noto, la Russia. È noto anche il nemico sociale interno, il proletariato. E ciò scuote tutte le democrazie europee che si affrettano ancor più a costituire il loro cordone di sicurezza fatto di associazioni, sindacati e partiti riformisti, ma, nello stesso tempo, vanno rafforzando in modo permanente il loro cordone di sicurezza e di sorveglianza poliziesche.

In particolare in Francia, in questo momento di gioco parlamentare nel nuovo parlamento, il tema dell’appello alla coesione nazionale fa parte di tutti i dibattiti. Per paesi come Lettonia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria ed Estonia, l’importazione di gas russo, più critico in termini di approvvigionamento rispetto al petrolio, rappresenta dal 93% al 100% del loro fabbisogno di questa fonte energetica. Quanto alla Germania, la cui economia trascina tutta l’Europa e la cui profonda crisi trascinerebbe tutti gli altri paesi europei al collasso totale per effetto domino, dipende fino al 66% dalla Russia per le sue forniture di gas. Gli altri fornitori di gas per l’Europa sono la Norvegia dal 20% al 25%, l'Algeria per il 12%, il Regno Unito per il 6%, poi gli Stati Uniti e il Qatar, ciascuno per il 5%. Giustificandosi per il rifiuto di pagare in rubli o per altri motivi, la Russia ha quindi chiuso il ribinetto o ridotto il flusso di gas per molti paesi europei: Polonia, Bulgaria, Finlandia, Paesi Bassi, Danimarca, Francia. L'Italia ha subito un dimezzamento delle forniture e va incontro a seri problemi per il prossimo inverno nonostante i nuovi accordi per il gas proveniente dall’Algeria. Intanto Gazprom sta riducendo del 60% le consegne di gas attraverso il gasdotto Nord Stream 1 verso la Germania.

La dipendenza dell’Europa dal petrolio russo è del 25% e, anche se soluzioni di approvvigionamento alternative sono più facili da trovare rispetto al gas, possono essere raggiunte solo acquistando un greggio i cui prezzi sfondano tutti i massimali conosciuti, alimentando ancora di più l’inflazione.

Quali che siano le parole rassicuranti che tutti i leader politici borghesi d’Europa diffondono davanti alle telecamere, la crisi è profonda e le sue imprevedibili ripercussioni sociali li preoccupano più di quanto non mostrino. I paesi amici, o «neutrali», produttori di gas o petrolio sono quindi fermamente invitati a compensare i tagli del gas russo con un aumento massimo della loro produzione, al di là delle conseguenze per i proletari.

La Norvegia è particolarmente presa di mira, si tratta di sopravvivenza economica e di equilibrio sociale in Europa. La borghesia trema all’idea che le aziende, prive di gas o petrolio o incapaci di assorbire gli aumenti dei prezzi, dovranno un giorno chiudere i battenti, che il riscaldamento degli edifici non sarà più garantito, che i lavoratori non potranno più recarsi al loro posto di lavoro, insomma che si installi il caos. La paura della borghesia è più che mai lo spettro della lotta di classe che si manifesta sempre nei momenti peggiori, quando gli ammortizzatori sociali, economici e politici si infrangano sullo scoglio della crisi capitalista, con la guerra imperialista sullo sfondo, geograficamente localizzata, per il momento, ma che potrebbe estendersi oltre l’Ucraina se ciò diventasse l’interesse degli imperialismi sia d’Oriente che d’Occidente.  

In questi momenti di violente tensioni e scontri bellici dei blocchi imperialisti, la borghesia ha bisogno della più perfetta coesione sociale e collaborazione dei proletari negli sforzi della guerra economica e militare. Se non ci riesce attraverso la sottomissione consensuale e «responsabile» dei proletari, si serve di coercizione e costrizione che vanno dai mezzi forniti dall’arsenale delle leggi democratiche per confinare lotte e agitazioni sociali al terreno del «dialogo sociale» legalmente obbligatorio e costretto, a quelli dell’aperta brutalità giudiziaria, fisica e armata.

Quel che si sta svolgendo oggi in Europa affinché il proletariato accetti il ​​suo stato di schiavitù nello sfruttamento capitalista e si arrenda anima e corpo ai sacrifici imposti dalla crisi capitalista economica e guerresca, assomiglia a quella che è stata, nei primi anni del secondo dopoguerra, la «battaglia del carbone» (2). Il carbone di un tempo è, oggi, gas e petrolio, e la borghesia in Europa conta sui proletari norvegesi che lavorano sulle piattaforme del Mare del Nord, per raccogliere questa sfida della produzione in questi nuovi tempi di guerra. Quindi niente sciopero! Nel 2022 come nel 1945-1948!

Ma in questo luglio 2022 l’orizzonte del consenso e del sacrificio sociale si è improvvisamente oscurato sulle piattaforme petrolifere e del gas del Mare del Nord con lo sciopero sulle piattaforme della società Equinor (di proprietà, a maggioranza, dello Stato norvegese). Inizialmente, ha coinvolto un centinaio di quadri e ha interessato 3 piattaforme, quelle di Gudrun, Oseberg South e Oseberg East. Gli scioperanti sono organizzati all’interno del grande sindacato Lederne. All’origine della lotta, la questione dell’inflazione e le sue conseguenze sul potere d’acquisto. La mobilitazione dei lavoratori è iniziata a maggio, i sindacati, tra cui Lederne, negoziano rapidamente un accordo salariale con la direzione che prevede un aumento salariale dal 4% al 4,5%. Ma in quel momento l’inflazione era già al 5,7%! A questa farsa, i lavoratori sindacalizzati di Lederne hanno reagito rifiutando a larga maggioranza questo accordo obbligando il sindacato a presentare un preavviso di sciopero... per martedì 5 luglio.

Tre piattaforme, che rappresentano l’1% delle esportazioni di gas norvegesi, sono state inizialmente interessate dallo sciopero annunciato. Al movimento si sono rapidamente aggiunte altre 4 piattaforme, che questa volta rappresentano il 13% delle esportazioni. Per stessa ammissione dei capi, il movimento di sciopero non poteva che diffondersi a macchia d’olio su tutte le piattaforme. L’organizzazione padronale Norsk Olje & Gass stimava l’impatto dello sciopero sul 56% delle esportazioni di gas se si fosse allargato da una piattaforma all’altra, prolungandosi fino alla fine della settimana. I media non si sono soffermati troppo sulla storia e sui motivi dello sciopero, d’altronde tutti hanno fatto eco alle terribili preoccupazioni borghesi circa le sue conseguenze economiche e strategiche. La prospettiva stessa di questo sciopero, ancor prima che iniziasse, sicuramente surriscaldando i telefoni nei colloqui tra tutte le cancellerie coinvolte, ha scosso tutti gli strati dirigenti sia dello Stato norvegese che degli Stati clienti, in particolare della Gran Bretagna, di cui la Norvegia provvede al 42% del fabbisogno interno e che riesporta in grandi quantità in Belgio, Paesi Bassi e Francia, il cui 40% del gas consumato proviene da questo paese, sicuramente surriscaldando i telefoni nei colloqui tra tutte le cancellerie coinvolte.

Rispetto al rischio di perdere profitti giganteschi, ma anche di fronte a una situazione in cui lo Stato norvegese si è mostrato incapace di mantenere gli impegni bellici per la produzione destinata ai paesi europei, il governo socialdemocratico norvegese, avvertito con 2 mesi di anticipo, non ha perduto tempo: martedì sera 5 luglio, primo e unico giorno di sciopero, ha colpito gli scioperanti con una legge che li obbliga, pena sanzioni legali, a tornare al lavoro e a rimettersi ad un’istanza «indipendente», ma molto ufficiale, di collaborazione di classe per «gestire» il resto del conflitto.

Il ministro del Lavoro del governo di «sinistra», Marte Mjos Persen, dichiarerà: «L’aggravamento dell’annunciato movimento è molto preoccupante nella situazione attuale, con la crisi energetica e la situazione geopolitica, c’è una guerra in Europa», ma anche «Quando il conflitto può avere conseguenze sociali così significative per l’intera Europa, non ho altra scelta che intervenire nel conflitto». Ha così espresso quanto la questione sociale sia oggi essenziale per la borghesia e quanto il pericolo di esplosione sociale la tormenti.

Un’altra citazione che fa luce sul metodo di supervisione legale del proletariato in Norvegia, come nei paesi nordici in generale, è quella di Maria Schumacher Wenberg, viceministra: «Secondo il processo di risoluzione delle controversie salariali in Norvegia, è responsabilità delle parti sociali trovare una soluzione a qualsiasi conflitto». Il sindacato, appartenente alla grande Confederazione LO  (Landesorganisasjone) che è un immancabile sostegno dei socialdemocratici (New Labour), ha obbedito senza storcere il naso.

Ovviamente non conosciamo tutte le condizioni reali e la storia di questo breve sciopero da parte dei quadri offshore norvegesi e non siamo in grado di trarre tutte le lezioni con certezza.

Tranne una: quella che fa di questo sciopero, sul tema della resistenza al consenso nazionale, un esempio per tutti i proletari che subiscono le potenti e incessanti pressioni del capitalismo per far pagare a loro la crisi, in particolare attraverso il reclutamento e l’identificazione ideologica consistenti nel sacrificarsi per la «buona causa» della «guerra giusta» e dalla «parte giusta». Il discorso borghese della guerra delle democrazie contro la barbarie della Russia in Ucraina maschera la vera natura imperialista della guerra e l’intera responsabilità nel suo scoppio della società capitalista che esacerba gli antagonismi degli Stati borghesi finché non vengono risolti dalla guerra quando i negoziati diplomatici ed economici pacifici sono divenuti sterili e incapaci di risolvere i rapporti di forza economici.

I proletari non devono cadere nella trappola ideologica tesa loro dalla borghesia. Rifiutarsi di partecipare alla pace sociale, non sottomettersi ai diktat produttivistici di un’economia che è entrata in guerra, ma al contrario affermare e combattere con le sue armi e la sua indipendenza di classe per difendersi dal deterioramento delle condizioni di vita, in particolare contro la brutale erosione dei salari di fronte all’inflazione, a usare l’arma dello sciopero in ogni circostanza, a rifiutare ogni ricatto al tradimento della «buona causa» e all’«irresponsabilità», e infine a dimostrare che gli interessi dei proletari non sono integrabili in quelli del capitalismo e che non c’è convergenza tra loro: questa è la lezione che possiamo certamente trarre.

 


 

(1) Audun Ingwartsen, leader di Lederne: «I nostri membri sono persone chiave che controllano la produzione, quindi quando scioperano, sarebbe normale che il datore di lavoro chiudesse le piattaforme».

(2) Dalla fine della seconda guerra mondiale, il governo di de Gaulle aveva chiesto ai minatori francesi uno sforzo produttivo sovrumano per consentire la ricostruzione del paese. Nel 1945 Thorez, segretario generale del PCF e ministro di questo governo, dichiarò ai minatori: «Produrre è oggi la più alta forma del dovere di classe, il dovere dei francesi». Spinti da questi discorsi sciovinisti, i minatori hanno dato la vita per assicurarsi, a fronte di alcuni vantaggi salariali, il tonnellaggio di carbone richiesto. Una volta raggiunto il risultato della produzione, tutti i loro vantaggi salariali e sociali furono spazzati via senza pietà né rimorsi e fu per loro un ritorno alle condizioni materiali di un tempo. Nel 1948 il conseguente sciopero di 200.000 minatori durò 54 giorni e fu ferocemente represso: 6 morti, 1.342 pene detentive e 3.000 licenziamenti.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

11 luglio 2022

www.pcint.org

 

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