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Medio Oriente: Israele, braccio armato dell’imperialismo americano, sferra la guerra contro tutti coloro che si oppongono agli interessi mondiali di potenza di Washington, all’ombra dei quali emergono gli interessi israeliani di potenza regionale
L’area mediorientale, da più di un secolo, è una zona delle tempeste in cui si concentrano gli interessi contrastanti tra i più forti imperialismi mondiali, non solo per le ingenti riserve di petrolio, ma anche per la via commerciale strategica che unisce l’Oceano Indiano al Mediterraneo attraverso il Mar Rosso-Canale di Suez, senza dimenticare il Golfo Persico.
I contrasti interimperialistici portano a scontri commerciali e diplomatici e a guerre in cui sono inevitabilmente coinvolti i paesi dell’area nei quali il più recente sviluppo del capitalismo si è caratterizzato per l’estrema violenza con cui gli imperialisti e i clan locali dominanti hanno teso e tendono ad imporre i propri specifici interessi sulle popolazione dell’area, mantenendo in piedi vecchie ed arretrate sovrastrutture politiche e religiose che si sono piegate all’incedere irrefrenabile del capitalismo diventando, di fatto, i pilastri su cui poggiano le nuove classi borghesi per esercitare il loro potere e il controllo sulle popolazioni dominate. La forza delle classi borghesi mediorientali dipende in buona parte dal controllo che riescono ad esercitare sulle proprie popolazioni e, visto il procedere estremamente contraddittorio ma inesorabile del capitalismo, su un proletariato relativamente giovane ma potenzialmente incontrollabile, data la sua provenienza rurale la cui sopravvivenza è stata rovinata non solo dalle violente espropriazioni capitalistiche, ma anche dal concentrarsi in quei territori di interessi sempre più contrastanti degli imperialismi. La storia della trasformazione delle masse contadine palestinesi in masse proletarie, senza riserve e senza patria, esprime la punta più acuta del processo di sviluppo sociale del capitalismo in Medio Oriente, sviluppo che non ha potuto fare a meno e non può fare a meno di rendere permanente lo scontro armato e le guerre ora di alcune borghesie locali ora delle altre in cui sono messe in discussione continuamente le temporanee tregue e i temporanei confini, il temporaneo ordine che, da locale, ha assunto sempre più una dimensione mondiale. Guerre e tregue che le stesse potenze imperialistiche – che rappresentano, con i loro interventi finanziari, politici, militari, i fattori principali del disordine mediorientale – da apprendisti stregoni quali dimostrano di essere, non riescono a dominare.
Non faremo qui la lunga storia delle guerre e dei cosiddetti accordi di pace che hanno punteggiato l’ultimo secolo e mezzo del Medio Oriente. Basta rifarsi alle guerre arabo-israeliane e alle guerre del Golfo del secolo scorso per avere la dimostrazione che i paesi del Vicino e Medio Oriente costituiscono polveriere sempre pronte ad esplodere (1). Va, comunque, messo in evidenza che questa zona delle tempeste non è che una delle aree mondiali in cui si decidono e si decideranno le alleanze imperialiste in vista della terza guerra mondiale.
LE GUERRE CHE GLI ARABI HANNO SEMPRE PERSO
La guerra scatenata da Israele contro i palestinesi di Gaza, dopo l’incursione di Hamas in decine di kibutz israeliani confinanti, provocando la morte di oltre 1200 israeliani e la presa di 250 ostaggi portati a Gaza, non fa che dare continuità alle sistematiche operazioni militari che Israele conduce contro i palestinesi fin dalla costituzione del proprio Stato nel 1948 in Palestina, sotto la protezione delle potenze vincitrici del secondo macello imperialistico mondiale. Va detto che tutti i paesi arabi, all’epoca, respinsero la risoluzione dell’ONU del novembre 1947 circa la costituzione di due Stati, uno palestinese e uno ebraico, tanto da scatenare poi la guerra contro Israele appena proclamatosi Stato indipendente. Quella guerra è stata vinta da Israele, costringendo centinaia di migliaia di palestinesi a rifugiarsi nei paesi arabi vicini, e vinse anche le tre guerre arabo-israeliane successive nel 1956, nel 1967 e nel 1973. Con la vittoria del 1967 (la famosa guerra dei «sei giorni») Israele occupò il Sinai e la Striscia di Gaza (sottraendoli all’Egitto), la Cisgiordania (sottratta alla Giordania), Gerusalemme Est e le alture del Golan (sottratte alla Siria). In seguito, Israele restituì il Sinai all’Egitto, accettò che Gaza fosse governata dai palestinesi, lo stesso dicasi per la Cisgiordania ma solo dal 1995 in poi, entrambe però sotto lo stretto controllo di Israele (economico e finanziario, oltre che militare), mentre trasformò le alture del Golan occupate in territorio israeliano che gli Stati Uniti riconosceranno nel 2019. Nel 1982 Israele invase la fascia meridionale del Libano per distruggere le basi palestinesi, occupandola; si ritirò da qui nel 2000, ma la invase nuovamente nel 2006 per contrastare le milizie libanesi sciite filo-iraniane Hezbollah, nel frattempo organizzatesi e impostesi in un Libano disastrato, ritirandosi nuovamente dal Libano meridionale qualche mese dopo. Nel 2006 Hamas vinse le elezioni a Gaza, si scontrò armi alla mano con i sostenitori dell’ANP che aveva vinto le elezioni in Cisgiordania, e Netanyahu – anche allora capo del governo – applicò una politica di sostegno e di rafforzamento di Hamas proprio in funzione anti-ANP, in modo che le due fazioni palestinesi continuassero a scontrarsi, impedendo di fatto la possibilità di avviare un accordo per l’autogoverno palestinese in Cisgiordania e Gaza in vista della costituzione di un futuro «Stato palestinese» come era stato ribadito dagli accordi di Oslo (1993) sottoscritti tra Rabin, Arafat e Bill Clinton, accordi che, alla pari di tutti gli «accordi» sottoscritti successivamente, non sono stati che carta straccia.
LA FORMULA IRREALISTICA DEI «DUE STATI»
Se c’è un inganno stratosferico in cui sono cadute le masse palestinesi e, con loro, le masse proletarie e contadine povere di Egitto, Libano, Siria e Giordania – dove, in gran parte, si sono rifugiate le masse palestinesi fuggite o espulse dalla loro terra d’origine –, è proprio la prospettiva di quei due Stati la cui costituzione avrebbe dovuto riportare la pace non solo in Palestina ma in tutto il Medio Oriente, pace messa costantemente in forse dalla guerra israelo-palestinese. Israele ha sempre contrastato la «soluzione dei due Stati» – d’altra parte, rigettata anche da Hamas –, si è sempre messo di traverso ogni volta che gli imperialisti d’America e d’Europa, Russia compresa, cercavano di forzare la situazione per giungere a quel tipo di «pacificazione». La sua funzione di gendarme dell’imperialismo euroamericano in territorio mediorientale, di cui la borghesia israeliana, sia di estrema destra che di sinistra laburista, si è sempre fatta forte, è sempre stata troppo importante per essere messa a repentaglio andando contro le aspirazioni del nascente colonialismo regionale di Tel Aviv. Questo gendarme non aveva, e non ha, soltanto il compito di tenere a bada le masse ribelli palestinesi per il loro alto grado di contagio, grazie alla loro lotta e alla loro indomabilità, verso le masse di tutto il Medio Oriente, ma ha anche il compito di tenere a freno le altre potenze regionali – Iran, Arabia Saudita, Egitto e, non ultima, la Turchia – che nel corso dei decenni hanno espresso eguali aspirazioni di controllo sul Medio Oriente, oltre all’aspirazione di staccarsi dalla dipendenza diretta dagli imperialisti mondiali più forti, innanzitutto dagli Stati Uniti.
GLI INTERESSI DELLA BORGHESIA ISRAELIANA ALL’OMBRA DI QUELLI STATUNITENSI
Avvenuta l’incursione di Hamas in Israele il 7 ottobre di un anno fa, Israele – dopo aver fatto la figura di non essersi preparato a impedire e contrastare con forza tale impresa – ha risposto immediatamente cominciando a bombardare a tappeto Gaza: se non ha impedito il massacro di 1200 e oltre israeliani e il rapimento di 250 ostaggi, ha però risposto in tempi brevissimi con tutta la potenza militare di cui dispone come se non aspettasse nient’altro che l’occasione per sferrare un attacco, senza precedenti, contro Gaza e contro i palestinesi in generale. Hamas, da utile forza terroristica di contrasto nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, è diventata così il nemico da abbattere definitivamente (come, a suo tempo, al-Qaeda di Bin Laden per la Casa Bianca, un tempo utile in Afghanistan contro i russi, poi nemico numero uno di Washington). Ma gli obiettivi di Israele, già dopo qualche mese di bombardamenti di Gaza, si stavano rivelando molto più ampi della sola sconfitta di Hamas e dell’uccisione dei suoi capi. Tel Aviv non poteva non prevedere che le milizie Hezbollah – forti nel sud Libano – sarebbero intervenute a fianco di Hamas (entrambe sostenute dall’Iran degli ayatollah), quindi si era già preparato per sferrare un nuovo attacco anche nel Libano meridionale per cercare di distruggere le loro basi da cui periodicamente vengono lanciati centinaia di missili nel nord di Israele. E tutto ciò, senza dubbio, a conoscenza del governo statunitense che ha continuato a sostenere Israele con dollari e armamenti – lo scambio commerciale annuo bilaterale tra USA e Israele da anni ammonta a 50 miliardi di dollari in beni e servizi (2), ed è noto l’appoggio incondizionato da parte statunitense ad ogni iniziativa anti-araba di Israele nella misura in cui indebolisce la possibile alleanza interaraba. Anche grazie al militarismo israeliano, gli Stati Uniti hanno ottenuto, negli anni, comunque un risultato a proprio beneficio: impedire che gli Stati arabi si riunissero in alleanze più strette sulla base della loro tradizionale opposizione all’Occidente. Infatti, rispetto al massacro sistematico della popolazione civile palestinese che dall’8 ottobre 2023 non si è mai fermato, anzi, si è esteso anche alla popolazione del sud Libano e di Beirut, nessun paese arabo ha speso una sola parola in difesa delle masse palestinesi, a conferma che Israele sta facendo un favore a tutte le borghesie dell’area.
L’attuale governo Netanyahu, il più destro che ci sia mai stato, ha colto l’occasione per distruggere non solo Hamas, ma l’intera popolazione di Gaza massacrandola, una popolazione che ha osato «sfidare» lo Stato ebraico eleggendo al proprio governo non la corrotta e impotente ANP, ma Hamas, un partito che dimostrava di non aver paura della forza militare ebraica e di sostenere la vita sociale dei gazawi, nonostante l’assedio da parte di Israele, con cibo, ospedali, in parte anche lavoro. Gli oltre 42.000 civili morti sotto i bombardamenti, le migliaia di feriti e di ammalati, una popolazione continuamente sfollata da un luogo all’altro di un Striscia di terra che è diventata un enorme campo di concentramento, ridotta alla fame ed esposta a qualsiasi malattia per mancanza di un minimo di cure dato che quasi tutti gli ospedali sono stati distrutti, così come le scuole e ogni edificio nel quale, insieme a molti civili, potevano rifugiarsi anche dei miliziani di Hamas, che cosa dimostrano se non che Israele intende portare a termine la sua «soluzione finale»: ridurre la popolazione di Gaza sopravvissuta al punto di accettare di sottomettersi completamente al dominio ebraico anche sulla sua terra, per poi passare anche alla popolazione della Cisgiordania. Non per niente il governo Netanyahu se ne è infischiato delle pressioni di Biden e dei balbettanti europei per un cessate il fuoco, per far passare i camion degli aiuti alla popolazione civile, per limitarsi a colpire le milizie di Hamas e non la popolazione civile e per negoziare il ritorno in patria degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Netanyahu, già nel suo intervento all’ONU lo scorso 22 settembre 2023 – pochi giorni prima dell’incursione di Hamas nel sud di Israele – sostenne senza mezze parole l’obiettivo di Israele: estendere il territorio israeliano dal fiume Giordano al Mediterraneo (nella prospettiva del «Nuovo Medio Oriente»), comprese la Cisgiordania e Gaza, Gerusalemme Est e le alture del Golan, come punto di partenza per un nuovo disegno «di pace» (3).
STATI UNITI MANDANTE, ISRAELE SICARIO
Mentre continuavano i bombardamenti di Gaza, e l’Egitto che chiudeva i confini con Gaza perché nessun palestinese fuggisse dai bombardamenti andandosi a rifugiare in territorio egiziano, Israele si stava preparando a invadere il sud del Libano con l’obiettivo di distruggere le basi militari di Hezbollah; nello stesso tempo, la minaccia di Israele di colpire le basi militari e nucleari in Iran – in quanto maggiore sostenitore di Hamas, Hezbollah e degli Houti yemeniti che si sono coalizzati contro Tel Aviv – ha preoccupato non poco la Casa Bianca che tutto vuole, in questo delicato periodo di elezioni presidenziali, meno che lo scoppio di una guerra con l’Iran incendi tutto il Medio Oriente.
Ma le iniziative israeliane rispondono, da quando Washington ha sostituito Londra e Parigi nel controllo dell’area, anche agli interessi di fondo degli Stati Uniti sebbene questi ultimi non riescano, negli ultimi anni, a gestirle secondo la propria tempistica dettata dai loro piani di controllo mondiale e le proprie relazioni internazionali. Non c’è dubbio che Israele, se non poggiasse sul sostegno finanziario, politico e militare degli Stati Uniti, non riuscirebbe ad agire come una potenza regionale temuta da tutti i paesi dell’area mediorientale e non riuscirebbe ad imporre nello stesso territorio della Palestina una illimitata politica oppressiva e razzista nei confronti dei palestinesi e delle popolazioni arabe. L’ennesimo esempio lo dà la guerra scatenata a Gaza non solo e non tanto contro Hamas, ma contro la popolazione palestinese in quanto tale, nella quale gli armamenti e il supporto in uomini specializzati forniti ad Israele sono stati e sono determinanti. A proposito degli armamenti americani, Il fatto quotidiano del 22 ottobre 2024 scrive: «Bombe e munizioni (tra cui diecimila famigerate testate ad alto potenziale della serie Mk-80) direttamente usate a Gaza, un volume di mezzi da 17,9 miliardi di dollari, secondo una stima della Brown University (a differenza di quanto accade con l’Ucraina, la Casa Bianca non quantifica pubblicamente gli aiuti forniti all’alleato israeliano. Nella regione, gli Stati Uniti hanno schierato anche 42 mila marines e dozzine di navi militari e portaerei, con scopi di deterrrenza per l’Iran e di contrasto degli attacchi dei suoi proxy, contro le navi nel Mar Rosso o contro Israele». Non per sminuire la piena responsabilità di Israele sui massacri della popolazione gazawi, ma è chiaro che gli israeliani stanno espletando, anche per interessi propri specifici, il ruolo di sicari degli Stati Uniti, svolgendo il lavoro sporco da cui la Casa Bianca si astiene e che copre con le sue dichiarazioni sui «due popoli, due Stati», sui «corridoi umanitari» da garantire per la popolazione che viene sistematicamente bombardata, sui negoziati per il ritorno degli ostaggi, sui «piani» per il periodo successivo alla fine della guerra «contro Hamas» ecc. ecc. Ma non si tratta solo di artiglieria e di bombe. L’intelligence, nella guerra moderna, diventa sempre più il fattore decisivo. Dopo il massacro del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, «Il Pentagono – scrive ancora Il fatto quotidiano citato – ha inviato con discrezione diverse decine di militari delle forze speciali (...). Qualche giorno dopo, si aggiunge un drappello di agenti in arrivo direttamente da Langley, Virginia, il quartier generale della CIA». E’ lo stesso Biden a dichiarare il coinvolgimento diretto degli Usa nella guerra israelo-palestinese: «Poco dopo i massacri del 7 ottobre ho dato ordine al personale delle operazioni speciali e ai nostri professionisti di intelligence di lavorare fianco a fianco con le loro controparti israeliane per aiutare a localizzare e rintracciare Sinwar e altri leader di Hamas che si nascondono a Gaza» (Il fatto quotidiano, citato). In realtà i professionisti dell’intelligence americana si sono adoperati su tutto il teatro di guerra, sia per individuare i nascondigli dei capi di Hamas, e non solo a Gaza ma anche a Teheran e a Damasco, e quelli degli Hezbollah in Libano, ma anche per la mappatura dei tunnel grazie a droni ultra-tecnologici e a radar specifici per scandagliare il sottosuolo. Nel do ut des caratteristico degli scambi borghesi, sembra che finora gli americani abbiano dato a Israele più di quanto Israele abbia dato agli americani, e ciò riguarda, ultimamente, l’iniziativa che Tel Aviv ha approntato per colpire l’Iran nelle sue basi militari, petrolifere e nucleari, cosa che – in questo momento – la Casa Bianca non vuole perché non è pronta ad affrontare una guerra mediorientale che coinvolgerebbe certamente Russia e Cina, rimettendo in discussione le relazioni con molti paesi arabi del Medio Oriente e del Nord Africa, con i paesi del Brics e con alcuni paesi europei non allineati perfettamente sulle politiche della Casa Bianca, come ad esempio Ungheria ma anche Francia e Spagna.
Come succede spesso ai sicari, Israele ha preso la mano al mandante Stati Uniti, nel tentativo di imporre il suo piano della Grande Israele, e di questo piano fa parte anche la guerra in Libano scatenata contro le milizie di Hezbollah, ma che, in realtà, come succede per Gaza, è una guerra contro l’intera popolazione civile del Libano e di Beirut, attraverso la quale Israele intende, intanto, occupare la fetta sud del Libano che dal fiume Litani arriva fino al confine attuale con Israele. Ed è con questo obiettivo che l’Idf israeliano (Israel Defense Forces, le forze armate israeliane) ha attaccato le postazioni dell’Unifil (4) che si trovano, per mandato delle Nazioni Unite, proprio sulla fascia di confine israelo-libanese (la cosiddetta Linea blu) con l’obiettivo di impedire lo scontro militare degli eserciti dei due paesi nel rispetto della reciproca «sovranità territoriale», di disarmare le milizie Hebollah e di assistere la popolazione civile della zona. Come si sa, la presenza dei caschi blu dell’Unifil non ha impedito né alle milizie Hezbollah di continuare ad armarsi e a lanciare razzi nelle città israeliane vicine al confine, né ad Israele di rispondere non solo con le truppe di terra ma anche con attacchi aerei come sta facendo ultimamente. Risulta evidente che le «missioni di pace» decretate dalle borghesie di tutto il mondo riunite nelle Nazioni Unite non sono mai state, e non lo saranno mai, in grado di assicurare davvero la pace nei territori in cui i contrasti politici e militari sono sempre pronti a risvegliarsi (basta ricordare il massacro dei musulmani bosniaci a Srebrenica, in Bosnia Erzegovina, da parte dei serbi bosniaci durante la guerra jugoslava, attuato sotto gli occhi dei caschi blu olandesi che avevano il compito di proteggerli). La pace non è mai stata nel DNA della classe borghese dominante di qualsiasi paese: è una temporanea tregua tra scontri armati e guerre che avvengono anche lontano dagli Stati che sbandierano «missioni di pace» in tutto il mondo.
La guerra che Israele ha allargato anche al Libano non risponde in tutto e per tutto agli interessi americani attuali, anche se, dopo aver decapitato Hamas, Israele riuscirà a fare lo stesso con Hezbollah, neutralizzando in buona misura le milizie che l’Iran utilizza per tenere sotto pressione costante Tel Aviv. Come detto, la Casa Bianca non intende scatenare ora una guerra contro l’Iran, mettendo a ferro e fuoco l’intero Medio Oriente. Troppi interessi economici e politici verrebbero scossi in un momento in cui la situazione non permetterebbe a Washington, oltretutto sotto elezioni presidenziali, un controllo sufficiente a difendere i suoi interessi nella regione. In una certa misura questa situazione – che sarebbe sbagliato interpretare come sfuggita di mano alla Casa Bianca – rivela però una certa debolezza degli Stati Uniti nei confronti di un suo vassallo/alleato che, in un’area strategica di grande rilevanza come il Medio Oriente, spinge per avere le mani più libere nel perseguire i propri specifici interessi. E’ ormai evidente che gli Stati Uniti, pur rimanendo la prima potenza imperialistica mondiale, non riescono più ad essere, come un tempo, presenti finanziariamente e militarmente in modo decisivo in tutte le «zone delle tempeste» del mondo forzando, a proprio esclusivo beneficio, l’azione dei propri alleati dei quali, in realtà, hanno sempre più bisogno per mantenere la posizione di primo attore nel mondo, ma ai quali non può non concedere una certa «libertà d’azione» anche se questa «libertà d’azione» può costare agli Stati Uniti molto più del previsto in termini non solo finanziari ed economici ma anche politici e diplomatici. E qui vale la pena di ricordare come Moshe Dayan, «l’eroe della guerra dei Sei giorni», interpretava le relazioni che vincolavano Israele agli Stati Uniti: «Gli americani ci offrono soldi, armi e consigli. Noi prendiamo i soldi, le armi e rifiutiamo i consigli» (5).
STATI UNITI E ISRAELE SONO IN BUONA COMPAGNIA...
Vi sono altri attori di grande rilevanza da tener presente.
La Cina, come sulla «questione ucraina», anche rispetto alle mosse di Israele mantiene un atteggiamento ambiguo pur avendo avuto, ed ancora ha, una posizione ufficiale favorevole ai «diritti nazionali del popolo palestinese». Non ha mai nascosto, d’altra parte, il grande interesse economico e politico nei confronti del Medio Oriente, la cui stabilità le permetterebbe di rafforzare i legami economici e commerciali con i diversi paesi dell’area; è il maggior acquirente di petrolio dall’Iran e dall’Arabia Saudita verso i quali si è impegnata per normalizzare i loro reciproci rapporti spingendo per un accordo sottoscritto da Teheran e Riyadh il 10 marzo 2023 a Pechino. Accordo attraverso il quale Riyadh intendeva rafforzare il suo ruolo politico e militare in un Medio Oriente sempre più instabile, mentre Teheran cercava di tornare ad avere un ruolo ufficiale nelle relazioni tra i paesi dell’area. Accordo che, però, sembra non avere vita facile vista la situazione di guerra scatenata da Israele contro Gaza e il Libano rimettendo in luce interessi contrastanti tra le due potenze regionali; infatti, Teheran appoggia gli Houti yemeniti che attaccano le navi mercantili americane nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden in solidarietà con i palestinesi, mentre Riyadh sostiene il governo di Sana’a e continua a cooperare con gli USA che, da parte loro, hanno ingaggiato una vera e propria battaglia navale contro gli Houti. La Cina, chiamata da Riyadh ad intervenire per attenuare le crescenti tensioni con Teheran, ribadisce nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU la necessità della fine degli attacchi Houti nel Mar Rosso in contemporanea con la fine dei bombardamenti israeliani a Gaza. Campa cavallo...
La Russia, da quando Israele ha scatenato la guerra generale contro Gaza, e ora anche contro il Libano, ha registrato un calo generale dell’attenzione mondiale sulla guerra in Ucraina (anche Zelensky se ne è accorto), ma già nell’ottobre del 2023 sottolineava che «ogni guerra oggi è a favore della Russia», sostenendo che le guerre ormai sono diventate la normalità: «Guardate, tutti sono in guerra: l’Azerbaigian ha aggredito l’Armenia e ha conquistato il Karabah, Hamas si è scagliato contro Israele, e la Russia risolve i suoi problemi in Ucraina», «siamo entrati nell’epoca dell’instabilità e dobbiamo farci l’abitudine» (6). In pratica, Mosca sta dicendo che i conflitti locali non si risolveranno in tempi brevi e che la guerra in questa o quella parte del mondo sarà sempre presente, cosa, tra l’altro, che non potrà non coinvolgere sempre più le potenze imperialiste. Ma la realtà delle guerre locali, come abbiamo avuto più volte modo di dimostrare nella nostra stampa, è presente già dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale e raramente le potenze imperialiste ne sono rimaste fuori, anzi, spesso esse ne sono state l’origine.
La Russia non ha alcun interesse a infilarsi in una guerra tra Israele e palestinesi dalla quale si tiene lontana da decenni; si è limitata a «condannare» l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e a criticare gli attacchi israeliani a Gaza, appellandosi per un cessate il fuoco fin dal novembre dello scorso anno, come del resto hanno fatto tutte altre potenze non coinvolte direttamente in questa guerra (Brasile, India ecc.). Quel che interessa direttamente Mosca sono le sue uniche basi militari nel Mediterraneo in Siria, a Hmeimim quella aerea e a Tartus quella navale, e il rapporto sempre più stretto con l’Iran con cui esiste uno scambio commerciale molto forte soprattutto in forniture militari. Lo stretto rapporto con l’Iran, naturalmente, ha incrinato i rapporti, seppur reciprocamente ambigui, che Mosca aveva con Israele, soprattutto dopo che Israele ha iniziato a bombardare sistematicamente Gaza allargando recentemente le sue operazioni militari anche nel sud del Libano invadendolo ancora una volta a cominciare dallo scorso 30 settembre.
Quanto ad alcune potenze europee, nell’ultimo periodo, come la Gran Bretagna e la Germania (7), dopo aver sottolineato di essere a fianco di Israele e al suo «diritto di esistere e di difendersi», ed aver intonato il successivo ritornello sull’«esagerata risposta militare» di Israele all’attacco subito, sulla necessità di far passare gli aiuti umanitari alla popolazione civile di Gaza e, quindi, sulla necessità di un cessate il fuoco per soccorrere la popolazione civile bombardata, hanno diminuito in modo drastico la fornitura di armamenti ad Israele (8), condividendo il monito a Netanyahu di non allargare la guerra né in Libano né, tantomeno, in tutto il Medio Oriente. Si è visto quanto valeva questo monito... la guerra si è allargata e le armi e i finanziamenti ad Israele arrivano lo stesso grazie agli Stati Uniti.
La Francia, da parte sua, ha sottolineato anch’essa, ipocritamente, il «diritto di Israele di difendersi» e perciò la necessità di rifornirlo di armi, ma dopo i colpi di cannone israeliani alle postazioni dell’Unifil in Libano perché si spostassero di diversi chilometri per permettere alle truppe di Tel Aviv di avanzare sul terreno per combattere contro le milizie Hezbollah, dichiarava, lo scorso 5 ottobre, per bocca del presidente Macron in un’intervista alla radio France Inter (mentre si svolgevano a Parigi, come in tutta Europa, le manifestazioni pro-palestinesi), che anch’essa avrebbe stoppato la fornitura di armi: «Basta fornire a Israele le armi che usa contro Gaza. Non si combatte il terrorismo sacrificando i civili», ma obbligando poi l’Eliseo a precisare che Parigi continuava a fornire «le componenti necessarie alla difesa di Israele» (9).
E che dire dell’Italia del governo Meloni? Allineamento completo sulle posizioni di Israele, considerata vittima costante del terrorismo arabo e islamico e, perciò, giustificabilissima nella decisa risposta militare contro Hamas e i suoi capi (non importa in quale paese si rifugiano), a Gaza, prima di tutto, e contro le milizie Hezbollah che dal Libano continuano a lanciare missili e droni contro Israele. Non sono mancate ovviamente le parole per le vittime civili dei bombardamenti a Gaza e, poi, in Libano, parole che hanno lo stesso sapore acido di quelle usate per i migranti che, attraversando il mare nei barconi fuggendo da guerre, oppressioni, torture e miseria per raggiungere le coste italiane, vengono lasciati annegare a centinaia proprio perché non soccorsi dallo Stato; parole che nascondono una reale soddisfazione nel constatare che i «nemici», siano i terroristi di Hamas ed Hezbollah o i migranti spinti dalla disperazione verso le coste italiane, vengono seriamente colpiti. Non è ovviamente mancata la sorpresa di constatare che le cannonate israeliane non erano indirizzate esclusivamente contro Hezbollah e i libanesi, ma anche contro le postazioni militari italiane dell’Unifil: «è inaccettabile!» è stata la parola più «dura» della Meloni rivolta a Tel Aviv..., poi tutto prosegue come Tel Aviv vuole. Bastano soltanto alcune parole del ministro degli Esteri Tajani per capire quanto sta loro a cuore la vita delle popolazioni civili palestinesi, libanesi, siriane. Al «G7 Sviluppo» (10) che si sta tenendo a Pescara dal 22 al 24 ottobre, presieduto da Tajani, quest’ultimo pone ai portavoce degli interessi imperialistici che si sono raduti intorno a quel tavolo, al quale hanno invitato anche i rappresentanti di Israele, Libano e dell’Autorità Nazionale Palestinese, il solito ipocrita ritornello: «Abbiamo ribadito la nostra posizione sul cessate il fuoco, ma l’oggetto della riunione era quello degli aiuti umanitari. Ci siamo soffermati su quello [ponendo] la prima tessera di un mosaico per costruire la pace» e, dopo aver annunciato il programma di aiuti italiani di 25 milioni di euro per Gaza, Libano e per il progetto di ricostruzione di Gaza (briciole in confronto al miliardo che l’Italia finora ha dato all’Ucraina per la guerra contro la Russia), sottolinea che «dovremo anche riflettere sul dare vita a una Conferenza come quella che c’è per la ricostruzione dell’Ucraina, di farla per Gaza, ma anche per il Libano e per quelle parti di Israele del Nord che sono state colpite». Ecco il vero obiettivo di ogni borghesia: prepararsi a ricostruire le zone e i paesi distrutti dalla guerra che le stesse borghesie dominanti hanno innescato.
DISTRUGGI, MASSACRA, DISTRUGGI... TANTO POI SI RICOSTRUISCE E I MASSACRI CE LI DIMENTICHIAMO...
Guerra borghese vuol sempre dire distruzioni e massacri. Passato il tempo storico della rivoluzioni nazionali, con le quali la borghesia capitalistica faceva fare un progresso reale alla società, la borghesia di ogni paese è diventata guerrafondaia, confermando quanto Marx ed Engels hanno scritto nel 1848 nel Manifesto: la borghesia è sempre in lotta, da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono in contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. Possiamo solo dire che, alla lotta della borghesia contro le frazioni della stessa borghesia i cui interessi vengono in contrasto col progresso dell’industria, si è aggiunta la lotta contro le frazioni della stessa borghesia i cui interessi vengono in contrasto con quelli del capitalismo finanziario sviluppatosi proprio grazie allo sviluppo del progresso dell’industria. Come per l’Ucraina, appunto, i signori in giacca e cravatta si fregano le mani nello stendere progetti miliardari di ricostruzione di quanto hanno distrutto. Ma l’interesse per Gaza e il Libano, vestito da umanitarismo per ingannare le popolazioni locali e gli elettori in casa propria, non sta solo nel commercio di armi per una guerra che deve durare molto, nello sperimentare tutte le possibili armi supertecnologiche in vista di una guerra mondiale e nel verificare l’affidabilità e la saldezza degli alleati da un lato e dall’altro, ma anche nell’assicurarsi nel prossimo futuro i grandi giacimenti sottomarini di gas naturale che si trovano davanti a Gaza e davanti al Libano. Per ogni potenza imperialistica il controllo delle fonti energetiche sono di importanza vitale, diventando sempre più motivo sufficiente per scatenare la guerra. Inutile dire che Israele – nella visione del Grande Israele, secondo la bibbia ebraica, che va dal Mediterrano all’Eufrate – dunque Palestina, Libano, Siria e Iraq compresi – considera questi giacimenti come sua «proprietà», alla pari della Turchia per i giacimenti rinvenuti al largo di Cipro. La transizione energetica da fonti fossili a fonti rinnovabili sta richiedendo decenni e decenni, ma il capitalismo non aspetta tempo; mentre racconta ai popoli che sta adoperandosi per la transizione energetica e di lottare contro il riscaldamento climatico, spende miliardi di miliardi per la ricerca e l’estrazione di petrolio e gas naturale, dimostrando di essere un modo di produzione votato alla distruzione della vita naturale e sociale nel pianeta.
SARÀ LA LOTTA RIVOLUZIONARIA DEL PROLETARIATO A FERMARE LE GUERRE BORGHESI E AD ABBATTERNE I POTERI POLITICI
Come fermare questo modo di produzione che assicura solo gradi di inquinamento sempre più elevati e massacri sempre più estesi?
Il capitalismo, nel suo sfrenato e incontrollabile sviluppo, ha comunque creato le condizioni storiche oggettive per un ulteriore balzo storico: esso ha creato il lavoro associato nell’industria e il lavoro salariato – cioè la classe del proletariato, dei senza patria, dei senza riserve – che, rispetto ai modi di produzione precedenti, hanno significato un potentissimo avanzamento rivoluzionario nello sviluppo della vita sociale, ma che, rispetto alle esigenze generali di vita sociale e di benessere per tutto il genere umano, rappresentano, nello stesso tempo, un ostacolo ad ogni reale progresso umano. Le crisi cicliche e di guerra in cui precipita la società borghese ne sono la dimostrazione. Ma è la classe dei senza riserve, dei senza patria, la classe internazionale del proletariato, con la sua lotta per la vita o per la morte, ad avere il compito storico che ebbe dal 1600 al 1800 la classe borghese: rivoluzionare da cima a fondo l’intera società.
Solo che la nuova società che sorgerà dalla rivoluzione del proletariato non avrà più il compito di creare stabilmente una classe dominante e delle classi dominate, non si reggerà sull’oppressione di una grande maggioranza di esseri umani da parte di una minoranza ristretta di grandi capitalisti e non avrà più bisogno di gestire la vita sociale attraverso il denaro, la produzione di merci, la produzione e riproduzione della classe di lavoratori sottoposta alla dittatura del capitale. Si userà il grande progresso industriale per dirigerlo essenzialmente alla soddisfazione delle necessità di vita sociale e di benessere dell’intera umanità secondo una pianificazione intelligente delle risorse naturali e umane, in armonia con le leggi della natura di cui l’uomo fa parte. I marxisti chiamano questa società del domani comunismo, ma per arrivarci sarà necessario un capovolgimento completo del potere borghese attuale del potere imperialistico dei paesi più forti. Il capitalismo non è riformabile, non esiste il capitalismo dal volto umano: esiste un capitalismo con le sue oppressioni, le sue diseguaglianze, le sue guerre, che sta durando ancora alla condizione di schiacciare il proletariato nella miseria e nella disperazione. Ma è di quella miseria, di quella disperazione che il proletariato di renderà ad un certo punto conto e non tollererà più perché non vedrà altra via per uscirne che far saltare in aria tutti gli equilibri e gli squilibri della società borghese, sicuro che la nuova società alla quale metterà mano, sotto la direzione del suo partito di classe, rappresenterà realmente il futuro non solo del proletariato, ma dell’uomo sociale che non sarà più classificato per categorie lavorative perché tutti saranno semplicemente lavoratori non più salariati, non più dipendenti dalla produzione mercantile e dal capitale.
(1) A questo proposito vedi il recente Reprint de “il comunista”, n. 19, su Medio Oriente e questione palestinese.
(2)
Cfr. http://www.ispionline.it/ it/pubblicazione/ usa-cina- russia-e- gli-altri- come-si- schiera- il-mondo- nella- guerra- hamas- israele- 151114.(3) Cfr. https:// www.fiammanirenstein. com/ articoli/ il-discorso- si-netanyahu- all-onu- tutto- nerl- campo- della- pace- 5048.htm (il Giornale, 23 settembre 2023); e https://www.valigiablu.it/relazioni-netanyahu-hamas/, 28 novembre 2023.
(4)
Ultime notizie: secondo il Financial Times, riportato da il fatto quotidiano del 23.10.2024, si sospetta che l’esercito israeliano «abbia utilizzato il fosforo bianco, una sostanza chimica inmcendiaria, abbastanza vicino da ferire 15 peacekeeper», dopo aver visionato il rapporto «preparato da un paese che fornisce truppe all’Unifil»; il paese sarebbe il Ghana che con le sue truppe è posizionato a fianco della postazione Unifil affidata all’Italia(5) Cfr. La notte di Israele, Limes, rivista italiana di geopolitica, settembre 2024, p. 15.
(6) Cfr. https://www.asianews.it/ notizie-it/ La-Russia- tra-Israele- e-Palestina- 59353.html
(7) Il cancelliere Scholz, qualche giorno dopo l’inizio della Guerra su Gaza, aveva dichiarato: «In questo momento la Germania ha un solo posto, ed è al fianco di Israele. La storia della Germania e la responsabilità che ha avuto nell’Olocausto ci impongono di mantenere la sicurezza e l’esistenza di Israele», https://it.euronews.com/2024/02/16/la-germania-puo-essere-imparziale-sulla-guerra-a-gaza
(8) Cfr. https://it.indideover.com/ guerra/ dopo-la- gran-bretagna- anche-la- germania- decide-niente- piu-armi- a-israele.html, 19 settembre 2024.
(9) Cfr. il fatto quotidiano, 6 ottobre 2024.
(10)
Cfr. https://askanews.it/ 2024/ 10/ 22/ nuovi-aiuti- e-ricostruzione- la-via- italiana- per-gaza- e-il-libano/
23 ottobre 2024
Partito Comunista Internazionale
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