Dialogato coi Morti

(Sul XX Congresso del Partito Comunista Russo)

( «il programma comunista», nn. 5, 6, 7, 8, 9,10 e 13 del 1956 )

 

 

INDICE

 

--Premessa alla riedizione

--Dialogato coi Morti :

--Viatico per i lettori

--Giornata prima

--Giornata seconda

--Giornata terza :

Antimeriggio

Basso Pomeriggio

Vespro

Sera

--Complementi al "Dialogato coi Morti" :

La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea

A) Ripiegamento e tramonto della rivoluzione bolscevica

B) La mentita opposizione tra le forme sociali russe ed occidentali

C) Il sistema socialista alla FIAT?

--APPENDICE :

Plaidoyer pour Staline (1956) 

 

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Complementi al  «Dialogato coi Morti»

 

I tre paragrafi che seguono fanno parte del Resoconto della riunione di partito tenuta a Torino il 19-20 maggio 1956, pubblicato nei nn. 12 e 13 del 1956 de il programma comunista. Questo rapporto aveva il seguente titolo: La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea che, in realtà, comprende un'ultima parte (Marxismo e autorità. La funzione del Partito di classe ed il potere nello Stato rivoluzionario) che qui non riprendiamo. Il testo completo di questa riunione è stato poi pubblicato nella parte finale del volume Struttura economica e sociale della Russia d'oggi. Qui, perciò, ripubblichiamo il tema della prima e della seconda seduta della Riunione: Ripiegamento e tramonto della Rivoluzione bolscevica - La mentita opposizione tra le forme sociali Russe e Occidentali - Il sistema socialista alla "FIAT"?

 

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La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea

  

 

A) Ripiegamento e tramonto della Rivoluzione bolscevica

 

 

1. LA LOTTA INTERNA NEL PARTITO RUSSO

 

La storia non entra nell’uomo per la testa; non per tale via lo conduce ad agire; sì che il poverino si illuda che è lui a manipolare lei. È per questo che nell’assaporare e digerire le lezioni storiche ogni poverino di noi non può resistere al prurito di cambiare quello che fu l’inesorabile accadimento, e solo dopo ripetute masticazioni e ruminature riesce a trarre il costrutto di quel che è stato, perché così doveva essere.

Gli eventi stritolanti del dramma sociale non sono come alcune produzioni di Pirandello e alcuni films messi in commercio, che hanno il doppio finale, in modo che, nelle file del pubblico, l’isterismo, delle gagarelle e dei gagarelli magari stagionati, può scegliere quello che lo fa meglio vibrare.

Non ha quindi molto senso il chiedersi “come si sarebbe dovuto fare” ad impedire che Stalin, che lo stalinismo, avessero partita vinta, e il partito che aveva vinto la Rivoluzione di Ottobre, lo Stato che esso aveva fondato, facessero la miserevole fine, che abbiamo dimostrato in tutto il decorso.

L’impressione è più dura oggi che perfino gli apologeti dannati di quella soluzione, che la storia ha archiviato, sono stati costretti a non poter più dire che tutto era andato per il meglio nella migliore possibile rivoluzione, che una costellazione di sbagli, di nefandezze, di infamazioni, di inutili (!?) allucinanti stragi si è concatenata al processo dei fatti.

La riunione ha avuto per tema l’insieme del lavoro e degli studi dedicati dal movimento alle questioni della Rivoluzione e della struttura sociale in Russia.

Se più ragionevolmente ci domandiamo le cause che hanno influito sulla diversa strada che il movimento in quel torno ha preso, possiamo anzitutto ravvisare la principale nella sconfitta del proletariato dei paesi occidentali che, ripetutamente battuto, mostrò chiaramente di non essere in condizione di vincere la lotta per il potere. L’Europa era già da vari anni entrata in una situazione più sfavorevole a tutti i partiti comunisti, e il potere borghese si era ovunque consolidato dopo il difficile periodo del dopoguerra, avendo raccolta l’alternativa fra la dittatura operaia e quella capitalista, avendo impiegato senza esitare i mezzi dì repressione, a cui chiaramente qualunque paese avrebbe ricorso nell’emergenza di evitare un potere comunista, e senza eccezioni.

Nella stasi della rivoluzione all’estero il problema della rivoluzione russa mostrava tutte le difficoltà, per intendere le quali non è necessario affatto modificare menomamente la sicura visione sostenuta da Lenin nelle lunghe tappe che abbiamo descritte. Essa era a cavallo su due forze, di cui una, la proletaria, era ancora menomata quantitativamente dal decomporsi dell’industria dopo la guerra nazionale e civile, l’altra, immane quantitativamente quella contadina, qualitativamente aveva efficienza rivoluzionaria solo in una fase di passaggio, fino a che erano da adempiere postulati non socialisti, propri di una estrema rivoluzione borghese, ma borghese. Sempre si era detto (e abbiamo provato quando è come) che nella fase ulteriore l’alleato sarebbe divenuto necessariamente nemico. Il contadiname interno come alleato non poteva sostituire l’alleato naturale della rivoluzione bolscevica, ossia la classe operaia dell’estero: era un sostituto inferiore, ed efficiente solo in un termine che consentisse di riprendere respiro, per ridare prevalenza di massa ai proletari autentici.

 

2. IL GRANDE SCONTRO DEL 1926

 

Era chiaro che per sorreggere l’energia proletaria nelle città occorreva ricostituire l’industria e aumentarla: questo era chiaro da prima della morte di Lenin - che noi non allineiamo affatto tra le “cause” di quel che sopravvenne. In questo tutti erano concordi. Ma nelle campagne si era costretti, in sostanza, se si voleva avere l’aiuto dei contadini nella guerra civile e nell’economia generale, a non procedere nella direzione di una proletarizzazione rurale. Lenin aveva duramente ammesso di aver dovuto sostare sul programma dei socialisti rivoluzionari, battuti dal bolscevismo in dottrina e sui campi di battaglia sociale. Infatti si dovette agire in modo che aumento il numero dei lavoratori nelle campagne aventi disposizione personale e familiare di terra coltivata, colla disposizione del prodotto. Scaturì da ciò l’enorme potenziale rivoluzionario della spezzata disposizione del prodotto da parte dei signori terrieri, semifeudali e semi-borghesi, e senza questo spostamento di forze non si sarebbe vinta la guerra civile: nessun posto per pentimenti. Come abbiamo mostrato e andiamo mostrando, scarso rimedio è la teorica dichiarazione che la terra era nazionalizzata, proprietà dello Stato operaio, perché non la proprietà giuridica, ma la gestione economica coi suoi taglienti rapporti, provoca i riflessi sociali di attività politica e combattiva.

Né Lenin aveva taciuto mai che, una volta battute le incursioni capitalistiche armi alla mano, per accelerare la ricostruzione industriale, ossigeno di vita rivoluzionaria, occorreva ottenere dall’industria estera macchinari, esperti, tecnici, e alla fine capitali in varie forme, che non si potevano avere senza l’offerta di contropartite (concessioni). Queste non potevano in altro consistere che in forza di lavoro interna, e materie prime interne.

La parte sana e proletaria, la sinistra (qui dobbiamo esprimerci con brevità) del partito russo, fedele alle tradizioni di classe, pose la questione nei più volte citati (e letti in brani suggestivi alla riunione di cui riferiamo) discorsi di Zinoviev, Trotzky, Kamenev (anche questo particolarmente deciso, esplicito e coraggiosissimo, contro le urla di rabbia dell’adunata) innanzi alla sessione di dicembre 1926 dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista.

Con decisive citazioni sull’argomento della rivoluzione internazionale, questi nostri grandi compagni provarono che fino alla vittoria della dittatura operaia in alcuni almeno dei paesi capitalisti sviluppati, la rivoluzione russa non poteva rimanere, più o meno a lungo, che in fase di compiti transitori. E ciò non solo nel senso che andava rigettata la formula di Stalin di “costruzione del socialismo in un solo paese”; anzi, e peggio, in un paese come la Russia. Infatti nel ritardo dell’Europa proletaria non solo non poteva in Russia apparire una società, una forma di produzione socialista, ma anche i rapporti di classe non avrebbero potuto essere quelli di una dittatura proletaria pura, ossia diretta contro ogni classe superstite, borghese e semi borghese. Compito dello stato proletario e comunista sarebbe stato quello di edificare un capitalismo industriale di Stato, indispensabile anche ai fini della difesa armata del territorio, e di condurre nelle campagne una politica sociale atta ad assicurare alle città i generi di prima necessità e ad evolvere, lottando contro il pericolo di una privata accumulazione capitalista rurale, verso una industria agraria di Stato, che era ancora ai primi albori.

 

3. I CINQUANT’ANNI DI TROTZKY

 

Non per la prima volta insistiamo sulla alta visione rivoluzionaria dello stroncato discorso di Trotzky, il quale mostrò con magnifica chiarezza come lo svolgersi della primordiale economia russa verso forme più moderne avrebbe reso sempre più tremende le influenze economiche e politiche del capitalismo mondiale, e questo avrebbe costituita una minaccia sempre capace di attentare alla vita stessa della Russia rossa, fin che il suo interno proletariato non lo avesse su alcuni fronti battuto.

Insistiamo qui ancora sul fatto già assodato che nei discorsi dì Bucharin e di Stalin (a parte le rifischiature dei vari scagnozzi centristi) nel vantare possibile l’avvento del socialismo integrale in una Russia accerchiata dal mondo borghese, non si escluse affatto, anzi si ritenne sicura, sulla scorta della dottrina di Lenin, una guerra micidiale tra Russia socialista e Occidente borghese, e si stabilì la linea da seguire in una tale guerra, mirando alla rivoluzione mondiale: guerra di classi e di stati, a cui Stalin (mostrammo) ha fatto riferimento in seguito, tanto sulla soglia della seconda guerra imperialista del 1939, quanto nel suo “testamento” del 1953, che il XX Congresso ha con tutto il resto gettato alle ortiche.

Trotzky e gli altri mostrarono senza esitare (vedi in ispecie Kamenev) che la vanteria di montar socialismo non altro era che ritorno del peggiore opportunismo, e che chi avesse levata tale bandiera (Stalin e antistalinisti di oggi) sarebbe in fatto finito nelle braccia del capitalismo imperialista, come fu. Posti davanti alla domanda insidiosa di che cosa “avrebbero fatto” nel caso di una lunga stabilizzazione del capitalismo, risposero che in quella virile e non ipocrita posizione poteva il partito, pure ammettendo di dirigere, col proprio stato politico, una economia ancora capitalista e mercantile, resistere sulla trincea della rivoluzione comunista anche decenni e decenni.

Era a qualche compagno sembrato che un simile termine ultimo fosse stato da Lenin formulato in venti soli anni, e ciò a proposito della nostra accettazione dei cinquanta anni di Trotzky che conducono al 1976, data che noi attribuiamo all’incirca al possibile avvento della prossima grande crisi generale del sistema capitalista nel mondo, ovvero alla terza immane guerra imperialistica. Fu quindi necessario dare le citazioni relative ad un tal punto. Non è grave che il rivoluzionario veda la rivoluzione più prossima di quello che è; la nostra scuola la ha già tante volte attesa: 1848, 1870, 1919. Visioni deformate l’hanno aspettata nel 1945. Grave è quando il rivoluzionario mette un termine per ottenerne la prova storica: mai l’opportunismo ha avuta altra origine, mai ha altrimenti condotte le sue campagne di sofisticazione, di cui quella del socialismo in Russia e la più velenosa.

Trotzky aveva parlato alla XV conferenza del Partito comunista bolscevico, difendendo la tesi della opposizione. Nella sessione dell’Allargato Stalin risponde al suo discorso di allora. Trotzky era giunto nella sua replica a questo punto quando gli fu spietatamente tolta la parola. Siamo costretti a ritrovare la tesi di Trotzky nelle parole del suo avversario.

 

4. LA POSIZIONE DI STALIN

 

Stalin in quello svolto, come sappiamo, attenuò la tesi economica (prova che questa è stata in partenza un demagogico posticcio) col dire che la sua formola di costruzione del socialismo significava vittoria sulla borghesia, e successiva edificazione delle basi economiche del socialismo. Gli avversari provarono ad usura quanto egli fosse, costretto dalla prova schiacciante che la sua formula non è in Lenin, e nemmeno in Stalin, o altro, prima del 1924, subdolo, e mascherato da (oggi possiamo dire) molotoviano.

Stalin preferì allora, come suo costume, darsi a diffamare il contraddittore con argomenti tanto banali quanto di facile effetto sul pubblico: gli oppositori non solo non credevano al socialismo in Russia ma nemmeno alla rivoluzione non lontana nei paesi capitalistici: essi volevano ammettere uno sviluppo capitalista in Russia, dunque simpatizzavano per il capitalismo estero.

Un Trotzky non poteva rispondergli come un buffone. Da gran dialettico gli disse che avrebbe creduto e lottato per la rivoluzione europea anche in un avvenire vicino, ma che, se questa non si fosse levata o non avesse prevalso, la Russia bolscevica poteva resistere senza falsificare tradizioni, dottrina e programma rivoluzionario anche cinquant’anni.

Fin dalla riunione di Genova noi rilevammo tra le risate dell’uditorio che tra i fieri stigmatizzatori del “pessimismo” di Trotzky verso la rivoluzione fu allora, tra altri farisei, l’Ercoli, che garentì per una rivoluzione vicinissima; laddove Ercoli non è che Togliatti, e laddove già l’anno scorso, ma con più pacchiana piattitudine oggi, dopo sputato anche su Stalin, fece e fa piani storici costituzionali e legalitarii, nel seno della repubblica attuale e in collaborazione con la democrazia nera, con scadenze ultra cinquantennali a partire da oggi; che diciamo? assicura, in unisono alla banda di Mosca, al mondo borghese una illimitata esistenza, nella pacifica ed emulativa coesistenza!

Citiamo allora Trotzky nella bocca di Stalin.

“La sesta quistione concerne il problema delle prospettive della rivoluzione proletaria. Il compagno Trotzky ha detto nel suo discorso alla XV conferenza: Lenin stimava che, dato lo stato arretrato del nostro paese contadino, noi non arriveremo in venti anni a costruire il socialismo, che noi non lo costruiremo neppure in trent’anni. Ammettiamo trenta-cinquanta anni come minimo. Debbo dire, compagni, che questa prospettiva inventata da Trotzky non ha niente di comune colle prospettive di Lenin sulla rivoluzione nella Unione Sovietica. Alcuni minuti dopo, nel suo discorso, Trotzky si mette egli stesso a combattere questa sua prospettiva. Affare suo”.

È evidente che Trotzky non si era contraddetto, ma aveva anzitutto auspicato una rapida rivoluzione estera. Aveva poi aggiunto che il ritardo di questa non vietava al partito di tenere la sua posizione integrale, senza la sciocca alternativa di Stalin: attuiamo subito il massimo programma socialista, o lasciamo il potere tornando alla opposizione, perseguendo una nuova rivoluzione. Trotzky aveva distrutta la insidiosa alternativa colla autorità di Lenin, che, pure avendo sempre e ad ogni istante dichiarato che la trasformazione sociale russa avrebbe potuto procedere rapida dopo la rivoluzione operaia europea, e anche solo germanica, aveva formulata la chiara eventualità della Russia sola, e previsto il tempo che occorreva, decenni e decenni, non a costruire il socialismo, ma a qualche cosa di ancora molto meno, e preliminare!

Non potevamo leggere alla riunione il discorso della XV conferenza, e ci limitammo a dare come prova il passo di Lenin, in quanto è Stalin stesso, che lo cita subito dopo.

 

5. I “VENTI ANNI” DI LENIN

 

Ecco le parole di Lenin, come sono nello stenogramma del discorso Stalin 2 dicembre 1926, e che non vi è bisogno di riscontrare nel testo di origine, tanto sono eloquenti, e di importanza colossale per dissipare dubbi ed esitazioni di chicchessia. Sono riferite al Vol. IV pag. 374 delle Opere complete in russo: “Dieci, venti anni di buoni rapporti con i contadini e la vittoria è assicurata nel mondo intero (ci permettiamo leggere: davanti o contro il mondo intero), anche con un ritardo delle rivoluzioni proletarie che grandeggiano, altrimenti venti o quarant’anni di tormenti sotto il terrore bianco” [Cfr. Lenin, Schema dell'opuscolo sull'Imposta in natura, aprile 1921, Opere, vol, 32, p. 303].

Qui preghiamo Stalin di farsi da parte colla risibile glossa che fa seguire, pur non volendo nemmeno per sogno essere tanto beceri quanto quelli del XX congresso, come prova il fatto che non abbiamo mandato i suoi testi fuori archivio.

Stalin infatti deduce che i venti anni sono un lasso di tempo per fare tutto il socialismo. Oh, que nenni!

Lenin dice questo. Sono necessari i buoni rapporti coi contadini, e molto a lungo. Non osta a questo il fatto palese che quando vi sono contadini, rapporti coi contadini, e peggio rapporti buoni, non vi è né il socialismo, né la sua completa base. Ma intanto è la sola via per resistere, coll’appoggio armato dei contadini, rispettati nei borghesi loro interessi, ai conati del mondo capitalistico accerchiatore e aggressore, non rovesciato ancora dalla rivoluzione occidentale.

Altro non si può fare, e se si avesse scrupolo dottrinale o sentimentale di amplessi col contadiname, destinato (citammo cento passi di Lenin in merito) a futuro compito controrivoluzionario, le nostre forze armate sarebbero battute dalla reazione borghese e zarista, e ci papperemmo i 40 anni di terrore bianco.

Passati venti anni, Lenin ammette che ormai il nemico armato esterno ed interno non sarà più il pericolo n. 1. Allora, dice Stalin, ecco fatto il socialismo! Ma no, disgraziato idolo oggi infranto: allora si passa ad un’altra fase che nemmeno - sempre nella ipotesi del ritardo rivoluzionario occidentale - può dirsi socialismo. Si denunzia ogni buon rapporto coi contadini, si mettono, da compagni nella dittatura, sotto la dittatura, e sulla base della potente industria urbana di Stato si inizia una nuova fase di capitalismo di Stato totale, anche nella campagna. In altre parole anche i contadini aziendali sono espropriati e passano a proletari autentici. Ciò che la notizia dell’Associated Press attribuiva a propositi di oggi del regime sovietico: in teoria è giusto, perché i quarant’anni sono passati: ma quel potere è ormai declassato e borghese, e nemmeno la statizzazione borghese della campagna è più facoltà sua!

La prospettiva di Lenin è come sempre imponente di forza e di coraggio. Si lega all’antica previsione: dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Ossia dichiara: se non viene la rivoluzione in Europa noi non vedremo in Russia il socialismo. Non per questo lasceremo il potere, non per questo diremo, con formula tanto sfacciatamente menscevica del 1903 quanto staliniana del 1926 (puramente polemica!): “borghesia, governa pure, e noi passiamo buoni buoni a oppositori”; ma seguiremo la nostra luminosa via: alcuni decenni coi contadini alleati (che, se prima si leva l’alleato operaio estero manderemmo al macero in quarta velocità) e lotta, diretta dal proletariato, contro le rivolte al nuovo Stato, contro gli attacchi dall’estero, e per gettare le basi industriali del futuro socialismo. Indi, dopo questa prima fase transitoria ma senza altre interne rivoluzioni politiche, fase del capitalismo di Stato totale, urbano e rurale. Da questo classico ultimo gradino di Lenin al socialismo non mercantile, (al di là del rebus dello “scambio” tra industria e agricoltura, ridotto alla ovvia collaborazione di due rami industriali, nel piano generale sociale) si salirà un giorno al fianco dei lavoratori vittoriosi di tutta Europa.

E di qui lo sfavillante corollario dì Leone Trotzky: anche dopo cinquant’anni, se occorre, perché nemmeno la metà di un secolo ci vedrà mai, se non travolti colle armi nel pugno, abdicare il potere conquistato da una generazione di martiri proletari - e contadini -, ovvero compiere il passo ancora più vile di ammainare la Bandiera della dittatura e del comunismo!

Come avviene oggi, fitto nella vergogna lo stesso Stalin, con la disonorata offerta di pace al capitalismo universale.

 

6. RIVOLUZIONI CHE SBRIGANO COMPITI ARRETRATI

 

Nel corso dell’esposizione il relatore volle dare alcuni esempi storici atti a togliere le eventuali ultime incertezze dialettiche circa la logica della soluzione abbracciata: potere proletario, socialista, comunista, che vive e lotta col suo partito e nello Stato rivoluzionario, mentre tutti i compiti economici sono di contenuto inferiore, capitalista, e perfino precapitalista.

Un simile quesito va distinto dall’altro, del tutto naturale nel suo sorgere, cui da non pochi anni abbiamo risposto con esempi di natura storica: Dato che si sostiene che il potere di classe oggi in Russia non è più del proletariato, e nemmeno di una alleanza tra proletariato e contadini poveri, ma è potere borghese e capitalistico (malgrado l’assunta fisica distruzione dei componenti una classe sociale borghese), come non si è assistito ad uno svolto di aperta lotta per il possesso e la conquista del potere, che evidentemente poteva solo compiersi in forme armate? A questo secondo quesito (a parte il notare che la distruzione della opposizione nel seno del partito al potere fu sanguinosissima e di massa, anche se non si manifestò una resistenza collettiva alla repressione) rispondemmo allora anche col metodo storico, citando casi di classi che sono decadute dal potere senza perderlo in una lotta, tra essi quello dei Comuni italiani, primo esempio di dominio della borghesia come classe, che scomparvero senza una lotta generale cedendo il posto a Signorie di tipo feudale e ad una nobiltà terriera venuta dal contado delle città. Per ben altra via doveva poi la classe borghese, dopo secoli, risalire al potere, e stavolta dopo insurrezioni e guerre guerreggiate.

Ora non vogliamo solo provare non contraddittorio alla teoria generale l’accadimento storico in esame, della degenerazione del potere sociale, ma l’altra ipotesi storica costruita in dottrina e non verificatasi per le ripetute condizioni; cioè la persistenza di un potere di classe, che per lunga fase non attui le forme sociali sue caratteristiche, e sia costretto dalla determinazione storica ad attuare forme diverse, e storicamente anteriori, più arretrate, e compiere quella che vorremmo definire un’onda di rigurgito delle rivoluzioni. Poiché non è conforme alla nostra difesa della validità di una dottrina della storia sorta col marxismo materialista l’ammettere un decorso eccezionale per un paese singolo, la Russia; o per una storica fase singola, come la distruzione del sistema zarista all’inizio del secolo in corso.

Ed assumiamo che altre classi, diverse dal proletariato, e in altri paesi che non la Russia, hanno dovuto attendere ad analoghi compiti, loro imposti dal procedere delle cause economiche e sociali e dallo svolgersi dei rapporti di produzione. Ci siamo pertanto riferiti agli Stati Uniti d’America ed alla guerra civile del 1866.

 

7. RIVOLUZIONE AMERICANA ANTISCHIAVISTA

 

Sotto altri riflessi abbiamo avuto a parlare della rivoluzione nazionale americana della fine del secolo XVIII. Marx poneva un parallelo tra questa guerra di indipendenza che chiamò segnale della rivoluzione francese-europea a cavallo dei due secoli, e la guerra di secessione tra Stati del Nord e del Sud, da cui attendeva altro segnale ad un movimento sociale proletario dell’Europa, che con le guerre nazionali di quegli anni 1866-71 non si scatenò.

La guerra di liberazione dagli inglesi dei coloni della Nuova Inghilterra fu una guerra di indipendenza, ma non si può nemmeno dire propriamente una guerra-rivoluzione nazionale come quelle europee di Italia, Germania, ecc. Mancava l’elemento di razza poiché i coloni erano di nazionalità mista, e prevalentemente identica a quella dello Stato metropolitano, e soprattutto fattori economici e commerciali li sollevarono all’emancipazione politica.

Tanto meno una tale guerra può dirsi una rivoluzione borghese, in quanto in America il capitalismo non sorgeva da locali forme feudali o dinastiche, non eranvi aristocrazia e vero clero, e d’altra parte l’Inghilterra contro cui si insorse era compiutamente borghese dal XVI-XVII secolo e aveva abbattuto il feudalismo radicalmente da allora.

La teoria della lotta tra le classi, e quella della serie storica dei modi di produzione percorsa analogamente da tutte le società umane, non vanno mai intese come banali e formali simmetrie e la loro applicazione non può farsi senza un engelsiano allenamento al maneggio della dialettica. Sempre a proposito dell’indipendenza nordamericana la scuola marxista notò ripetutamente come la Francia ancora feudale di prima del 1789 simpatizzò in forme positive con gli insorti, contro la capitalista Inghilterra; la quale doveva poi ripagarsi nelle coalizioni antirivoluzionarie, e infine vincendo a Waterloo con la Santa Alleanza feudale.

Nell’esempio della guerra civile del 1866 non sono in gioco fattori di libertà nazionale e nemmeno in fondo un fattore razziale. Gli Stati del Nord combattevano per abolire la schiavitù dei negri diffusa e difesa nel Sud, ma non si trattò di una ribellione dei negri, che di massima combatterono nelle formazioni sudiste a fianco dei loro padroni. Non si trattò di una rivoluzione di schiavi per abolire il modo schiavista di produzione, a cui succedessero la forma aristocratica e il servaggio nelle campagne, il libero artigianato nelle città. Nulla di paragonabile al grande trapasso storico tra questi due modi di produzione, che si ebbe alla caduta dell’Impero Romano e con l’avvento del cristianesimo e le invasioni barbariche, tutti fattori conducenti all’abolizione, nel diritto, della proprietà sulla persona umana.

In America la borghesia industriale del Nord condusse una guerra sociale e rivoluzionaria non per conquistare il potere a danno dell’aristocrazia feudale, che non era in America mai esistita, ma per provvedere ad un trapasso nelle forme di produzione assai ritardato rispetto a quello con cui storicamente nasce la società borghese: la sostituzione della produzione a mezzo di manodopera schiava con quella a mezzo di salariati, o di artigiani e contadini liberi, mentre le borghesie europee avevano dovuto lottare solo per eliminare la forma del servaggio della gleba, molto più moderna e meno arretrata della schiavitù.

Ciò prova che una classe non è “predestinata” ad un solo compito di trapasso tra forme sociali. La borghesia americana non dovette dedicarsi ad abolire i privilegi feudali ed il servaggio, ma tornare indietro e liberare la società dallo schiavismo.

 

8. PARALLELO DIALETTICO

 

Vi è in questo esempio l’analogia col compito della classe proletaria russa, che non fu il passaggio dalla forma capitalista a quella socialista, ma il precedente rigurgito storico del salto dal dispotismo feudale al capitalismo mercantile; senza che ciò menomamente urti la dottrina della lotta di classe tra salariati e capitalisti, e della successione della forma socialista a quella capitalista, ad opera della classe salariata moderna.

I terrieri del Sud furono battuti nella rivoluzione 1866 dalla borghesia industriale, sebbene più indietro nella storia dei nobili feudali in quanto padroni di schiavi, e sebbene più avanti di essi in quanto già esisteva una trama sociale mercantile. La borghesia nordista non esitò ad assumersi un compito rigurgitato, ed assolto altrove da ben altre classi; dai cavalieri feudali e germanici, o dagli apostoli di Giudea: liberare gli schiavi.

Può obiettarsi che tale lavoro di pulizia storica non lasciò al capitalismo del Nord altri compiti di rivoluzione. Ma se il Sud avesse vinto nella guerra civile, come ve ne fu una certa probabilità, da una parte il compito sarebbe rimasto per l’avvenire, dall’altra ben diverso sarebbe stato il prorompere del capitalismo d’America lanciato al primo posto nel mondo.

In Russia il compito di distruggere l’ultimo feudalesimo non era poco per una classe operaia vittoriosa tra così terribili prove, mentre era certamente troppo quello che Stalin finse si volesse da lei, cioè l’abbattimento del capitalismo di tutti i paesi. Questo doveva rimanere, rimase, e rimane il compito proprio della classe operaia nei grandi stati industriali più avanzati del mondo.

 

9. PERCHÉ NON SI FECE RICORSO ALLE ARMI?

 

Questa domanda ebbe a porsela Trotzky, il quale aveva con altri valorosi bolscevichi, fino alla morte di Lenin e dopo, le forze armate a sua dipendenza. Né egli né altri della corrente con lui solidale allora e dopo ricorsero alla forza, né pensarono di scatenarla colle formazioni di Stato o di organizzarne di nuove. La polizia ufficiale, e il pieno controllo dell’esercito, permisero alla corrente che aveva prevalso nel partito di battere i suoi avversari ed operarne in seguito il vero sterminio, in quanto i passati ai plotoni di esecuzione furono ben lungi dal limitarsi ai soli notissimi processati, ma giunsero a migliaia e diecine di migliaia di lavoratori e di bolscevichi, vecchi e giovani.

Le armi dunque decisero, ma questa volta ebbero le bocche in una direzione sola. Stalin disse, e doveva dire, che era una direzione di classe: ma oggi, 1956, ai suoi sodali di allora viene meno la tentata prova che i battuti militavano per la borghesia straniera. Grandeggia oggi la prova di Kamenev, potente oratore, che la destra opportunista erano i vincitori, e che la sanguinosa battaglia fu vinta dallo stalinismo, dalla parte “solorussista”, oggi più che mai avvinta a quelle origini, in servizio del capitalismo internazionale.

Stalin giocò molto, collo sventurato Bucharin, nel sostenere che la opposizione mancava di una linea decisa ed era un informe blocco di sabotatori. Bucharin pagò l’errore, non con pentimenti da imbecille o da pusillo, ma passando poi in quel che non era blocco, ma era il solo partito della rivoluzione, per aggiungere la fiera testa a quelle cadute; e fu quegli che non la piegò di un centimetro nelle più feroci inquisizioni.

Ma in effetti la linea delle opposizioni russe non era continua. Al tempo di Lenin, di Kollontai, della pace di Brest Litowsk (sempre Bucharin!), della resistenza alla NEP di Lenin dipinta come debolezza verso i contadini, della rivolta oscura di Kronstadt, coi motivi di opposizione ai primi atti di governo del partito bolscevico sì unirono, tra generose ingenuità, errori gravi, anarcoidi, sindacalisti e laburisti; avversioni ai cardinali principii: dittatura, centralismo, rapporto tra classe e partito.

Nella prima opposizione di Trotzky nel 1924, in cui Zinoviev e Kamenev condussero con Stalin la lotta che lo scalzò dai comandi militari, la posizione non era esauriente. Non fu denunziato il pericolo di destra nel partito e non ancora individuata, come magnificamente al 1926, la insidia radicale della teoria edificatrice del socialismo russo, terga volte alla rivoluzione internazionale. Si denunziarono le sopraffazioni staliniste colla giusta reazione alla imposizione di stato contro membri dissenzienti del partito, mentre nella dittatura rivoluzionaria il partito è sovrano rispetto allo stato. Ciò si prestò a equivocare con rivendicazioni banali di “democrazia”.

 

10. LA BUROCRAZIA, MIRA SBAGLIATA

 

Ma si enunciò anche, allora, una teoria sbagliata e pericolosa. Il potere in Russia era oramai tolto alla borghesia e pienamente proletario, ma cadeva nelle mani di una nuova e terza classe, la burocrazia statale e anche di partito.

Abbiamo dedicato molto lavoro a provare che la burocrazia non è una classe e non può divenire soggetto di potere, come nel marxismo non è soggetto di potere il capo, il tiranno, la cricca, o l’oligarchia! La burocrazia è uno strumento di potere di tutte le classi storiche, e viene primo a putrefare quando queste sono decrepite, come i farisei e scribi di Giudea, i pretoriani e liberti di Roma. Amministrare il trapasso da zarismo a capitalismo industriale, frammisto ad agricoltura libera, nulla può farsi senza un vasto apparato burocratico, che contiene debolezze e pericoli. Un partito centralizzato e di forti tradizioni non dovrebbe temere la burocrazia in sé, e può fronteggiarla con le misure della Comune esaltate da Marx e Lenin: governo poco costoso, rotazione e non carriera, salario di grado operaio. Tutte le innumeri degenerazioni sono state effetto e non causa dei capovolti rapporti di forze politiche.

Non il socialismo dovrà temere il peso della burocrazia, sì la economia diretta basata su aziende isolate contabilmente ma statizzate; il capitalismo di stato che nuota nella vasca mercantile.

Questo statismo-dirigismo mercantile non sfugge a tutte le inutili anarchiche operazioni della contabilità in partita doppia e dei diritti individuali di persone fisiche e giuridiche. In ambiente mercantile l’ingombrante pubblico apparato non si muove che su iniziativa singola e privata: tutto si fa su domande che vengono dalla periferia al centro, si contendono il campo, esigono penosi confronti e conteggi anche per essere rigettate. Nella gestione socialista tutto è disposto dal centro senza discussioni, tanto più semplicemente quanto il prelievo di seicento razioni ad opera del furiere di compagnia lo è rispetto a seicento acquisti di cose diverse di qualità e quantità, alla loro deliberazione, registrazione, incasso, reclamo, accettazione o rifiuto e sostituzione e via per mille altri vicoli.

Un sistema capitalista e monetario può temere come male sociale, ma non come terza forza classista, la burocrazia. Il socialismo anche dello stadio inferiore e non comunista, ossia a consumo razionato ancora, in quanto fuori dallo strumento monetario e di mercato, lascia la burocrazia nel solaio tra i ferri vecchi, come farà, giusta Engels, dello Stato.

L’opposizione russa tardi vide il suo nemico, e perciò dovette soccombere senza adeguata lotta. Nel 1926 non potette che consegnare alla storia le sue armi dottrinali, ed eroicamente cadere. Ma quelle bastarono a distanza di anni a farci assistere alla morte di molti dei boia, e alla liquidazione del condottiero Stalin che, uscito male da quest’ultimo scontro di teorie, aveva però trionfato sui cadaveri dei suoi avversarii, in modo che il mondo credette non solo feroce, ma anche inappellabile.

 

11. PERCHÉ NON CI SI APPELLÒ AL PROLETARIATO?

 

Quest’ultima ingenua domanda può riferirsi al proletariato mondiale e a quello russo. Fu appunto accusato il gruppo Trotzky dì appellare contro la decisione del partito russo alla Internazionale comunista: mentre erano stati dal partito diffidati a non farlo, e furono accusati di avere promesso e mancato. In altri punti abbiamo riferito come fin dal febbraio 1926, in precedente Esecutivo allargato del Komintern, la lotta era aperta nel partito russo e la si portò in una commissione, ma non al Plenum. Presenziavano per l’ultima volta, prima degli arresti in massa, i delegati della sinistra italiana.

Allora non si parlava del “blocco” con Trotzky, e noi fummo i soli a prevederlo, o meglio a definire identica la posizione di Trotzky, Zinoviev e Kamenev, derisi dai conoscitori dei segreti della vita bolscevica.

Ebbene, i delegati italiani di sinistra, dopo essere stati i soli a sostenere contro Stalin che il problema dell’indirizzo della Russia era problema internazionale, furono diffidati dal sollevarlo nel Plenum allargato con l’argomento, molto “politico”, che ne avevano diritto, ma la discussione (che si ebbe poi nel dicembre successivo) avrebbe provocato più severe misure disciplinari contro i compagni oppositori nel seno del partito russo. Sebbene paralizzati da questa pesante responsabilità i sinistri italiani andarono alla tribuna del congresso ma il loro intervento provocò solo un tumulto e la chiusura della discussione, sotto pretesto che tanto chiedeva il partito russo, unanime tra maggioranza ed opposizione!

In quegli stessi mesi gli oppositori germanici - tra i quali tuttavia le tendenze anarcheggianti e sindacaliste non mancavano - proposero agli italiani di uscire dalla Internazionale, denunziandola come non rivoluzionaria e fondando un nuovo movimento (più tardi i trotzkisti dovevano fondare la Quarta).

La sinistra italiana, che prima aveva da anni denunziato il pericolo opportunista, prevedendone il dilagare, tuttavia allora non così manifesto come oggi, sulla base della sua precisa linea marxista, non si credette in condizione di accettare un simile invito. Né, dopo, quello dei trotzkisti.

Quanto al demandare il giudizio sul grave tema storico ad una consultazione non della massa del partito ma di quella del proletariato russo, tale proposta apparentemente ovvia non ha alcun fondato contenuto. Da allora, e sempre più, congressi del partito e dei Soviet inneggiarono a Stalin e ai suoi metodi, che non erano ubbia personale ma indirizzo di collettive forze storiche, in grado, nella vicenda, di prevalere.

La vittoria dello stalinismo, forma moderna e deteriore del tradimento alla rivoluzione comunista, era dunque colla lotta del 1926 scontata, ed era chiaro fin da allora per la opposizione comunista internazionale che la lontana salvezza non poteva venire che traverso al ciclo totale della degenerazione dello Stato e del partito russo, e degli avanzi della Internazionale; non prima di poter fare il bilancio, teoricamente allora già impostato, del gettito fuori bordo uno dopo l’altro di tutti i principii cardinali della rivoluzione di Marx e Lenin.

Dopo le vergogne della seconda guerra mondiale [qui, erroneamente, il testo originale riporta "terza guerra mondiale"] e del fornicare con i due imperialismi borghesi, è venuta quella più grave della tregua, della pace e domani della identificazione con essi. Ciò dopo tanto amaro e lungo travaglio, rende la grande riscossa non immediata, ma certamente meno lontana.

 

 

Partito Comunista Internazionale

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